Quella di lasciare il finale aperto nei film è una tecnica molto diffusa. Le prime volte gridiamo al miracolo creativo ma poi, dopo tre o quattro pellicole in cui cominciamo a innervosirci perché sembra che non si riesca mai a concludere un cazzo, la riconduciamo a quei registi che non vogliono prendersi la responsabilità di mettere la parola the end prima dei titoli di coda. Il non detto all’inizio, nel corpo e in coda alle trame è un espediente narrativo formidabile. Avete capito cosa intendo. Finisce un capitolo in cui c’è un parente stretto del protagonista che scopre di avere un male incurabile e quello dopo comincia con un dialogo in cui qualcuno ricorda con qualcun altro un aneddoto tratto dalla vita del defunto. Lo scrittore ha così eluso l’onere di dover descrivere il decorso, la morte, la sofferenza del paziente e quella dei familiari, lasciando così al lettore – o allo spettatore nel caso di trasposizione cinematografica – il peso dell’immaginazione dei passaggi più complessi, riservando per sé le parti meno impegnative. Esiste anche una tecnica di improvvisazione jazz che rimanda in parte a questo modo di fare in cui sono gli omissis del tema a fare da padrone. Insomma, mi sembra un modo per aderire alle realtà inventate di tutto rispetto. Ci ho pensato qualche giorno fa, quando per la prima volta ho letto con attenzione una specie di manifesto del lettore apposto all’ingresso della biblioteca della scuola in cui insegno. Una lista di articoli, forse un decalogo, non li ricordo proprio tutti. Però al secondo posto si sanciva il diritto per chi legge di saltare una pagina. Poteva andare peggio: poteva esserci scritto di strapparla, come chiedeva uno degli insegnanti più rivoluzionari della cinematografia di tutti i tempi. Il comandamento numero due di quella tavola bibliologa, più che biblica, mi ha fatto riflettere molto sull’uso non pertinente, per non dire sull’hacking, di un oggetto come un libro, in cui l’elemento cardine è la parola e la concatenazione delle stesse e non invece il supporto cartaceo. Se compro un tavolino all’Ikea e monto tre gambe anziché quattro perde la funzione per la quale è stato pensato. Piuttosto allora meglio quelli che cancellano parole stampate dalle pagine in modo che ciò che resta leggibile formi una poesia, c’è qualcuno in rete che si atteggia a paladino di questa forma artistica. Vi sarà chiaro che nella vita vera tutto questo non si può mica fare, altrimenti quante volte avrei evitato appuntamenti importanti per trovarmi subito dopo forte dell’esperienza che da qualche parte – forse in un copione universale – risulta comunque effettivamente vissuta. Oppure quanti giorni di scuola avrei saltato semplicemente non vivendoli, risparmiandomi al contempo i gravosi quanto improbabili tentativi di falsificazione della firma di mia mamma sul libretto delle assenze. E precludersi la fine è l’esperienza peggiore di tutte. E sapete perché?
l’ultimo chiuda il finale
