Dietro casa mia, in un’area industriale in cui a nessuno verrebbe in mente di transitare volontariamente in auto, tantomeno a piedi, ha aperto una grande rivendita di mobili e complementi d’arredo vintage. In realtà l’ubicazione è perfetta, da un punto di vista marketing. I milanesi apprezzano questo genere di prodotti inspiegabilmente costosissimi, ma lo stato d’animo che scaturisce dal contrasto tra l’immaginario di un’epoca che sicuramente non hanno nemmeno vissuto ma per i quali nutrono una smodata nostalgia – chissà poi perché – e il degrado senza tempo proprio delle zone artigianali dell’hinterland, da visitare preferibilmente in uggiose domeniche invernali, non li fa badare a spese.
L’apertura del negozio, esteso per svariate centinaia di metri quadrati stipati di modernariato, conferma inoltre una nuova ondata di interesse per il mercato dell’usato da fighetti, trend che ha avuto alti e bassi. Potersi permettere mobili anni sessanta e settanta non è da tutti e ora che l’ulteriore divario del potere d’acquisto tra poveri e ricchi ha compiuto un nuovo scatto, unito ai timori per il futuro in tempi che definire bui è un complimento, le persone più abbienti sembrano nuovamente interessate ad accaparrarsi la sicurezza trasmessa dal design di una vera e propria età dell’oro in quanto a welfare e socialdemocrazia. A memoria, dopo il boom dei mercatini dell’usato in franchising di fine anni novanta, culminata in una bolla che, trasformatasi in fenomeno di massa, ha fatto disamorare la nicchia, abbiamo assistito a una seconda crescita del fenomeno nel decennio scorso, exploit che ha reso il modernariato ancora più esclusivo. A occhio e croce potremmo quindi trovarci al cospetto della terza ondata, ma se avete dati più aggiornati o informazioni più autorevoli vi prego di comunicarmelo qui sotto nei commenti.
Io ho avuto la fortuna di rendermi indipendente e di andare a vivere da solo poco prima che l’usato del 900 diventasse una moda costosissima. Avevo acquistato mobili bellissimi per la mia casa a poche decine di migliaia di lire, ricordo addirittura di aver pagato il trasporto e la consegna di uno splendido divano in ski verde con annesse due poltrone quasi il doppio del loro costo – se non ricordo male avevo pagato i mobili 35mila lire – e rimpiango ancora oggi uno stilosissimo tavolo rotondo con quattro sedie in tek, quasi regalato, che sfoggiavo nel salotto. Ho lasciato tutto questo nell’appartamento in cui vivevo in affitto prima di trasferirmi nella mia residenza definitiva, dove mobili di quel tipo non avrebbero trovato posto. Mi è rimasto qualcosina – una lampada in tek con libreria abbinata ricevute in regalo di nozze dai miei nel 1960, due poltroncine anni 50 che ho visto uguali nello store di cui sopra a 300 euro l’una, e un po’ di cianfrusaglie – ma da allora mi sono disaffezionato. Tutta roba bellissima se vivi da solo ma poco pratica se hai una famiglia e dei gatti.
Ho pensato comunque di fare un giro nel mercatone vintage, considerando la vicinanza da qui. Ho sguinzagliato il mio sguardo da esperto nel vasto hangar stipato di chicche da collezionisti e di facoltosi potenziali acquirenti ma poi ho trascorso il tempo della visita, mentre mia moglie – decisamente più scettica di me – liquidava l’esperienza in una manciata di cartellini con relativi prezzi da capogiro, a scartabellare in quattro contenitori ricolmi di ellepì. Quella dei dischi in vinile è una vera e propria ossessione irrefrenabile che condivide con me il mio corpo e la mia mente più o meno dalla seconda media. Inutile dire che anche i prezzi dei dischi usati erano in linea con il resto dei prodotti in vendita. Per scelta non acquisto mai dischi usati a più di 15 euro, che già mi sembra una cifra ai limiti della ragionevolezza. Fino a dieci anni fa te li tiravano dietro. Ho saccheggiato bancarelle portandomi a casa decine di trentatré giri pagandoli in tutto quanto il costo dell’ultimo disco dei Cure su Amazon.
Ora, come per le chaise longue e certe lampade d’antan, hanno costi inarrivabili. Ho visto un Battiato a 40 euro e “Deja Vu” di CSNY – pagato ricordo 5 euro a un mercatino in Sardegna intorno al 2010 – a 70. Ho deciso comunque di passare in rassegna tutti i dischi sperando in un colpo di fortuna che la tenacia, alla fine, ha favorito. Per 30 euro totali ho portato a casa un doppio Lp di extended play degli Spandau Ballet, il bellissimo “Love Not Money” degli Everything but the Girl che inseguivo da un po’, “Human’s Lib” di Howard Jones in ottime condizioni e, soprattutto, “Cattivi pensieri” di Gino D’Eliso, entrambi a una cifra irrisoria. Mia moglie è rimasta perplessa da quest’ultima scelta. Non aveva mai sentito nemmeno lontanamente nominare il cantautore triestino. Le ho spiegato che Gino D’Eliso è stato una specie di Battiato che non ce l’ha fatta, una sorta di Garbo in versione meno piaciona. Io ne sentivo sempre parlare su Ciao 2001 nei primissimi anni 80 ma ai tempi non esisteva musica liquida e un album di quel tipo di certo non si trovava in tutti i negozi. Poi, grazie al peer-to-peer, mi sono procurato gli mp3 e ora finalmente una copia fisica a un prezzo da vero affare. Il disco suona benissimo e la mia collezione si è arricchita di una vera chicca di cui vado molto fiero, quasi quanto una copia promozionale di “Guendalina” dei Dadaumpa pagata mille lire nella notte dei tempi.