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Ci sono diverse anime, non necessariamente così radicali come potremmo immaginarle, che dalla base si battono per proteggere la scuola italiana dai colossi dell’industria digitale e dai rischi che tale sudditanza comporta. Sostengono l’importanza per cui la scuola debba essere libera dai brand commerciali e dalle multinazionali.

Il fatto è che con il palesarsi della pandemia da Covid 19 si è reso imprescindibile il ricorso a una piattaforma di comunicazione e collaborazione a distanza per garantire lo svolgimento delle lezioni e le attività organizzative. Molti istituti si sono fatti trovare impreparati all’emergenza – malgrado si parli di scuola digitale almeno da quindici anni – e c’è stata una corsa al si salvi chi può con l’implementazione delle soluzioni dei due principali player del settore, Google e Microsoft. Considerando anche la situazione pregressa, non ho dati alla mano ma dalla mia esperienza diretta potrei azzardare che il marketshare si attesti su percentuali rispettivamente dell’80 e del 20, approssimando allo zero una residua manciata di pionieri di altre iniziative, piccole ma pur valide, a partire da WeSchool (ma sui numeri potrei sbagliarmi). La suite di Google si rivolge gratuitamente al settore con prodotti pensati per l’educational da diversi anni, oramai, mentre il percorso di Microsoft è stato percepito più come un tentativo di mettere i bastoni tra le ruote a un monopolio che si è diffuso grazie all’oggettiva superiorità del prodotto.

Ma non è questo il punto. Che siate per un partito o per l’altro, nelle server farm dei due giganti che, grazie ai miliardi di utenti in tutto il mondo dei prodotti commercializzati possono vantare fantastiliardi di dollari di giro d’affari complessivo, ora ci sono le verifiche di matematica e le ricerche sul sistema solare dei nostri figli. Un trend che ha messo in guardia non pochi paladini della filosofia open source o, peggio, del software a km zero.

Quando il coronavirus ha rintanato nelle stanzette milioni di studenti italiani di ogni età si è visto qualche idealista lanciare un allarme sotto certi aspetti fondato: a fronte di soluzioni gratuite per la DAD stiamo offrendo su un piatto di silicio i dati di milioni di ragazzi alle multinazionali del web! Zelanti esponenti di ogni livello della scuola pubblica, gli stessi che documentano nel dettaglio la vita dei figli sui rispettivi profili Facebook, si sono assunti addirittura l’onere di scartabellare tre le condizioni di servizio di questa o quell’altra piattaforma per capire se gli strumenti offerti fossero in linea con il GDPR, per non parlare dei dirigenti che si sono rivolti personalmente a Microsoft o a Google per avere garanzie sul fatto che i dati dei bambini fossero conservati in un cloud europeo. Ve li immaginate Project Manager indiani decifrare i fax della pubblica amministrazione italiana con tali richieste di altri tempi?

Ma chi se ne importa. Nelle scuole italiane si sono diffuse largamente Google Workspace for Education e Microsoft Teams e, a poco più di un anno di distanza dal paziente zero, possiamo dire che di riffa o di raffa abbiamo portato a casa il risultato. Non entro nel merito se DAD e DDI siano efficaci, tutto sommato però le due piattaforme adottate ci hanno permesso di dare continuità alla didattica. Lasciate stare tutto il folklore sugli intrusi nelle lezioni in videoconferenza e qualche episodio di spavalderia adolescenziale online. Nei casi in cui si sono verificati problemi è perché i docenti coinvolti non erano pratici dello strumento. C’è poi un sottobosco di sostenitori del software libero che è un mondo delle idee bellissimo se, nelle scuole, non fossero insegnanti di buona volontà a occuparsi della gestione della componente informatica ma esistesse un team dedicato (e pagato).

Tutto questo per dire che potrei essere smentito ma non credo che Microsoft e Google si troveranno mai, un giorno, costrette da qualche hacker a pagare un riscatto per sbloccare le loro piattaforme didattiche. Non credo che succederà perché la sicurezza dei dati è il loro core business. La disponibilità, il miglioramento e l’accuratezza dei loro servizi in termini di user experience e di funzionalità offerte hanno coinciso con la sicurezza informatica. Certo, direte voi, è facile dotarsi di sistemi di protezione di altissimo livelli quando hai fantastiliardi da investire, ma questa è l’imprenditoria. Se vuoi stare sul mercato globale scegli il modo in cui proporti, correndo dei rischi e prendendo delle decisioni. Poi è chiaro che nel settore del digitale i giochi sono fatti. A nessuno oggi verrebbe in mente di sviluppare un motore di ricerca, un software di videoscrittura o un social network. Tanto meno dalle nostre parti, dove non c’è una tradizione informatica e i pochi cervelli adatti a dedicarvisi, giustamente, volano altrove.

La notizia del momento è che la piattaforma di registro elettronico più diffusa in Italia è stata presa in ostaggio in un attacco di tipo ransonmware. Sapete come funziona? Qualche malintenzionato cambia di nascosto la serratura di un ambiente virtuale e, per darti la chiave, chiede un riscatto.

Agli hacker che impediscono l’accesso ai proprietari della piattaforma non interessa certo vendere i voti di Carletto e Mariuccia della 2B ai servizi segreti russi, da questo punto di vista un registro elettronico non è certo Facebook. Piuttosto guadagnare mettendo in ginocchio un’azienda che fornisce servizi a una delle principali organizzazioni della nostra economia, la scuola. Nei confronti di questi professionisti che stanno vivendo una delle peggiori situazioni in cui un’azienda del settore ICT possa essere coinvolta esprimo la massima solidarietà e spero che il tutto si risolva senza conseguenze.

Rinnovo però una domanda retorica, chiedendomi perché non ci sia mai stato un piano di sviluppo digitale strutturato per la scuola come avviene nelle aziende in cui Internet e l’informatica giocano un ruolo fondamentale. Perché non ci sia una visione organica e nazionale, anziché demandata ai singoli istituti. Perché non ci sia una efficace analisi dei fabbisogni e delle scelte da intraprendere per proteggere investimenti, creare economie di scala, consentire crescita flessibile in modo da poter riutilizzare quanto integrato nella fase precedente senza, ogni volta, buttare via tutto.

Tutti aspetti che, in qualunque organizzazione di qualsiasi settore, fanno parte di una roadmap di sviluppo. Nella scuola italiana, invece, l’impressione è che ci si sia spesso lasciati prendere dall’entusiasmo del momento, da trend e demoni tecnologici, da linee guida indicate da figure poco competenti e da mille altri fattori che sappiamo e che è inutile ripeterci. Nessuna organizzazione si rivolgerebbe a fornitori di piattaforme digitali prive di garanzie su standard tali da assicurare continuità di servizio. E il paradosso è che, in home page, questi fornitori assicurano altissimi standard di sicurezza e puntano sull’italianità dei server.

Quando, lo scorso anno, si è diffusa la notizia che qualcuno al MIUR aveva dichiarato di voler lavorare per lo sviluppo di una nuova piattaforma proprietaria e tutta italiana da fornire alle scuole per la DAD, mi è venuta la pelle d’oca. Pensate allo spreco di denaro, tempo e risorse, avendo già a disposizione le soluzioni di Google e di Microsoft, di cui si può dire tutto tranne che non sia gente che sappia fare il suo lavoro e che offra livelli di sicurezza adeguata. Non è che tutti riescono a fare tutto. In Italia siamo bravissimi in cucina e abbiamo la stragrande maggioranza del patrimonio artistico e culturale mondiale. L’informatica lasciamola alla Silicon Valley.


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