insegnare domani

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Sono le 18:12 del 10 agosto 2016 e lo smartphone nella retina portabibite della sedia da mare brandizzata Ichnusa su cui sono seduto emette un inequivocabile tono di avviso. Mi aspetto l’ennesima rottura di scatole dall’ufficio, d’altronde sul bagnasciuga le conversazioni al telefono che cominciano con “sono in ferie ma dimmi pure” sono all’ordine del giorno. L’oggetto della e-mail, questa volta, è però qualcosa di completamente diverso: “Concorso docenti – Convocazione prova orale Scuola primaria”.

Una ditata sullo schermo e, in quella manciata di istanti che il dispositivo impiega per aprirla, capisco che è qualcosa di grosso. Passo in rassegna il colore del mare della Costa Rei, gli amici del campeggio che – come me – si godono le ore migliori della spiaggia, mia moglie sdraiata sul telo che legge, mia figlia che chiacchiera con le sue amiche, sul materassino al largo. Quindi torno a osservare il display. Mi colpisce l’intestazione del MIUR, il fatto cioè che ci sia gente che usa il logo della Repubblica Italiana in una e-mail, e che si tenti addirittura di ricreare l’impaginazione delle lettere cartacee, con la data da una parte, il destinatario dall’altra, il titolo al centro, senza rendersi conto che i client di posta e le webmail si comportano a modo loro, soprattutto se gli allineamenti a sinistra e a destra li fai aggiungendo gli spazi.

Il testo del messaggio però mi toglie ogni dubbio: il 2 settembre sono chiamato a sostenere la prova orale del concorso bandito con D.D.G. 105/16 per la scuola primaria. Questo significa che, contro ogni previsione, ho superato la prova scritta, il vero osso duro dei concorsi per entrare di ruolo. Se tutto va bene, sarò un insegnante.

A questo punto della storia è doveroso un flashback. Ho conseguito il vecchio diploma magistrale ai tempi dei Duran Duran e per caso. In terza scientifico mi sono accorto che avevo scelto un liceo fuori dalla mia portata. In più non avevo voglia di studiare, volevo diventare una rockstar e anche la prof di matematica si era messa di mezzo, sbattendomi in faccia la mia inadeguatezza. L’unica alternativa per ottenere un diploma senza ripartire da zero e senza perdere l’anno erano le magistrali, la scuola che ora si chiama liceo delle scienze umane. Nella piccola città in cui vivevo non c’era molta scelta. Ho preparato privatamente le materie d’indirizzo – pedagogia e psicologia, ho superato l’ammissione e, in due anni, sono giunto indenne alla maturità.

Ai tempi, a 18 anni scarsi potevi dare subito inizio all’iter per diventare docente di ruolo nella scuola elementare. Io però ho fatto tutt’altro. Mi sono laureato in lettere – erano i primi anni 90 – e ho avuto la fortuna – più che l’intuizione – di mettere a frutto una latente passione da smanettone per i computer entrando in quello che allora, con il web agli albori, si chiamava “multimedia”. Ho iniziato come programmatore di cd-rom, quindi mi sono occupato di contenuti per Internet per poi fare a tutti gli effetti il copy in un’agenzia di comunicazione specializzata in tecnologia. Tutto questo per più di vent’anni, durante i quali non mi è mai passato per il cervello l’idea di insegnare. Da dipendente privato, il meccanismo dei concorsi pubblici mi sembrava un sistema di recruiting anacronistico e fuori mercato, prima che impossibile da affrontare. Per non parlare dell’inferno delle graduatorie, i sindacati, la burocrazia, le supplenze e tutte quelle inutili leggi da imparare, parte del programma.

Nel frattempo ho cresciuto mia figlia e sono entrato in contatto – da utente – con la scuola pubblica italiana. Ma mi ero anche in parte stufato della routine professionale. Ore e ore al pc, creatività a comando, aspettative non corrisposte mettevano in ombra i lati positivi del mio lavoro: l’ambiente dinamico, la modalità flessibile e la consistenza della busta paga.

Avevo letto che il concorso per diventare docente di ruolo alla scuola primaria del 2016 sarebbe stata l’ultima occasione per i candidati come me, in possesso del vecchio diploma, privi della laurea in Scienze della Formazione e senza nemmeno un’ora di servizio. Ma, a dirla tutta, pur sentendo il bisogno di dare una svolta alla mia vita, fare il maestro continuava a rimanere all’ultimo posto delle priorità. Mi sembrava uno spreco, però, rinunciare a quella opportunità in extremis e sapevo che, se non ci avessi provato, mi sarei pentito per sempre.

Il processo però sembrava tutt’altro che semplice. L’iscrizione al concorso passava tramite l’attivazione di un profilo su un portale dedicato e la richiesta andava posta a una qualsiasi segreteria scolastica, che non è certo l’ambiente più user-friendly per i non addetti ai lavori. Non solo. Una volta attivato l’accesso, il sistema mi ha confuso con un omonimo, riportando dati anagrafici errati. Benvenuto nei database della PA. Alla fine, sempre per fortuna più che per caparbietà, ce l’ho fatta e ho inoltrato la domanda.

Il 30 maggio del 2016 mi sono presentato alla prova scritta “computer based” che mi ha catapultato nell’universo degli aspiranti insegnanti. C’era uno come me che si vedeva che era fuori luogo, aveva persino le iniziali cucite sulla camicia. Un altro, salito apposta da un paesino della Calabria, faceva il muratore ma “un concorso è un concorso”, mi ha detto. E poi quella ragazza che aveva fatto appena ritorno da un anno in Australia. Chissà che fortuna i suoi bambini, ho pensato, con una maestra cosmopolita.

Il fatto è che non mi ero minimamente preparato – il lavoro e la famiglia assorbivano tutte le mie energie – e persino mia moglie aveva tentato di farmi desistere dalla volontà di andare a fondo. La prova di inglese, la prima a cui mi sono sottoposto, si è rivelata alla mia portata. Nella comprensione dei testi e nella traduzione me la cavo piuttosto bene. A quella sono seguite alcune domande di cui ora non ricordo granché, se non il fatto di aver dato sfogo alla mia esperienza di copy e di aver scritto come un forsennato. Sono stato molto attento alla grammatica e alla forma e sono persino riuscito a mettere qua e là certe parole di tendenza – storytelling su tutte. Ero in un istituto tecnico per geometri a Cantù e fuori pioveva a dirotto. Uscito da lì mi sono persino sentito a disagio per aver sprecato un giorno di ferie per quella messa in scena. Ero consapevole che nessuno, leggendo le fanfaronate con cui avevo riempito le risposte alle domande aperte, mi avrebbe mai dato il minimo credito per qualunque posizione, tantomeno per quella di educatore di bambini.

Invece mi sbagliavo, e di grosso.

Torniamo così sulla spiaggia del campeggio, in Costa Rei. Metto al corrente mia moglie del contenuto della e-mail e lei mi guarda come se avessi vinto alla lotteria. Ci precipitiamo a Cagliari dove è tutto chiuso per Ferragosto. C’è solo una Feltrinelli aperta a ridosso del porto dove, ancora per puro caso, trovo l’ultima copia di un testo adatto per preparare l’orale. Il titolo è beneaugurante: “Insegnare Domani”.

Eppure, ancora una volta, mentre sfrutto al massimo i pochi giorni di tempo per approfondire i vari esempi di lezioni da simulare riportati nel libro – la prova orale consiste proprio in quello – mi convinco che la cosa non fa per me. Che cosa ci azzecca un copywriter, ex-musicista, collezionista di vinile, blogger ed esperto (a parole) di trasformazione digitale con una classe di mocciosi?

Il giorno precedente all’orale, sorteggio al cospetto del presidente della commissione la lezione di prova che dovrò tenere 24 ore dopo. Conservo ancora, tra le reliquie professionali, quel bigliettino. Traslazione, rotazione e simmetria delle figure piane in una quarta di una scuola ubicata in un paese rurale. Già, non ho pensato che i maestri della primaria insegnano anche matematica. Ecco un altro segnale: non è la professione che fa per me.

Rientro a casa mi metto a scartabellare su Internet, coinvolgo mia cognata insegnante e capisco che, privo di qualsiasi competenza pedagogica, posso solo contare sul mio background professionale e sull’improvvisazione.

Metto insieme una serie di spunti scommettendo tutto sull’interdisciplinarietà: il tangram, le foglie da raccogliere dal vero in una passeggiata nel bosco, la visita alla mostra di Escher a Milano, le frasi palindrome, le scale musicali, le melodie trasportate in diverse tonalità che mantengono i rapporti tra le note, le funzionalità di editing grafico per trasformare le figure con i software open source più comuni. Riporto quindi tutto su una presentazione PowerPoint creando vere e proprie infografiche e scegliendo accuratamente le illustrazioni, proprio come faccio per i miei clienti in ufficio. Aggiungo persino un titolo creativo alla lezione: “La geometria fa riflettere (ma anche traslare e ruotare)”. Quindi, atteggiandomi a relatore di TED, mi esercito ripetendo più volte fino a notte fonda il mio intervento scorrendo, come vedo fare agli eventi business di cui curo i contenuti, le slide dalla prima all’ultima. Forse, davvero, insegnare è un po’ così.

Avevo fatto un sopralluogo presso la sede del concorso un paio di giorni prima per verificare in cosa concretamente consistesse la prova. I candidati, anzi, le candidate erano numerosissime e c’erano diverse commissioni. Alcune mi avevano sorpreso per l’approccio piuttosto garantista che mi aveva rincuorato. Una, invece, si distingueva perché composta da commissari decisamente ingerenti nello svolgimento delle simulazioni e pignoli della discussione. L’abbinamento mi penalizza, assegnandomi proprio a loro. Nell’attesa della sessione in cui sarei stato valutato e molto probabilmente umiliato, nel frattempo ritrovo, destinati alle commissioni più abbordabili, il candidato con le iniziali sulla camicia, che al posto del Powerpoint ha con sé un foglietto a quadretti con qualche appunto e basta, e la ragazza tornata dall’Australia. Del muratore calabrese, invece, nessuna traccia.

Del mio gruppo vengo estratto per primo. Inserisco la chiavetta USB (avevo preso la precauzione di esportare l’elaborato in pdf in modo da mantenere il Google Font a cui tenevo moltissimo) e parto con il mio show. Il più severo dei due membri, però, mangia immediatamente la foglia e, alla terza slide, mi ferma per chiedermi su quale corrente pedagogica si basassero le tecniche che stavo mettendo in pratica nella mia finta lezione. Mi sembra corretto mettere in chiaro, così, il mio caso: a differenza delle candidate che si sarebbero avvicendate davanti a loro e di tutte le altre che, nelle aule attigue di quella scuola del centro, stavano sostenendo la stessa prova, avevo zero esperienza. Nonostante ciò mi sentivo motivato, entusiasta e pronto a mettere al servizio della scuola pubblica le mie competenze nella comunicazione, nel digitale, nella tecnologia, nella lingua inglese e nella musica. La tensione si stempera, gli esaminatori si incuriosiscono, notano persino la cura nella grafica delle slide. Porto così a termine la mia esposizione, sostengo una veloce e formale conversazione in inglese, racconto di ciò di cui mi occupo in agenzia e, infine, mi accomiato. Mi prende una sete mostruosa unita al down che segue alle imprese che mettono adrenalina. Mi fiondo in un bar nei pressi per consumare alla goccia una Lemonsoda ghiacciata.

Il verdetto sarebbe stato pubblicato sulla porta dell’aula in cui avevo appena dato il meglio di me stesso solo al termine delle prove di tutti e sei i candidati. Rientro nella sede del concorso e seguo gli altri orali. Una ragazza con diversi anni di esperienza in una di quelle graduatorie dagli acronimi fantasiosi da cui le scuole attingono personale precario ogni anno, cade ingenuamente sul rimando a una teoria poco opportuna per la lezione sorteggiata. Da lì, l’esaminatore più intransigente si accanisce per smontare tutta la ricerca che, a mio parere, trasmette comunque una certa preparazione. Quella dopo non sa spiccicare nemmeno una parola di inglese. E non ricordo se la quarta o la quinta, quando le viene chiesto di copiare il file della presentazione dalla chiavetta al pc per metterla agli atti, ammette di non aver dimestichezza con la tecnologia. Per fare un copia e incolla. L’ultima, invece, si presenta lanciatissima e super-professionale e prende il voto più alto di tutti.

Insomma, per farla breve, alla fine sono stato promosso anch’io. La candidata a cui avevano contestato tutto è risultata invece insufficiente e, pur felice per il mio esito, mi sono sentito fortemente in colpa, come quando rubi il posto a qualcuno che ne ha diritto più di te. Tornata a casa, avrà sicuramente inveito contro quel cialtrone che ha fatto persino la beatbox durante la prova di un concorso per la scuola, per dimostrare che si può insegnare musica con qualsiasi cosa a disposizione. Ma la cosa più importante è che, uscito da lì, ho ripensato all’entusiasmo e alla motivazione che avevo millantato poco prima per convincere i commissari e, in tutta sincerità, mi è sembrato che fosse davvero così. Non avevo mentito più di tanto. Quella sera sono rimasto a cena sui navigli con mia moglie e mi sono persino ubriacato.

Superato o no il concorso, era comunque tardi perché la macchina organizzativa riuscisse a portare a termine l’operazione nell’anno scolastico in corso. Le graduatorie sono state pubblicate a novembre e l’Ufficio Scolastico ha emanato solo a fine luglio 2017 la convocazione dei primi millecinquecento neo-docenti. Io venivo poco dopo, mille seicento e qualcosa, un ritardo che ho vissuto nuovamente come un ostacolo al cambiamento a cui anelavo. Ai miei datori di lavoro, ovviamente, non avevo detto nulla. Il mio contratto in agenzia prevedeva tre mesi di preavviso. Così avevo messo in conto di prendere servizio con la chiamata che presumevo si sarebbe tenuta alla fine dell’estate successiva, nel 2018. Avrei dato le dimissioni verso maggio in modo da rimanere in agenzia fino al 31 agosto, per poi iniziare a scuola il primo settembre.

Si vede che non conoscevo per nulla il rocambolesco mondo della scuola pubblica. Non passa nemmeno un mese dalla prima convocazione e a pochi giorni dal rientro dalle vacanze (niente più campeggio in Sardegna ma un viaggio in UK) scopro una seconda chiamata per i successivi cinquecento candidati, programmata per il 28 agosto.

Mi precipito all’ufficio scolastico il giorno stabilito, firmo l’entrata in ruolo, scelgo l’ambito territoriale e, nel pomeriggio, la scuola in cui dovrò insegnare. Questo significava tre giorni utili appena per salutare l’agenzia in centro a Milano in cui avevo lavorato per sedici anni senza alcun passaggio di consegne e un inizio in affanno della nuova vita di maestro elementare, in una primaria di provincia. Non mi sentivo assolutamente pronto.

Su suggerimento di una ex collega che aveva seguito lo stesso percorso prima di me, ho proposto al dirigente della scuola a cui ero stato assegnato un anno di aspettativa per portare a termine ciò che avevo in mente. Durante i successivi dodici mesi, oltre a continuare il mio vecchio lavoro, mi sono dato da fare studiando, informandomi, seguendo corsi online e, soprattutto, trascorrendo diverse ore di tirocinio volontario in classe. Un’esperienza utilissima perché mi ha restituito l’idea cosa sarei andato a fare. La futura collega che, sempre volontariamente, si è prestata a seguirmi in questo percorso, mi ha anche permesso di tenere una lezione ai suoi bambini, per la quale mi sono preparato meticolosamente proprio come avevo fatto per la simulazione al concorso. Ho allestito un percorso di musica nella sua quarta. Sono partito da Miles Davis, cosa che mi ero promesso di fare se avessi mai messo piede in un’aula scolastica, e ho coinvolto la classe lungo un viaggio nel ritmo, nella melodia e nella storia della musica che ascoltano a casa.

Il racconto finisce qui, perché, da allora, è filato tutto liscio, Covid permettendo. Ho comunicato le mie intenzioni ai miei datori di lavoro ad aprile e, dal primo settembre 2018 e a 51 anni, mi sono reinventato insegnante. E ho davvero messo le esperienze di una vita al servizio della scuola pubblica. Nell’istituto comprensivo in cui lavoro da allora gestisco il sito, il laboratorio di informatica compresi i dispositivi di classe e tutto ciò che riguarda la piattaforma di didattica integrata. Ho tenuto corsi di digitalizzazione agli altri docenti. Cambio persino i toner alla fotocopiatrice. Quando ci siamo trovati in lockdown ho messo in piedi e amministrato il sistema che ha permesso ai colleghi e agli studenti di continuare l’attività a distanza.

Ma la cosa più bella del lavoro che faccio ora è stare ogni giorno in mezzo ai mocciosi, proprio quello che temevo di più. Lo scorso anno ho preso una prima che ora è una seconda. Se non ci fossero problemi di privacy vi farei vedere le loro facce, perché sono loro i veri protagonisti della storia che ho appena raccontato. Io mi diverto moltissimo. Insegno matematica, informatica, inglese, arte e musica. Li aspetto in classe ogni mattina e, quando arrivano, ognuno mi saluta a suo modo. Il sorriso si capisce dagli occhi e si intravede sotto la mascherina. Non so se sono bravo, ma secondo me lo sto diventando.

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