una lezione di musica

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Non credo che l’essere umano preferisca la musica di merda per sua natura. Ascoltiamo musica di merda perché ci educano, sin dalla nascita, ad ascoltarla. E chi ci cresce con proposte musicali di merda lo fa perché, a sua volta, ha avuto approcci con la musica di merda sin da bambino dovuti ai gusti di merda di genitori e insegnanti. La teoria secondo cui la musica di merda sia di più facile ascolto e di assimilazione più immediata non regge. C’è moltissima musica di facile ascolto che non è assolutamente musica di merda, questo indipendentemente dai gusti. La gente ascolta Baby K o Alessandra Amoroso con i Boomdabash perché nessuno offre loro delle alternative da piccoli. La prova del nove è che se offri delle alternative è facile che i gusti delle persone siano più variegati, questo senza andare a scomodare i mostri sacri della musica classica e del rock ma solo limitandoci alla proposta musicale a noi contemporanea.

Il fatto è che a nove o dieci anni i bambini sono già talmente intrisi di musica di merda – e la trap vi assicuro che è il minore dei mali – che riuscire a penetrare il loro universo sonoro con qualcosa di qualità è impossibile. Un buon cavallo di troia è quello dei video. I più giovani, quelli che non usano ancora Spotify – che è la cosa più vicina alla collezione di dischi che avevamo noi ragazzi degli anni ottanta – ascoltano musica su Youtube, arrivando cioè alla dimensione dell’audio tramite quella del video. Ed è proprio questa una delle modalità di educazione all’ascolto che ho adottato alla primaria: cerco videoclip musicali con una trama, un inizio e una fine. Veri e propri film da tre o quattro minuti, e, con la scusa di farli riflettere sulle immagini, propongo ascolti un po’ diversi dal pop italo-caraibico e iramo-ultimistico che va per la maggiore.

Mi sono preparato una playlist di brani con video annesso che ormai posso considerare rodata e con la quale riesco a catturare – e mantenere, che poi è la cosa più complessa – l’attenzione dei bambini. Una lezione di musica da due ore circa che propongo alle classi più alte – quarte e quinte – e con la quale, ad oggi, riesco sempre a fare centro.

La premessa con cui introduco la lezione è che nei video delle canzoni in cima alle loro preferenze c’è gente che balla, che si struscia e che si adopera per sedurre l’ascoltatore, anzi, lo spettatore. Che va benissimo, ci mancherebbe. Ma esistono video diversi dal modello che va per la maggiore e che, a seguirli con la dovuta attenzione, sono storie a tutti gli effetti proprio come quelle che si guardano alla tv o al cinema.


Inizio con “Coffee and TV” dei Blur. I bambini cominciano a muoversi a ritmo appena parte la batteria e, quando si anima il cartoncino di latte con manine e piedini, scoppiano a ridere. Nell’era degli effetti specialissimi, una rudimentale animazione anni novanta strappa un sorriso. La storia raccontata nel video consente diversi spunti di discussione: come ci si sente a essere minuscoli – non solo per le dimensioni fisiche – in una grande città, perché un ragazzo sceglie di andare via di casa e far soffrire mamma e papà (con l’aggravante del comportamento finalizzato a voler fare il musicista), come identificare altruismo e indifferenza, l’amore a colpo di fulmine, la gioia di riabbracciare i propri cari dopo esser stati via per molto tempo, il fine ultimo della vita che è fare del bene e, portata a termine la propria missione, si può anche volare in cielo. Il brano, dal timbro smaccatamente indie-brit-rock, non sempre convince una generazione così conformista come quella dei millennials. Però, come dicevo, è un brano oggettivamente di qualità e ci sono bambini che – giuro – prendono il diario e si segnano il nome della band e il titolo (per farne cosa, non so).


Poi metto “Paradise” dei Coldplay, un po’ più alla loro portata. Ma la sicurezza del pop lascia subito spazio a quello che trasmettono le immagini. La voglia di tornare alle proprie radici, l’Europa e l’Africa, gli artisti di strada e i modi più estremi di guadagnarsi da vivere, fare l’autostop, ritrovare la famiglia o i propri simili perché è bello stare con chi fa le stesse cose che facciamo noi, nel caso del video rivedersi per suonare insieme per poi avere un successo mondiale e tornare, però, ancora a casa perché non c’è posto più bello. Un bel messaggio, no?


A quel punto porto al limite la loro disposizione all’ascolto al di fuori della confort zone proponendo “Just” dei Radiohead. Li preparo prima dicendo che è musica un po’ vecchia e che i tipi che stanno per vedere sono un po’ weirdo, però la storia merita e soprattutto è una sfida alla loro immaginazione per scoprire il motivo che spinge il protagonista a non volersi alzare dal marciapiede su cui è sdraiato e quale ragione adduce per convincere poi tutti gli altri. Dal confronto con i bambini vengono fuori le cose più strambe, ma provate a chiedere alla classe se a qualcuno è mai capitato di avere un punto di vista o una teoria così convincente da persuadere gli altri a comportarsi come farebbe lui. C’è un leader in classe? E perché gli altri lo percepiscono come tale? Tutto questo al netto della soddisfazione di avergli fatto ascoltare i Radiohead.


Stesso discorso con “Instant street” dei dEUS. Quando dalle bocche degli avventori della discoteca escono quelle bolle strane i bambini iniziano ad appassionarsi alla trama, e il finale con il balletto all’alba al cospetto delle forze dell’ordine e lungo la via li manda in sollucchero.


Chiudo la serie con l’immancabile “Happier” di Marshmello feat. Bastille. Il motivo? Dopo essermi così tanto allontanato dall’epoca che vivono, è bene atterrare alla fine del viaggio su un territorio più simile a quello in cui sono nati e cresciuti. Prima chiedo chi ha già visto il video perché è molto popolare tra i più giovani, e se qualcuno alza la mano li prego di non spoilerare con i compagni. Io cerco di non seguirlo alla LIM perché, ogni volta, mi mette in difficoltà. La storia la sapete tutti. Alla fine chiudo il browser e, quasi sempre, cala il silenzio. La percentuale di bambini in lacrime è sempre consistente. Alcuni si arrabbiano perché, secondo loro, un insegnante non dovrebbe far piangere i suoi studenti. Così piccoli, poi. Invece il bello è proprio quello: trovarsi una classe di ragazzini sbruffoni e smantellare la loro presunzione prepuberale orientata all’adolescenza facendoli scoprire il pianto come sfogo naturale e infantile a un disorientamento emotivo. Nel caso di “Happier”, quello del dolore. Risulta però fondamentale portarli a riflettere sul significato della storia raccontata nel video: vale la pena soffrire per la perdita di un cane solo per tutte le gioie che ci ha dato con la sua amicizia disinteressata, tanto che il padre, diventato nonno, fa ripetere l’esperienza della figlia, ora mamma, alla nipote. Il finale del video riconcilia con il mondo, è vero, ma lascia un po’ di amaro in bocca perché è la vita stessa ad essere così: molto bella ma anche un po’ meno bella, a volte, però vada come vada vale sempre la pena. Un valore che può essere applicato in ogni relazione e per ogni aspetto che la vita ci riserva. La fine delle cose, per quanto poco piacevole, non cancella tutto quello che accade in mezzo, a partire dall’inizio.

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