Ogni tanto ti guardo e tu mi guardi da chissà dove. Sfoggi tutti i difetti di pronuncia possibili e riesci persino a mangiarti le parole più voracemente di quanto faccia io. Allora mi chino, sfidando le articolazioni e il rischio che, riconquistando dopo la posizione eretta, qualcosa del mio apparato osseo non ritorni esattamente al punto di partenza, e ti convinco che non ho capito niente, ho imparato che è un compromesso a cui ti piace scendere, non ti sei mai dimostrato oppositivo. Devi parlare lentamente, ti ricordo. Tu riparti da capo come se avessi un pulsante che riduce in percentuale la velocità proprio come i video di Youtube ma è una tecnica che non funziona, non porta a un miglioramento della comprensione. La elle al posto della erre e tutte le parole accavallate, ripetute al rallenty, sono altrettanto indecifrabili. L’unica differenza è che questa volta le scandisci lentamente, ma il senso logico continua a risultare non pervenuto.
Di punto in bianco ti alzi dal banco perché sostieni di annoiarti e apprezzo la tua trasparenza. Se un giorno sarà possibile riformattarti in qualche modo e reinstallare il sistema operativo ti renderai conto che è la cosa meno opportuna che puoi dire a un insegnante. Se si trattasse di chiunque altro, l’ego didattico del tuo docente si manifesterebbe con punizioni, compiti extra o note sul diario. Ma con te e quelli come te sappiamo che la dignità professionale va lasciata nel bagagliaio della macchina, nel parcheggio davanti a scuola. Mi piace però pensare che se sei in grado di giocare così a carte scoperte forse significa che recepisci quello che sto facendo, visto che lo intercetti immediatamente per cestinarlo nella tua cartella dei contenuti troppo difficili. So che non si tratta di pigrizia intellettiva, sono certo che tu sia in grado di distinguere quello che comprendi sin dalla prima parola, anzi, dall’espressione che faccio prima di proferirla, anzi dal modo in cui accendo la LIM.
Quando in classe sono da solo con te, senza la collega di sostegno, non davvero che pesci pigliare. Ho scelto un metodo che sta agli antipodi dell’inclusione ma non potevo saperlo e non potevo nemmeno sapere come saresti stato tu. Tua mamma sperava che, come gli Asperger che si vedono nei film, potessi reinventarti in un genio della matematica. Ci ho pensato qualche settimana fa. Ero seduto a un tavolino fuori da un bar, con un paio di amici, a bere un aperitivo. A fianco a noi si è messa una coppia eccessivamente attenta con il figlio che li accompagnava. Un bambino che, dallo sguardo, sembrava molto più presente nelle situazioni e nei dialoghi, rispetto a te. Teneva un rotolo dal diametro sproporzionato di fogli A4 stretto tra le mani, fino a quando la tentazione di prendere le patatine dal vassoio ha surclassato la passione con cui stringeva il suo tesoro che si è srotolato come fa la carta igienica nella pubblicità, quando ti vogliono convincere sul numero di piani che può eguagliare. I fogli A4 – saranno stati una cinquantina, credo, tutti uniti con il nastro adesivo per il lato corto a formare una chilometrica pergamena – erano fitti di numeri in sequenza, dall’uno in avanti a cercare l’infinito, e ciascuno scritto con un colore di pennarello differente. Stavo bevendo un calice di arneis e, senza pensarci, gli ho fatto i complimenti per il suo lavoro, deformazione professionale, specificandogli che ero del mestiere. I genitori mi hanno guardato sopresi e hanno gioito nello stesso modo in cui ci si felicita con quel tipo di eccellenza dei figli, un orgoglio agrodolce, non so se ho reso l’idea. Così ho capito, avrei potuto arrivarci prima, e mi sono crogiolato nello strascico di quella gaffe per un bel po’. Tu, invece, con i numeri non sembri molto a tuo agio, ma sicuramente è perché sono io a non essere a mio agio con te, e se tu avessi il supporto di un maestro più adeguato forse il venti lo avresti riconosciuto e superato, nel conteggio, già da qualche mese.
Ogni tanto poi fatico a sopportare quelli che i miei standard di comportamento dei bambini mi fanno interpretare come dispetti, ma chissà in realtà che cosa sono. Se avessi studiato l’autismo lo saprei e non sarei qui ad arrovellarmici su. Cerchi di attirare l’attenzione, e vorrei tanto riuscire a convicerti che sei al centro dei miei pensieri anche quando non riesco a coinvolgerti, quando ti spalmi con la fronte sul banco per decine di minuti e non c’è verso di avere un segno di vita e, quando ti tiri su, sembra che ti abbia punto in faccia la madre di tutte le zanzare. Trasmetto su un canale diverso, una pista facilitata, un adattamento della vita in cui non ci sono complessità mentre con te ci vorrebbe ben altro. Internet è veloce, l’auto non dà problemi, la nuova puntina dello stereo enfatizza i bassi come piace a me, tutto è al suo posto. Tu, invece, ancora non sono stato capace di capire dove collocarti, nella mia vita.
the chaffeur
