Getting Better: le 250 migliori canzoni dei Beatles classificate, valutate, commentate.

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[questo articolo è uscito su Loudd.it]

Nel 2020 c’è ancora qualcosa da dire sui Beatles? Almeno 416 pagine. È appena uscito per Arcana “Getting Better: le 250 migliori canzoni dei Beatles classificate, valutate, commentate”. L’autore, Leonardo Tondelli, è uno dei più seguiti blogger italiani e online da più tempo, considerando che ha pubblicato il primo post a gennaio 2001 e, da allora, non ha mai smesso. Insegnante presso una scuola secondaria di primo grado, Leonardo scrive di tutto ma è specializzato in creature leggendarie: le divinità della religione, quei santi che tiriamo in ballo nei momenti in cui canalizzare l’ira lenisce il dolore fisico, e le divinità della musica, come Bob Dylan e il quartetto di Liverpool, su cui invece a scherzarci su ne va della nostra incolumità.

Poco più di un anno fa Leonardo ha dato il via al suo progetto di pubblicare su Il Post una monumentale classifica di 250 brani dei Beatles, assumendosi la responsabilità di ordinarli dal “meno” migliore al “più” migliore, anche se è uno strafalcione che fa venire la pelle d’oca ma scrivere peggiore, a proposito di qualunque cosa inerente ai Beatles, credo sia vietato.

Gli articoli sono stati poi raccolti in un libro uscito lo scorso 22 ottobre, a cavallo tra quello che sarebbe stato l’ottantesimo compleanno di John Lennon e la commemorazione dei quarant’anni trascorsi dai tragici fatti del Dakota Building.

Abbiamo contattato Leonardo Tondelli per aver qualche dettaglio in più sulla sua opera.

Come definiresti il tuo libro? (Ti do un indizio: un’enciclopedia)

Sicuramente non un’enciclopedia, anche perché a questo punto della Storia nelle librerie di enciclopedie beatlesiane ne trovi quante vuoi. A me sembra che il mio sia un “commento”, nel senso letterario del termine (io ho una formazione letteraria, anche se per far soldi mi sono messo a scrivere di musica). In molte case esistono ancora vecchie edizioni commentate di classici della letteratura (in Italia perlopiù Dante e Manzoni): si tratta di versioni in cui un critico, con la scusa di spiegare qualche punto difficile, si abbandona a interpretazioni e digressioni, litigando spesso con altri commentatori che sono venuti prima di lui in una lunga discussione che a volte comincia nel medioevo. Ecco, io ho fatto una cosa simile, ma con le canzoni dei Beatles come palinsesto.

L’etichetta “musica” è la seconda in classifica, nel tuo blog, con 275 post (almeno oggi, perché “santi” le sta con il fiato sul collo subito dopo con 274). In che posizione si trovano i Beatles se dovessi fare una classifica degli ascolti nella tua vita?

Può darsi che siano il gruppo che ho ascoltato di più, ma bisogna dire che sono un ascoltatore molto ondivago e svogliato. Quel che è veramente importante è il momento in cui li ho ascoltati, ovvero tra il 14 e i 18 anni, per la lezione di libertà che hanno impartito alle mie orecchie. Poi per un bel po’ li ho accantonati, al punto che quando ho cominciato questo progetto mi sono reso conto che alcune canzoni non le avevo mai ascoltate.

Ci sono due aspetti sul lavoro che hai svolto per questo libro che hanno dell’incredibile e rendono la tua opera monumentale. Il primo è come sia possibile aver così tanto da scrivere su ciascuna canzone, anche se chi segue il tuo blog sa benissimo che hai tanto da scrivere su qualunque cosa. Quanto già conoscevi e quante ricerche hai fatto?

Ho la sensazione di avere studiato molto meno di quanto avrei dovuto – anche perché è cominciato tutto in modo semiserio, e quando la cosa è diventata più seria e mi hanno proposto di farci un libro, il tempo cominciava a mancare: poi c’è stato il lockdown, le cavallette, ecc. Però per esperienza a volte più conosci la materia e meno ti resta da scriverne. C’è anche da dire che per me è naturale, ogni volta che riascolto un disco o una canzone, andare a cercare su internet cosa ne ha scritto il tal critico o il tal musicista, per cui molte idee al momento di scrivere si erano già sedimentate.

Il secondo aspetto è che non c’è nulla di più soggettivo di una classifica musicale. Il tuo approccio – le migliori 250 canzoni – può suonare improbabile per chi non è avvezzo ai toni dei social network, in cui chiunque può smontare e rimontare qualunque teoria anche solo con un diploma all’università della vita, ironicamente e non. Perché quindi una classifica e non un semplice elenco in ordine alfabetico o cronologico?

La verità è che all’inizio volevo fare un mega-torneo in stile Wimbledon, con 256 canzoni (e a volte mi torna anche la voglia di farlo), che è proprio una classica trovata da social network, salvo che di solito la gente si stanca coi tornei a 32, per cui dopo un po’ ho optato per la più semplice classifica. L’idea di affrontare i Beatles in senso cronologico mi spaventava, perché molto facilmente sarebbe diventata una storia di quegli otto anni della loro vita; una cosa che già altri hanno fatto molto meglio di quanto possa fare io. Invece cominciando dalla canzone più ‘brutta’ ho avuto a disposizione un po’ di tempo per prendere coraggio e affrontare la materia: quando sono arrivato a metà comunque ho iniziato ad avere paura, ma ormai non potevo più tornare indietro. Nel libro comunque le canzoni sono organizzate in ordine cronologico.

E poi: come sei riuscito a decidere le posizioni? Quali criteri hai adottato?

Sin dall’inizio sapevo di non essere capace di preferire una canzone all’altra, e che quindi non avrei deciso nulla: ho preso tutte le classifiche già pubblicate on line (Rolling Stone, Mojo, NME, ecc.) e ho fatto una media.

Quante canzoni hai lasciato fuori dalla classifica?

L’idea originale era di non lasciarne nemmeno una. In realtà ho sacrificato almeno una trentina di cover incise alla BBC che erano pure interessanti ma avrebbero allungato troppo il brodo. Nel frattempo è uscito il cofanetto per il cinquantenario di Abbey Road con un inedito (Goodbye), che conoscevamo già ma che fino a questo momento non era considerato un brano dei Beatles, visto che McCartney lo aveva riservato a Mary Hopkins. Tra un po’ dovrebbe uscire il cofanetto di Let It Be con altri due o tre inediti, sempre abbastanza inessenziali. Sul libro non hanno trovato spazio neanche alcuni commenti che avevo scritto per brani di Anthology e alcune outtakes del Disco Bianco; il libro era già molto grosso così, e poi mi sembrava appropriato lasciare qualche ‘inedito’ per quelli che hanno avuto la pazienza di seguirmi sul Post.

Come ti sei organizzato il lavoro?

Non l’ho organizzato, come al solito ahimè. Mi è venuta in mente l’idea, ho scritto cinque o sei pezzi, li ho mandati al pazientissimo direttore del Post che mi ha dato il semaforo verde, e poi se avessi avuto il tempo avrei cominciato dai brani che conoscevo meglio e progressivamente avrei affrontato gli altri; invece come al solito mi sono ridotto all’ultimo momento. Probabilmente certe cose mi escono soltanto se sono un po’ sotto pressione. Quando poi ho firmato il contratto sono proprio andato in blocco – tempo qualche settimana e c’è stato il lockdown, che nel mio caso è stato molto faticoso, non uscivo più di casa ma avevo troppe cose da fare. Insomma non so neanch’io come sono riuscito a rispettare i tempi. Mi ha aiutato molto la famiglia, che ha capito che stavolta dovevo davvero farcela e ha avuto pazienza e pietà di me.

Come per i grandi classici della letteratura, nel tempo si sono succeduti fior di commentatori e opinionisti autorevoli sui Beatles. Come hai affrontato la sfida di aggiungere il tuo punto di vista e una rilettura su un fenomeno su cui è già stato detto e scritto molto?

Credo che la molla sia stata proprio questa: parlare di qualcosa di cui tutti hanno già parlato, partecipare a un’enorme discussione che dura da parecchio e continuerà dopo di me. A quel punto riuscire a scrivere qualcosa di nuovo è una sfida – poi ovviamente come in ogni sfida a volte si vince e a volte si perde.

É nato prima il progetto di somministrazione graduale per Il Post o l’idea del libro?

Quando ho iniziato ero abbastanza scettico sulla possibilità del libro, perché ci ho provato altre volte con altri progetti e per un motivo o per un altro non ce n’è uno che sia andato in porto. Forse stavolta ho scelto i Beatles perché davvero, di più popolare dei Beatles non c’è neanche Gesù Cristo (un libro su Gesù Cristo non me lo pubblicano, ci ho provato).

Nei tuoi pezzi pubblicati sul Post spesso ci sono video o altri contenuti a corredo. Hai dovuto adattare qualcosa per la versione stampata? Quanto è diverso scrivere per un blog/per il web rispetto a scrivere un libro? 

La differenza macroscopica in effetti è che i contenuti web sono più multimediali: per me è importante inserire immagini e video, non solo per combattere l’effetto ‘muro di testo’, ma anche per fornire esempi o offrire argomenti collaterali. Questa cosa non sarebbe possibile su un libro (mi piacerebbe fare libri illustrati, ma sarebbe ancora più complicato per me e costoso per il lettore). L’altra differenza più importante è che i blog sono sempre un po’ più egoriferiti dei libri, o perlomeno certe digressioni personali secondo me hanno più senso su un blog che su un libro. Il problema è che in certi casi (spero pochi), se avessi tagliato le mie digressioni personali non sarebbe restato un granché.

Sei un insegnante della secondaria di primo grado. Hai mai provato a intercettare gli ascolti dei tuoi alunni con l’obiettivo di farti chiedere chi erano i Beatles?

Una cosa che ho imparato alla svelta è: mai discutere di musica con gli undicenni. No sul serio, hanno gusti agghiaccianti, uno ci resta male – poi si ricorda cosa ascoltava lui a undici anni e mette le cose in prospettiva. Anche perché per un insegnante è molto facile ottenere l’effetto inverso, ovvero causare in loro un rigetto, e non vorrei mai che si mettessero a odiare i Beatles per causa mia. Per cui se proprio dobbiamo parlare di musica di solito è Young Signorino o Sfera Ebbasta. Se poi si mettono a odiare Young Signorino per causa mia, beh, pazienza.

Prima Dylan, poi i Beatles. Chi sarà il prossimo?

Non saprei, per ora sono spossato. Ho come la sensazione che ci sia ancora un po’ di lavorare su Dylan, ero praticamente arrivato alla fine ma poi ha messo fuori altri cinque o sei dischi, di cui uno di inediti.

Cosa diresti per convincere i lettori di Loudd a comprare una classifica di canzoni dei Beatles che non vede al primo posto “Helter Skelter”?

Beh dunque, posto che è un brano straordinario con una storia pazzesca, richiamerei l’attenzione sul fatto che all’inizio non suonava poi così “loud”, e se è diventato un monumento al frastuono non è per una esigenza espressiva: è stata una decisione presa a tavolino da McCartney, che voleva dimostrare a se stesso e ai rivali di poter suonare più “loud” di chiunque. Insomma è possibile, sotto il rumore, sentire un po’ di freddezza, di artificio. Ci sono altri brani dei Beatles che forse non suonano altrettanto rumorosi, ma in cui il rumore non è fine a se stesso: penso a Tomorrow Never Knows o She Said She Said, o per tornare a McCartney, persino un brano come Oh! Darling, dove si distrugge le corde vocali con una violenza molto più immediata e sincera.

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