Io so i nomi. Ma non solo quelli strambi e quelli che fanno ridere. Io so i nomi di tutti ed è un vero peccato che non si possano dire o che uno debba ricorrere a pseudonimi o iniziali puntate in osservanza della privacy.
So il nome di quello arrivato qui in adozione a metà anno inserito in una classe inferiore rispetto all’età per le difficoltà linguistiche. Viene dall’America latina e in qualche settimana si sapeva già esprimere in italiano come i più grandi, i suoi coetanei della quinta, e qualcuno poteva pensarci prima. So anche il nome di quella che vive in una specie di comunità, i genitori non li vedi mai perché lavorano e basta, e ai ricevimenti si presenta una specie di capo che è l’unico che mastica l’italiano e fa le veci di tutti i figli perché agli adulti è vietato staccare dal lavoro in laboratorio. La bambina giustifica le reiterate assenze di papà e mamma agli incontri con le docenti parlando di debiti da restituire ma, un po’ per la lingua e un po’ perché non comprende la situazione, preferisce non scendere nei dettagli. So il nome di quella la cui la mamma l’ha avuta a quindici anni e il papà, che ne ha abusato da piccola, è dentro. E poi di quello che mena compagni e maestre – e meno male che fa solo la prima – e di quell’altro che ha il padre che fa il buttafuori e dice al figlio che se qualcuno lo mena deve menare pure lui. E ancora di quello che in famiglia sono quattordici figli più la madre, vivono in una roulotte e non gli riconoscono la residenza, ma a scuola i bambini possono mandarli lo stesso.
So i nomi perché ad assistere agli scrutini di tutte le classi, che è un’operazione lunghissima e faticosa che si svolge in stanze rigorosamente senza aria condizionata, si imparano i nomi dei casi “da attenzionare”, espressione che mette i brividi ma oggi va di moda, e ci si rende conto della passione e dell’abnegazione che colleghe e colleghi riversano nel loro lavoro, ogni giorno. Anche mia mamma sapeva i nomi. Mia madre ha trascorso la vita in una segreteria scolastica prima dell’avvento dell’office automation e compilava i registri a mano. Copiava gli elenchi delle classi e scriveva i voti sui cartelloni che poi i bidelli esponevano all’ingresso e gli studenti andavano a controllare i voti e le materie da studiare in estate. Un liceo da dieci sezioni per cinque classi, circa 1200 nomi che di anno in anno si trascinavano da un foglio all’altro messi nero su bianco dalla sua calligrafia da diplomata alle commerciali. Fino a poco tempo fa bastava chiederle di qualcuno e lei ti diceva se avesse frequentato quella scuola oppure no. Io non ho avuto bisogno di scriverli, li ho tutti nella piattaforma che gestisco e mi è stato sufficiente selezionarli uno ad uno ed esportarli in un foglio Google. Mia mamma aveva un ventilatore acceso, in ufficio. Qui nemmeno quello.
A operazioni finite, congedato l’ultimo team – quello della quarta B – la scuola torna nel silenzio innaturale in cui piomba ogni edificio scolastico in estate. Si percepiscono le rotelle dei carrelli per le pulizie e qualche moneta, ogni tanto, che precipita giù lungo le condutture dei distributori automatici, seguita dal ronzio di una bevanda inadeguatamente calda al gusto terrificante di qualcosa che riempie un bicchiere di plastica. Vorrei farmi una foto, seduto qui da solo in sala insegnanti, a descrivere una sensazione ma è una situazione che non ha un nome. So solo questo.
Che schifo giugno, versione tinnica: https://unoduetreviablog.blogspot.com/2025/06/corazze.html?m=1