the great gig in the school

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Quando Matteo arriva, la mattina, lo sentiamo tutti. Matteo ha un selettore interno che sostituisce il classico potenziometro di cui la maggior parte di noi è provvista e che ci consente – ruotando un manopolone – di passare da uno stato d’animo all’altro in modo graduale, tale che ogni valore della scala permetta al prossimo di intuire la percentuale di incremento del livello successivo e, nel caso, adottare le adeguate precauzioni.

Matteo invece ha una levetta che passa da zero alle urla strazianti che emette per esprimere qualunque situazione di disagio provi. Negli asperger ogni piccola variazione della routine può risultare fatale ma tutto il personale scolastico che segue Matteo se ne guarda bene. La cause che lo mettono in crisi risultano, ad oggi, molto spesso imperscrutabili. Segue un orario ridotto che regolamenta ingressi e uscite diverse dal resto delle classi. E se per tutti è lunedì, per Matteo è lunedì al cubo. Non ho idea di come rappresenti (e cosa rappresenti) nella sua testa il rientro a scuola dopo il fine settimana a casa. Io lo chiamo “the great gig in the school” e non lo dirò mai a nessuno perché su certi temi non si scherza, specie se appartieni alla categoria di chi si prende cura dei bambini. Avete capito: la performance di Matteo mi ricorda uno dei miei brani preferiti dei Pink Floyd, quello che si contraddistingue per il lungo assolo vocale di Clare Torry che – ma forse lo sapete già – si è trovata quasi per caso a incidere una delle tracce più iconiche della storia della musica.

Il titolo del brano estratto da “The Dark Side of the Moon” non lascia dubbi: il grande spettacolo nel cielo, che io ho sempre inteso come un modo umano – il canto – di sfidare la bellezza e la complessità dell’universo facendoci sentire in quello spazio infinito e oscuro occupato solo da un prisma, ma forse mi sbaglio. Matteo entra a scuola e, soprattutto se è lunedì, parte con il suo assolo di urla atroci di bambino e va avanti per un bel po’. Un bel po’ che a volte dura anche quindici o venti minuti, ho provato a controllare.

Io che spesso tengo la porta della classe aperta perché fa caldo e perché è meglio aerare le aule il più possibile, in tempi di pandemia, mentre mi precipito a chiuderla mi chiedo che cosa capiscano i miei bambini – che sono ancora piccoli – di quel concerto. Me lo chiedo perché quando arriva Matteo e inizia il suo assolo mi scrutano in viso perché vorrebbero avere una spiegazione o anche una risposta. Forse ce l’hanno già e vogliono solo mettermi in difficoltà. E, in quel frangente, potrebbero farlo in mille modi diversi.

La cosa si ripete ogni settimana, ci sono certi periodi in cui urla ogni giorno. Mi alzo per chiudere la porta, guardo fuori e scambio un’occhiata con le colleghe che si occupano di lui. Le guardo perché vorrei dire loro che le ammiro perché io, davvero, al posto loro non saprei come cavarmela. Vedo Matteo sdraiato sul pavimento e le colleghe che cercano di portare la levetta del selettore a zero ma è molto difficile. E come la canzone dei Pink Floyd, che è senza parole, ognuno tenta un’interpretazione del significato del grande spettacolo di Matteo. Così ho imparato a prendere la sua arte così come è, senza cercare tante spiegazioni. Ogni compositore ha tutto nella sua testa. Non vedo perché Matteo dovrebbe svelarci il suo mistero.

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