uomini e boh

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Ho rinunciato da tempo a farmi recapitare a domicilio il pianoforte di famiglia che giace inutilizzato, da trent’anni, nella cameretta in cui ho passato ore interminabili (e buttate via, a onor del vero) a esercitarmi da ragazzino nella casa in cui sono nato e cresciuto. La questione del trasporto di un pianoforte, seppur verticale, non è per nulla banale. Occorre incaricare una ditta specializzata e il costo complessivo dell’operazione – spostamento a mano giù per cinque piani, circa duecento km di viaggio in un furgone equipaggiato, altra movimentazione in salita per due piani qui dove abito ora – equivale all’acquisto di uno strumento acustico nuovo di zecca, ed è addirittura superiore a quello di un piano digitale con i tasti pesati, opzione che mi consentirebbe di strimpellare le mie minchiate tutte uguali anche di sera tardi, in cuffia, senza rompere i maroni ai vicini.

L’opportunità di beneficiare di lezioni di musica è stata offerta solo a me, figlio maschio più piccolo, e non alle mie due sorelle maggiori. Benché mi sia stato fatto pesare non più di un paio di volte nella mia vita, da allora mi sento sufficientemente in colpa di questo privilegio andato sprecato e di cui ho goduto immeritatamente. Chissà, forse se le mie sorelle avessero imparato a suonare al mio posto, o insieme a me, magari avrebbero realizzato il sogno di mio papà, quello di avere un musicista serio in casa, sogno che ho infranto non appena ho scoperto il fascino del rock (post punk, a dirla tutta) e dei suoi aspetti collaterali che mi ha deviato dalla via maestra senza più ritorno. Mi risulta ovvio giustificare il fatto di essere stato il prescelto di famiglia con il mio genere di appartenenza, non vedo alternative. Non credo che prima non ci fossero risorse economiche sufficienti, senza contare il fatto che quando ho iniziato io i miei avrebbero potuto estendere anche alle altre figlie la proposta.

Questo per dire che siamo così impregnati di patriarcato da non rendercene nemmeno conto. Nel campo in cui credo di saperne oramai qualcosa, la musica, i pregiudizi sono all’ordine del giorno. Vi racconto questa.

Qualche settimana fa ho assistito al concerto dei Kokoroko, una band di jazz moderno contaminato dall’afrobeat che mi piace moltissimo. Mi sono presentato all’Alcatraz, il locale in cui era prevista l’esibizione, con il mio consueto folle anticipo, un’accortezza che mi ha consentito di occupare un posto appiccicato alle transenne sotto il palco e centralissimo rispetto alla collocazione degli strumenti. Al mio fianco destro, in pole position come me, c’era una giovane donna da sola, una ragazza minuta che non avrà avuto nemmeno trent’anni. La mia fervida immaginazione si è messa subito in moto con il filtro della discriminazione di genere che, in quanto uomo, non riesco a tenere a bada e che tento in tutti i modi di non manifestare esternamente.

I Kokoroko non sono certo una band da giovanissimi, intanto. Il resto della prima fila era composto da vecchi di merda come il sottoscritto. Proprio oltre la ragazza al mio fianco si erano posizionati tre amici, forse anche di poco più vecchi di merda di me che poi conoscerete al termine di questo aneddoto, e dalla parte opposta la situazione era poco differente. E poi, ho pensato cercando di non darlo a vedere, che cosa strana, una donna che ascolta jazz. Una donna che ascolta jazz, si presenta da sola a un concerto di una band di nicchia, giunge in anticipo quanto me che sono un uomo e si piazza in prima fila. Con l’aggravante patriarcale che la band in questione è capitanata da una sezione fiati tutta al femminile e, anche se fosse, i Kokoroko non sono certo il tipo di artisti che vai a vedere in concerto per la presenza. Piuttosto, sono dei mostri di tecnica e di groove. Questo mi ha indotto a supporre che la mia vicina di concerto fosse una musicista, un’addetta ai lavori. Oppure una pseudo-giornalista, lì come me senza compagnia per raccogliere tutte le sensazioni da riversare in un report per una qualche testata online come quella per cui scrivo io, che la leggono in quattro gatti.

Lungo l’ora abbondante di attesa prima dell’inizio, forse anche due, ho cercato in tutti i modi di capire che diavolo ci facesse lì. Non ho osato chiederglielo, un vecchio di merda che approccia una ragazza giovane a un concerto è una cosa che non si può sentire, un altro risultato di una mentalità ultra-patriarcale: con il genere femminile si parla solo per rimorchiare. Ho tentato persino di captare una videochiamata che ha fatto a un ragazzo, presumibilmente il suo fidanzato (e a chi altro penserebbe un maschilista) ma oramai il locale era stracolmo, la musica di sottofondo ingombrante, e della conversazione non ho colto nemmeno una parola. Durante l’esecuzione ha dimostrato di conoscere i brani, si muoveva bene come me a tempo e, anzi, a un certo punto l’ho sentita lamentarsi da sola che, del primo disco, i Kokoroko stavano suonando pochi pezzi. Se avessi accennato un tentativo amichevole prima, probabilmente ne avremmo discusso insieme ma in quel frangente, durante il live, sarebbe stato impensabile fare due chiacchiere.

Io ho trascorso tutto il tempo dell’esibizione con la bocca aperta, il concerto è stato a dir poco straordinario. Appena le luci si sono accese, ho percepito forte l’impulso di condividere con qualcuno il mio stato d’animo di beatitudine. Il mio sguardo ha incrociato i tre amici (uomini) che, come me, sovrastavano in altezza la ragazza in mezzo a noi, e mentre cercavo la loro complicità sull’effettivo valore di ciò a cui avevamo appena assistito, dentro di me già mi sentivo in colpa per non aver ritenuto quella ragazza all’altezza di una conversazione sugli aspetti jazzistici – o di tecnica musicale tout court – che avevano contribuito a rendere quel live set un appuntamento di quelli indimenticabili. Mi sono pentito immediatamente perché chissà come sarebbe potuto risultare appagante un confronto con lei, chissà che cosa avrei potuto imparare, chissà quali spunti avrebbe potuto offrirmi anche in vista dell’articolo che avrei dovuto scrivere, di lì a poco. Invece, mi sono accontentato della confort zone al testosterone, tre uomini – peraltro liguri quanto me – con i quali ci siamo subito cimentati a chi aveva il concerto più lungo.

Ma questa storia non finisce qui. Domenica scorsa ho assistito a un secondo concerto jazz. Come i Kokoroko, anche quello di Amaro Freitas a cui ho partecipato faceva parte della bella rassegna JazzMI. A differenza dell’Alcatraz, la location – il teatro della Triennale – prevedeva posti a sedere numerati. Alla mia destra si è seduto un elegante signore inglese ma residente in Italia con il quale ho subito fatto amicizia e ho condiviso le sensazioni e l’eccitazione per ciò che stava per iniziare. Alla mia sinistra si sono sedute due ragazze sui trenta/trentacinque anni. Sull’onda emotiva del rammarico per il mio precedente comportamento, ho prestato attenzione alle loro conversazioni cercando di cogliere uno spunto – le contaminazioni del jazz brasiliano, l’influenza di Chick Corea, l’eterno dibattito tra jazz tonale e jazz modale – per fare conoscenza ma i temi che ho colto – amicizie comuni e vita in ufficio – non mi hanno permesso di portare a compimento il mio desiderio di redenzione.

Ma, nel momento meno accogliente del concerto, proprio quando Amaro Freitas ha imboccato la via meno comprensibile della sua musica, un mix tra musica concreta, jazz e richiami alle tradizioni delle popolazioni amazzoniche, ho notato che entrambe le amiche hanno indossato il piumino e raccolto le loro cose, la borsetta e l’ombrello, procurandomi un certo fastidio a causa del tipico rumore di tessuti invernali prodotto. Ho fatto finta di niente per non mostrarmi pedante e inopportuno. Al termine del brano, eravamo nel bel mezzo della scaletta, le due donne se la sono svignata alla chetichella, guadagnando l’uscita lì a fianco mentre il pubblico saturava con copiosi applausi l’atmosfera in sala sancendo il primato culturale di ciò di cui avevamo la fortuna di essere protagonisti. Da quella scena inqualificabile che si è consumata accanto a me, continuo a chiedermi il motivo che ha spinto due persone a darsela a gambe al cospetto di una proposta così elevata di jazz contemporaneo, ma forse erano semplicemente in ritardo per qualche altra cosa più interessante di Amaro Freitas.

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