La visione del film “Bird” mi ha spalancato un mondo introducendomi alla regista britannica Andrea Arnold, di cui ahimè ignoravo l’esistenza (so cosa state pensando) e il cui nome addirittura ho pronunciato alla francese, Andrè Arnòl, chissà poi perché, quando sabato scorso ho proposto a mia moglie di andare a vederlo.
Il film era in programmazione al nostro cinemino preferito – questo qui, se siete della zona immagino lo frequentiate o ne avrete sentito parlare. Ho visualizzato su Youtube il trailer che ho però seguito molto superficialmente, e il mood che ho percepito a caldo è stato quello dei primi fratelli Dardenne, certe torbide atmosfere del Belgio, ed è questo che probabilmente mi ha indotto a equivocarne la nazionalità e il contesto. Non ne sapevo nulla, per farla breve.
Ho posto parziale rimedio al fraintendimento solo poco prima di entrare in sala, consultando un pamphlet dedicato alla programmazione in corso, seduto in attesa della fine dello spettacolo precedente su una poltroncina nell’atrio. Avevo azzeccato il tipo di film, cosa di cui ho avuto conferma poco dopo, ma non pensavo fosse ambientato nel Kent e che Andrea Arnold fosse una versione molto più radicale, più cruda e ancora meno indulgente del suo conterraneo Ken Loach. Poi, prima che si spalancassero le porte e i tre o quattro spettatori presenti uscissero, ho percepito dalla sala l’inconfondibile cantato di “Too Real?” dei Fontaines D.C. La sigla finale. Ed è in quell’istante che ho avuto l’illuminazione.
Non vi sto a fare una recensione del film, non è il mio mestiere. Vi dico solo che ho trascorso la giornata successiva – era domenica – a ripercorrere parte della filmografia di Andrea Arnold iniziando dalle pellicole più recenti, altrettanto superlative (anche se “Bird”, a mio parere, un vero e proprio pugno nello stomaco, è una spanna sopra gli altri titoli). Ho trovato a noleggio su Prime Video sia “American Honey” che il precedente “Fish Tank”, e alla fine di questa maratona monografica ho avuto l’impressione di aver ripercorso a ritroso un concept dedicato all’adolescenza. In tutti e tre i casi disperata, abusata, sospesa e provvisoria, immersa nel disagio e circondata da tutto il peggio che sia possibile da immaginare.
Anche la musica è un trait d’union che interconnette le tre opere. In ognuno dei tre film con una valenza differente, ma, in tutti i casi, proposta come narrazione alternativa rispetto a una realtà in cui i ragazzi – effettivi o presunti – hanno ancora bisogno delle canzoni per distinguersi dalle generazioni precedenti, per evadere dalle delusioni, per ribellarsi, per fare massa e corpo unico. Una visione distopica rispetto a come funziona, almeno qui dalle nostre parti, ma di cui ho apprezzato la portata drammatica e piacevolmente didascalica rispetto alla gravosità delle riprese.
In “Fish Tank”, uscito nel 2009, si sente molto hip hop (siamo ancora in epoca pre-trap), lo stile che fa da colonna sonora alla via di fuga di Mia, la protagonista, che identifica la danza come formula di emancipazione. Con “American Honey” ci troviamo invece nella provincia degli Stati Uniti e nel 2016. Il genere preferito sul van gremito di adolescenti erranti è la trap, musica in quegli anni nel suo massimo splendore e forte della sua dirompenza in quanto perfettamente inscritta nella contemporaneità di allora e baluardo dell’incomunicabilità generazionale per i giovani del momento. Mi ha fatto quindi doppiamente sorprendere la scelta della regista di abbinare, come genere rappresentativo per il malconcio underground umano inglese di “Bird”, il post-punk dei Fontaines D.C. e dei Sleaford Mods. Non pensavo che un suono così derivativo, o comunque riconducibile a un’altra epoca (la mia), potesse essere associato a un’idea identitaria degli adolescenti di oggi. Dopo i tre film ho capito invece la scelta. In UK probabilmente nulla trasmette meglio l’anima del sottoproletariato della provincia, quello che ha votato la Brexit senza sapere nemmeno perché.
Questa volta, però, con una variante. In “Bird” il post-punk – con l’eccezione dei bambini che si uniscono al coro di “Too Real” nella sigla di coda – fa da corollario principalmente alla generazione del padre di Bailey, un tipaccio di nome Bug pieno di tatuaggi di insetti, appunto, e facile metaforico cibo per gli uccelli con cui Bailey è così in sintonia. Un giovane adulto, di poco più grande dei suoi figli ma molto meno maturo. Bug e la sua combriccola si guadagnano da vivere con la droga derivata dalle secrezioni dalle rane. Il metodo empirico per indurre le rane a espellere dal loro corpo la sostanza utile è di sottoporle a musica in grado di irritarle. E come musica in grado di irritare le rane mettono canzonacce (a detta loro) pop, a partire da “Yellow” dei Coldplay e altri brani dei primi anni duemila, tracce di quando Bug era adolescente. Il gap generazionale è messo per inciso. Tanto che, nella scena conclusiva, quando un Bug pienamente redento in quanto unica scialuppa di salvataggio esistenziale per i figli, tutto sommato il meno peggio del resto, guida Bailey e il fratello veloci sul monopattino elettrico – vero status symbol della miseria – intona “Lucky Man” dei Verve, accompagnato dalla canzone in sottofondo. Bailey si sorprende della cosa, e chiede a Bug perché stia cantando una musica da papà.
A me “Lucky Man” è un pezzo che piace un botto, come tutto l’album dei Verve in cui è compreso. Vi dirò di più. Non ho problemi a inserire “Urban Hymns” tra i miei venti album preferiti di tutti i tempi, e a definire l’iconico video di “Bitter Sweet Symphony” decisamente trasgressivo, con l’infilata di spintoni che Richard Ashcroft infligge alle comparse. Ci sono rimasto un po’ male che, a confronto del post-punk dei nostri tempi, musica che io adoro, la mia preferita, sia ben chiaro, “Bitter Sweet Symphony” ma anche “Yellow”, che tutto sommato suonava abbastanza alternativa ai tempi, oggi siano state declassate a musica da papà, nel senso brani per altre generazioni e per persone che dovrebbero ispirare sicurezza ai più piccoli. Quindi anche a me piace ascoltare musica da papà. Non ci avevo mai pensato prima di vedere “Bird”.