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Lavorare nella scuola, come in tutti gli altri settori, è un mestiere soggetto ad alti e bassi. L’esperienza professionale è condizionata da numerosi aspetti, proprio come succede a voi che mi state leggendo dall’ufficio, dall’ospedale, da una caserma o dalla fabbrica. Ci sono i colleghi, i clienti, i fornitori, i capi, i diretti riporti, gli stagisti, l’umore, gli spazi, gli strumenti in dotazione, i distributori automatici, la ripetitività, la zona in cui è ubicata la sede, gli orari, la busta paga, i benefit, le stampanti che non si collegano, la disponibilità del bidet nei bagni. E poi l’ambizione, le soddisfazioni, la competitività, lo stress, il rischio di burnout, il lavoro a casa, le telefonate fuori dell’orario di servizio, i “sono in ferie ma dimmi pure” sulla spiaggia a ferragosto. E tutto dipende anche da che stagione è, se piove, se avete preso una storta prima di entrare, se prima di uscire di casa non siete riusciti a fare la cacca, se il PD ha perso le elezioni, se è morto David Bowie e cose così. Combinare tutti questi fattori è decisamente complesso, e quando le cose filano dovreste farci più attenzione e, come dicono gli aforismi da un tanto al mucchio, esserne felici, ma so che non è il caso che ve lo dica io perché lo sapete già.

Comunque è qualche settimana che a scuola ci vado molto volentieri, e me ne sto accorgendo perché non è sempre così. Sono molto meno irascibile verso i miei bambini, e lo so che è un comportamento inqualificabile quello di portarsi il malumore in classe ma siamo fatti di carne, noi insegnanti, e può capitare di perdere le staffe e dare delle risposte poco misurate in certe situazioni. Per esempio quando chiedo se la mela la preferiscono intera o tagliata e loro mi rispondono “sì” (ci sono delle gag di Filippo Caccamo spassosissime proprio con questo genere di scambi di battute) non ci resta che sorridere e scaricare le parolacce a terra come fossimo dispositivi elettrici dotati del cavo apposito. E i bambini se ne accorgono, quando stiamo bene. Ci corrono incontro quando entriamo in classe ad abbracciarci i fianchi – perché è lì che arrivano con le braccia – con la testa che sbatte dritta sulle parti intime tanto da rendere indispensabile, almeno in orario di servizio, la conchiglia inguinale da giocatori di football americano.

Insomma, quando sono soddisfatto faccio le cose meglio, e più faccio le cose meglio e più sono soddisfatto, un loop decisamente accomodante. Ma tanto lo so che, per l’ennesima volta, non sarò in grado di riconoscere il valore di picco della sinusoide con cui si rappresenta graficamente la felicità tanto da non goderne appieno. In pochi l’hanno capito come ci si accorge di trovarsi sulla cresta. Forse c’è l’aria più buona come in montagna, un rifugio dove farsi una birra e un piatto di polenta con la salsiccia e le patate. C’è anche una bella vista e non mancano le attrazioni per migliorare l’esperienza di visita. Ma poi, finita la sosta, allacciati gli scarponi per affrontare stoicamente un nuovo pezzo di salita, ecco che una scocciatura, qualche cosa che si guasta, un mal di pancia, un battibecco, basta anche un qui pro quo e via, giù di nuovo per lo strapiombo senza nemmeno utilizzare il biglietto di ritorno della seggiovia.

Ma qui, da dove vi sto chiamando ora, c’è uno di quei punti panoramici con le panchine gigantesche come hanno fatto in qualche parte d’Italia e persino una cornice apposta per i selfie con lo sfondo più fotogenico. Date un’occhiata anche voi, non è un panorama mozzafiato?

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