English Teacher – This Could Be Texas

Standard

Che sia o no un disco post-punk, “This Could Be Texas” è un album d’esordio pressoché perfetto con il quale gli English Teacher superano tutte le aspettative.

Non erano abbastanza il modo che hanno solo loro di suonare la chitarra, un vocabolario pieno zeppo di parole tronche, la cultura della musica d’insieme (pensatelo in contrapposizione all’individualismo esasperato ed esasperante dei nostri ragazzi che puntano tutto solo su se stessi), i produttori discografici, la disinibizione compositiva e l’attitudine a superare qualsiasi canone armonico e melodico per meri fini commerciali (una volta avremmo tirato in ballo gli edit radiofonici, oggi parliamo principalmente di TikTok), per non parlare della fortuna di nascere in un posto dove la musica non è svilita ma è rispettata, insegnata e coltivata e, proprio per questo, parte integrante dell’economia, a farci schiumare di invidia.

Ci mancava giusto la possibilità di scegliersi nomi tipo i calamaro, la legge sul cantiere, la capitale degli omicidi, gira al minimo, paese nero strada nuova, lavaggio a secco, gamba bagnata. Da noi, forse, la cosa che si avvicina di più a l’insegnante di inglese è la rappresentante di lista. Oltre a tutte le fortune che hanno, in UK non c’è neppure bisogno di inventarsi neologismi roboanti o giochi di parole o, a parte i Bar Italia, puntare su nonsense in lingua straniera. In UK il rock è ancora una cosa seria. In UK il rock è ancora la musica più moderna che ci sia.

Tengo d’occhio l’uscita di questo disco da quasi due anni, da quando ha fatto breccia nella mia vita la prima versione di “R&B”, un pezzo confezionato a puntino per chi, come me, vede nei canoni del post-punk cantato con voce intonata, possibilmente femminile e con qualche ammiccamento soul, il non plus ultra, anzi il top, come si dice ora. La perfezione.

Da allora ho seguito con una abnegazione che spero qualcuno mi riconosca, prima o poi (un’applicazione vi assicuro ai limiti dello stalking) l’evoluzione di questa band, approcciando con ascolti attentissimi tutti i nuovi singoli che, battuta dopo battuta, nota dopo nota, smentivano l’appartenenza degli English Teacher al mio principale genere musicale di riferimento. Brani pensati per mettere alla prova gli appassionati veri, i cultori disinteressati di questo quartetto che, manco a dirsi, anziché indurmi a desistere, mi hanno intrigato sempre di più. In amore, si sa, è una tecnica consolidata.

Ho persino ricondotto l’esperienza degli English Teacher a quella dei Police, artisti che alle origini della loro carriera hanno sfruttato il punk in quanto genere più in voga ai tempi e, suonando volutamente in modo approssimativo (erano composti da un jazzista, un mostro di tecnica alla batteria e un session man di esperienza) sarebbero potuti risultare più accattivanti per il gusto dell’epoca.

Il punto è proprio che il post-punk, agli English Teacher, sta altrettanto stretto e, giunti all’ultima nota del loro straordinario ellepi di esordio, viene da pensare che l’aspetto post-punk, di tutta quella meraviglia, sia forse il meno rilevante, quello meno decisivo, considerata la bellezza e l’originalità di tutto il resto. E non ero certo solo io, sulle spine, nell’attesa della pubblicazione di This Could Be Texas. Un pezzo da novanta come Beyoncé ne ha incensato il valore poche ore prima dell’uscita, definendo gli English Teacher “di gran lunga la migliore nuova band del pianeta in questo momento”. Non sarò certo io a smentirla.

La tracklist di This Could Be Texas è perfetta e alterna gli ottimi spunti che hanno preceduto l’album con inediti assolutamente all’altezza. Con “Albatross”, il brano di apertura, l’opera spicca immediatamente il volo e non potrebbe essere altrimenti. Non delude le aspettative di chi non vedeva l’ora di avere tra le mani il disco e concentra i tratti principali della band a chi si approccia a loro per la prima volta. Emerge immediatamente tutta la bellezza della poesia di Lily Fontaine (sorprendente autrice dei testi, ottima vocalist e incantevole front woman del gruppo, il tutto in un’unica persona) e la sua personalità artistica a metà tra letteratura e musica, con liriche aspre e allo stesso tempo ricche di fascino, in cui trovano posto introspezione, quotidianità familiare e visioni surreali.

Ci sono quindi i brani che non stonerebbero in nessuna playlist dedicata al fiorente panorama neo post-punk britannico, a partire da “I Am The World’s Biggest Paving Slab”, in cui Lily Fontaine afferma di sentirsi la piastrella più grande del mondo ma anche la celebrità più piccola, un verso che, dopo questo esordio, siamo sicuri che presto non corrisponderà più alla realtà. In questa categoria rientrano a pieno diritto anche “I’m Not Crying, You’re Crying”, una hit alternative a tutti gli effetti, a metà tra lo spoken word di Dry Cleaning e le chitarre stoner dei Dinosaur Jr., l’ormai conosciutissima “R&B”, ovvero come rispondere con ironia ai pregiudizi di vivere con la pelle scura nell’industria musicale, e “Nearly Daffodils”, un modo originale per parlare d’amore che si caratterizza per un particolare fraseggio strumentale all’unisono (o quasi) che mette in luce tutta la tecnica e la creatività del resto della band, il chitarrista Lewis Whiting, il bassista Nicholas Eden e il batterista Douglas Frost.

Già solo con questa manciata di brani This Could Be Texas potrebbe conquistare il primato di disco dell’anno. Ma il bello deve ancora venire.

Il resto delle canzoni risultano composizioni fuori da qualsiasi cliché, difficilmente categorizzabili e che fanno degli English Teacher una delle band più originali in circolazione. Mi riferisco a “Broken Biscuits” e al suo sapore tutto dispari alla The Lamb Lies Down On Broadway degli ultimissimi Genesis, al disordinato indie folk di “Mastermind Specialism”, probabilmente il resoconto di una seduta di psicanalisi, alle ancor più evidenti citazioni progressive nella title track, con i suoi strappi resi con strumenti acustici e, quindi, ancora più forti e marcati e il travolgente crescendo strumentale della coda.

Fino all’apoteosi totale e finale, composta dalla struggente “The Best Tears of Your Life”, davvero una delle cose migliori mai sentite negli ultimi anni, dalle parole di incontrollata passione accompagnate dal piano e gli archi di “You Blister My Paint” (“Your overexposure makes my eyes weak/But I can’t look away, You’re so hot then you leave me”), dalla leggerezza pensata quasi in contrapposizione con il pezzo precedente di “Sideboobs”, una gita tra curve e colline con tutte le diverse accezioni del caso, per terminare con “Albert Road”, la ballad che non potrebbe stare altro che qui in chiusura, una sequenza di umanità (chissà se le persone di cui si parla sono le stesse che hanno partecipato al video, riprese nel pub) in rassegna lungo l’omonima via principale di Colne, la cittadina a un’ora di macchina da Leeds in cui Lily Fontaine è cresciuta.

C’è da chiedersi in che modo gli English Teacher sapranno restituire dal vivo quanto promesso in This Could Be Texas. Non dev’essere per nulla facile trasmettere una gamma di registri emotivi e musicali così ampia ed eterogenea. Se riusciranno (ne sono certo) potrò immolarmi definitivamente a loro. Per il momento, mi godo all’infinito questo capolavoro, sicuramente uno degli esordi più convincenti nella storia recente della musica inglese.

la sette

Standard

Ora ditemi se la sigla di Propaganda Live non sta meglio in 7/4.

chi rispetta le tradizioni americane

Standard

Ora ditemi chi, in Italia, cucina il pollo così.

una volta qui era tutta campania

Standard

Nel quadernone di matematica di Belen sembra che un ordigno sia esploso scaraventando numeri, parole e frammenti di essi alla rinfusa. Anche le figure geometriche hanno tutta l’aria di esser state bombardate: quadrilateri con tetti che crollano e pareti ridotte in macerie, e cerchi che ricordano le poltrone a sacco su cui perdeva l’equilibrio il buon Fracchia. E, tutto intorno, macchie di cancellature, strappi e buchi nei fogli, riconducibili al punto della deflagrazione di cui sopra. Se non fossimo persone che non si lasciano avvincere dal fascino della semplificazione e dei luoghi comuni, potremmo dimostrare che il disordine e l’incuria con cui gestisce il suo materiale riflettono perfettamente la situazione famigliare. Il padre (originario della provincia di Napoli, uno che si mette il gel e non si sa bene che lavoro faccia ma guida un’auto da serie Netflix sulla criminalità e sul profilo Facebook ha impostato una foto con la faccia parzialmente coperta dalla mano con il dito medio – tatuato – alzato verso l’obiettivo, diretto cioè verso il mondo e anche me) e la mamma (nata nel centroamerica e con quel piglio aggressivo di partenza, indipendentemente da quello che le devi comunicare) si stanno separando. Almeno così mi ha fatto comprendere la madre durante un colloquio a metà anno, anche se spesso li vedo recuperare Belen e il fratello, a cui hanno dato un nome altrettanto in linea con l’immaginario Mediaset, insieme.

Nonostante questo, Belen si conferma una delle mie preferite per due, anzi, tre motivi. Il primo è che pratica questo disinteresse totale per la scuola, in linea con i genitori che non credo abbiano mai firmato una delle disastrose verifiche della figlia, con una coerenza encomiabile. È così in tutte le materie e, dalla prima alla quinta, la mia collega ed io non dico che le abbiamo provate tutte ma ne abbiamo provate abbastanza, e quelle che abbiamo provato non hanno avuto alcun successo. Evidentemente, parlo per me, non sono all’altezza di suscitare a lei, e di conseguenza alla famiglia, il benché minimo interesse verso la scuola. Belen se la cava però straordinariamente in due cose, che coincidono con gli altri due motivi per cui la stimo. Intanto in Inglese è tra le migliori della classe, una materia che non studia come le altre ma che coltiva seguendo cartoni e serie tv in lingua e, soprattutto, frequentando l’umanità di TikTok.

Poi sa cantare alla perfezione le canzoni di Geolier. E quando scrivo alla perfezione è perché, oltre a conoscere a memoria tutte le parole dei testi che, come sapete, sono in dialetto stretto napoletano, è in grado di eseguire perfettamente tutte le mosse – principalmente studiate per gli arti superiori e il viso, in quanto pensate per TikTok – che le convenzioni di TikTok appunto impongono all’interpretazione delle canzoni dei cantanti di grido. E ancora, se non fossimo persone che non si lasciano avvincere dal fascino della semplificazione e dei luoghi comuni, legheremmo la sua principale peculiarità, una resilienza a ciò che comunemente riconduciamo al fallimento scolastico fuori del comune, a questo mix esplosivo tra le culture del papà e della mamma.

Forse perché per Belen non costituisce affatto un fallimento, il non aver raggiunto un obiettivo che è uno in matematica, da quando la conosco. La materia prima della sua resilienza fuori dal comune è stare su un pianeta che non è lo stesso in cui abitiamo noi insegnanti, i compagni, in cui c’è un edificio scolastico con le aule e i suoi laboratori. Belen vive in una dimensione parallela in cui queste cose sono invisibili, un secondo pianeta Terra fatto e finito esattamente come il nostro dove però non si studia per acquisire le competenze che poi, nella vita, permettono di vivere indipendenti dagli altri e da tutto. Un secondo pianeta Terra in cui si va in crociera con il papà per dieci giorni così, durante lo svolgimento regolare delle lezioni, senza avvisare nemmeno i docenti. Ma mica per altro, giusto per non farli preoccupare, se l’avessimo saputo prima di certo non le avremmo dato dei compiti da svolgere per non rimanere indietro, anche perché tanto non li avrebbe fatti.

berta dai grandi piedi

Standard

Era la prefazione di uno dei testi previsti nel corso monografico della prof.ssa Petti Balbi per gli studenti iscritti al suo esame che ci andava giù per il pesante contro il medioevo. A nessuno altrimenti sarebbe mai venuto in mente di guardare a quel millennio o giù di lì con così immotivato sospetto. Possibile che l’umanità in un arco di tempo così ampio non sia riuscita a produrre almeno una cosa buona? Eppure, nonostante questo terrorismo psicologico a cui siamo soggetti indipendentemente se, con la storia, ci fermiamo alla terza media o la scegliamo come disciplina di base per la nostra tesi di laurea, non c’è periodo a cui noi italiani siamo affezionati più del medioevo e ve lo dimostro.

Intanto non c’è città dalle nostre parti, ad eccezione di qualche esperimento urbanistico fallimentare del mascellone pelato giustamente appeso a testa in giù, che non abbia un’ossatura medioevale o un centro storico, per non parlare dei borghi più belli d’Italia che proliferano nelle trasmissioni della tv di stato, anzi di patria, in cui se magna e se bbeve conciati come dei pagliacci, anzi, come dei giullari di corte. Non c’è esperienza più ambita dagli italiani se non quella di abbuffarsi di piatti della tradizione in una taverna come quelle di una volta (inteso come quelle dell’anno mille) preparata con i prodotti della tradizione seguendo le ricette della tradizione.

E, nella nostra epoca caratterizzata dall’individualismo più esasperato ed esasperante, non c’è modello sociale più affascinante della granularizzazione causata dalla forza centrifuga del fuggi fuggi generale nel medioevo, in un momento in cui ciascuno fa per sé scrollandosi di dosso ogni responsabilità che deriva dal legame con un nucleo famigliare, un condominio, un quartiere, un paese o una città, una provincia, una regione, uno stato, un continente, il mondo intero, il sistema solare, la via lattea e l’universo stesso. E se non siamo tornati nelle caverne è perché ai tempi, io lo so bene perché le frequentavo, ci si muoveva in branco come bestie qualsiasi. Vuoi mettere una sana e basica esperienza di isolamento rispetto a tutti quei colori e a quel progresso con cui quelli del rinascimento sono poi arrivati a romperci i maroni? E poi, a quei tempi, le donne sapevano stare al loro posto, meglio tornare a un più salutare oscurantismo.

Non solo. Ci sono molte affinità tra i bestiari e gli unicorni dei tempi con tutte le fandonie di cui ci siamo riempiti l’immaginario del duemila. Le scie chimiche, i complotti, le dietrologie, per non parlare di tutte le superstizioni e i riti con cui ci riempiamo le giornate. L’ultima che ho letto è che c’è gente che pensa che i nostri antenati usino gli animali domestici come vettori per starci vicino e proteggerci, per quello che riescono a fare. Non si tratta di una reincarnazione, ma di veri e propri involucri in cui si alternano per osservare quello che facciamo. Non so chi ci sia, in questo momento, dentro alla mia gatta, di certo qualcuno che, quando era in carne e ossa, vomitava spesso. Quando, durante il lockdown, praticavo un po’ di ginnastica in salotto, manifestava la sua preoccupazione salendomi addosso per impedirmi gli esercizi più faticosi. Lo so cosa state pensando: ci controllano di più gatti e cani o i dispositivi che portiamo con noi? Anche questa è una tematica che non avrebbe sfigurato ai tempi dei draghi e dei castelli. È solo per un caso che il mio smartphone non fa altro che propormi app di allenamento con la sedia. Vedo solo anziani dagli addominali super definiti – maschi alfa rigorosamente tatuati e con le barbe che usano oggi – che si tengono in forma con esercizi a corpo libero da seduti. E non scrivo “calistenico” perché, altrimenti, anche questo spazio si riempirebbe di pubblicità profilata.

ballare a bocca chiusa

Standard

La citazione mi è arrivata. Bella.

Nadine Shah – Filthy Underneath

Standard

Il quinto album di Nadine Shah è quello decisivo, quello della svolta, quello che, toccato il fondo, attesta l’urgenza di raccontare come sia stato possibile sopravvivere.

Tra tutte le cantautrici che seguo con religiosa devozione, Nadine Shah è quella più piacevolmente impegnativa, l’artista che più di ogni altra comporta ascolti scomodi e, proprio come tutte le cose ad accesso non immediato, appaganti.

Fin dai tempi del suo straordinario esordio di Love Your Dum and Mad, album che ha compiuto dieci anni il 22 luglio scorso, Nadine Shah si distingue principalmente per la sua voce e il suo timbro, una versione di Siouxsie arricchita dalla versatilità, dalla tecnica e dal gusto di una ricercata interprete jazz, e per il suo stile musicale che riflette perfettamente questa apparente dicotomia.

Il risultato è infatti un raffinato post-punk arricchito da una sofisticata varietà di art rock, da cui risulta un magnetico equilibrio tra elettrico e elettronico, tra chitarre graffianti e synth ultra moderni, frutto della produzione di Ben Hillier (già dietro le quinte del synth rock dei Depeche Mode del nuovo millennio).

Pubblicato a quattro anni dal precedente Kitchen Sink, l’impressione è che Nadine Shah, forse per la prima volta, si concentri completamente su di sé, dopo essersi lasciata ispirare, nei precedenti lavori, da temi sociali di urgente attualità, come la questione femminile, la fragilità e l’instabilità mentale e i migranti, a cui ha dedicato il concept del riuscitissimo Holiday Destination.

Un lockdown intimo che non sorprende, se ripercorriamo le vicende umane che hanno portato alle tracce che compongono Filthy Underneath. Dal 2000 a oggi Nadine Shah ha accompagnato la madre lungo un doloroso decorso di fine vita. Si è sposata per poi divorziare a brevissimo giro. Ha messo volontariamente in discussione la sua stessa vita. Ha risalito il baratro grazie a un faticoso cammino di recupero e, riemersa, ha prestato il suo estro al teatro, la disciplina artistica che più si avvicina alla sua musica, impersonando Titania, la regina delle fate protagonista di Sogno di una notte di mezza estate di William Shakespeare, un barlume di commedia nella tragicità degli eventi.

Un concentrato di vita in quattro anni che non poteva non generare un disco così intenso e sofferto come Filthy Underneath, probabilmente il lavoro meglio riuscito e più completo e maturo di Nadine Shah. Il titolo non lascia dubbi sul desiderio di non nascondere nulla delle torbide vicende di cui l’artista è stata protagonista, suo malgrado. Il disco si apre con “Even Light” che è un vero compendio del suo stile: ardite acrobazie melodiche, l’inconfondibile vibrato della voce in coda alle note tenute, parte di batteria che ricorda “Fool”, uno dei suoi indimenticabili successi, e modernissimi suoni di synth che testimoniano la ricerca in fase di arrangiamento di cui il disco si caratterizza.

Anche il ritmo di “Topless Mother” rimanda a un altro cavallo di battaglia di Nadine Shah come “Stealing Cars”. Qui però si accelera il bpm e si parla di sedute di terapia, mentre nel ritornello (non a caso) si sciorinano disturbanti parole in libertà. C’è persino una rivisitazione in chiave dark del soul e della black music in “Food For Fuel”, basta concentrarsi sul cowbell percosso sul battere e sugli accenti della linea di basso che sembrano fare il verso a “Lady Marmalade” dei Labelle. A spegnere i fuochi ci pensano l’incipit della fredda “You Drive, I Shoot”, una traccia che non stonerebbe in Violator, e “Keeping Score”, forse uno degli episodi migliori del disco, coinvolgente ballad elettronica in cui Nadine Shah, in un mondo in fiamme (sono parole sue) trova un’ancora di salvezza.

Grazie allo spoken word di “Sad Lads Anonymous” la voce si fa conturbante e scende di tono, in un esercizio di terapia della lentezza propedeutica all’esplosione ritmica di “The Greatest Dancer”, uno dei singoli che ha preceduto l’album, trascinante e ipnotica danza (con un tema di synth epocale) perfetta per perdere il controllo e portare all’oblio di tutto, dolore compreso. “See My Girl” è una conversazione che Nadine Shah tesse con se stessa e con la madre morente, lungo una rassegna di istantanee per una sigla finale in accompagnamento ai titoli di coda di una relazione tra mamma e figlia. La lista delle venti peggiori cose che possano venire in mente è invece un fedele resoconto dell’esperienza del suo percorso di riabilitazione in clinica, episodio in cui la cantautrice storyteller che è in lei ha raccolto le toccanti testimonianze dei suoi compagni di destino (compresi quelli che non ce l’hanno fatta) per poi metterle in musica in “Twenty Things”.

Della scarna “Hyperrealism” ci aspettiamo una versione remix con una base electro sotto. Il pezzo risulta infatti una potenziale hit, a partire dal riff di synth e piano a corollario della melodia delle strofe. Nadine Shah ci lascia (senza lasciarci, per nostra fortuna) infine con l’escamotage della “French Exit”, l’andarsene alla chetichella dai party senza salutare, perché abbandonare qualcosa a cui si partecipa senza dare nell’occhio è un soffio, una sillaba tra l’istante in cui sei vivo e il nulla, proprio come la morte per propria scelta.

Converrete con me che Filthy Underneath è un album di una cupezza unica, un’opera che non lascia scampo, una testimonianza di amore per la vita di chi è sopravvissuto ma non ne è ancora del tutto consapevole, e per questo non possiamo che consumarlo di ascolti.

il piacere è tutto mio

Standard

Il percorso affettività che abbiamo organizzato per le nostre quinte ha avuto riscontri che hanno dell’incredibile. Se non sapete di cosa stiamo parlando, con la locuzione percorso affettività si intende una serie di incontri pensati per i bambini ai principi della pubertà condotti da un team specializzato composto da psicologhe e ostetriche e dedicati ai temi legati al sesso, all’amore e a come nascono i bambini.

La mia scuola, come spero la vostra, si rivolge ai consultori pubblici, un vero concentrato di competenze. Da me, una collega ha tentato il golpe proponendo un’organizzazione dal nome Teen Star che basta googlarla per trovarsi nelle pagine dei meeting di Rimini. Per fortuna la mia dirigente e il collegio docenti si sono espressi a favore dell’opzione laica e i superstiziosi oscurantisti, ancora una volta, sono stati giustamente relegati ai loro conciliaboli fantasy. Ma, con i fasciomelonisti al potere e le loro rotture di maroni sul primato bianco italiano cristiano no-vax, i tempi sono quello che sono. Per questo un paio di mamme ha comunque voluto conoscere per filo e per segno il programma previsto dall’iniziativa. Ed è stata proprio una delle loro figlie, nella sessione di Q&A, a chiedere all’ostetrica in che senso, fare l’amore, procura piacere.

Non è il primo progetto che seguiamo quest’anno, e non sarà certo l’ultimo. I docenti sono chiamati a rimanere in classe per ovvie questioni di sorveglianza, ma a me piace comunque restare e ascoltare gli esperti che ingaggiamo per imparare, soprattutto in questo caso e anche perché, in caso di richieste di approfondimenti da parte della mia classe, dovrò cercare di mantenermi in linea con l’approccio delle specialiste. Cosa che sarà impossibile, perché erano così brave da risultare commoventi. Sono riuscite a trattare argomenti delicatissimi con una naturalezza encomiabile. A nessuno dei miei è scappato un risolino, ci sono state domande anche piuttosto scomode alle quali non si sono sottratte e che sono riuscite a evadere perfettamente, come quella che vi ho detto prima.

Ho invidiato moltissimo la bramosia di conoscenza che serpeggiava in classe, un gruppo davvero speciale che non credo mi ricapiterà mai nella mia carriera. Ero seduto in mezzo a loro – dopo essermi accertato che la mia presenza non creasse inibizioni – e captavo quella sete di vita che veniva placata un sorso alla volta. Poi c’è stato un passaggio in cui ho percepito una di quelle emozioni confuse che mescolano esperienze vissute all’istante in corso, ed è stato magico sentirsi immersi nella trasformazione che si stava compiendo intorno a me, anche se è stata questione di un istante, per ritrovarmi di nuovo spettatore come prima che accadesse tutto ciò.

Le specialiste ci hanno lasciato una scatola vuota di latta, quelle che contengono biscotti tipici del nord Europa, in cui i miei alunni potranno mettere le domande in forma anonima. Una trovata efficace dedicata a chi vuole saperne di più ma non se la sente di esporsi. La ragazzina curiosa sul piacere, quella della famiglia ultracattolica, con la sua ingenuità ha invece spiazzato tutti. Almeno me, che vedo tutto dall’altra parte della vita.

cultura locale

Standard

Non so se l’avete notato, ma questo spazio si sta trasformando in una di quelle piattaforme online dove è possibile conoscere persone con i miei stessi gusti. Una specie di tinder dove immagino poi alla fine la gente tromba ma prima fa le cose come gliele spiego io, ascolta i dischi che consiglio, insomma lettori che si lasciano influenzare evitando il rilancio con qualcosa di più trasgressivo come invece siete abituati a fare nelle conversazioni della vita reale quando, qualsiasi cosa io dica, voi già almeno cinque anni fa la praticavate prima degli altri. Ho ricevuto persino un’offerta da un noto network del digitale terrestre specializzato in programmi di taglio situazionista per adattare queste storie d’amore e di amicizia, che nascono all’insegna di quello che scrivo, in un format che ha tutte le carte in regola per sbaragliare la concorrenza.

Io ho risposto che va bene ma non credo che nulla sia in grado, in questo momento, di superare “Casa a prima vista”, la cui visione qui da me è imprescindibile e fuori discussione e ha soppiantato senza ritorno il rigattiere inglese che gira per mercatini. Non c’è storia. Intanto perché non c’è nulla di più appagante di visitare appartamenti, e poi perché c’era un secondo motivo ma in questo momento mi sfugge.

I miei episodi preferiti sono quelli ambientati a Milano, quelli con la tipa con quelle labbra che in natura non esistono altrove e che ha la stessa flessuosità nei movimenti di David Zed. Attenti, però: se non siete avvezzi al mercato immobiliare della zona potrebbe venirvi un colpo come all’attrice dello spot di Idealista, quella che non trattiene l’emozione delle case che visita e sviene mostrando ogni volta le cosce. Sicuramente conta questo aspetto, ma sono sicuro che proverei per lei la stessa smodata attrazione anche se recitasse con i pantaloni lunghi.

Ma, tornando al programma televisivo cult del momento, mi entusiasma scoprire l’esistenza di esseri umani in carne e ossa come me e voi che hanno settecentomila euro di budget da spendere per un bilocale in zona Paolo Sarpi. Perché lo so che ci sono anche ville o boschi verticali da tre o quattro milioni di euro, ma i loro acquirenti giocano un campionato diverso. Io sto parlando di gente poco più che normale, di qualche categoria superiore alla mia, un livello comunque a cui il mio ascensore sociale resta in panne almeno quattro piani sotto. Per pura captatio benevolentiae, sappiate che – al netto della mia famiglia – le due cose di cui vado più orgoglioso nella mia vita sono l’essere riuscito a comprare un appartamento (anche se non da settecentomila euro) e l’aver corso qualche volta per ventun chilometri di fila senza sosta.

Arrivo al dunque, perché mi pare di aver capito che Gianluca Torre, che dei tre conduttori di “Casa a prima vista” è forse è quello in cui mi riconosco di più, come me è un podista, spero per lui più in forma. Sarà per questo che, mentre seguivo la puntata di stasera, ho pensato che se ereditassi settecentomila euro (a proposito, valuto proposte di facoltosi genitori adottivi volontari) lo chiamerei subito e verserei immediatamente l’acconto per l’appartamento proposto da lui che i concorrenti non hanno scelto, quello in zona Scalo Farini. Anzi, Gianluca, se mi stai leggendo, bloccalo subito. Scendo a fare un bancomat e ti porto i soldi domani.

Avrete capito che sono appassionatissimo di architettura di interni e, più in generale, di urbanistica. Il mio progetto, quando sarò in pensione, è quello di girare a piedi in lungo e in largo Milano, che è la mia città preferita dopo Berlino, per scoprire e osservare da vicino i quartieri e i condomini più interessanti. Magari aprirò un nuovo blog dedicato a questo tema, chi lo sa, quindi non smettete di seguirmi.

out of office

Standard

Se al rientro dal weekend di carnevale la scuola è praticamente finita, a Pasqua e pasquetta, se non fosse che piove sempre – tranne quando siamo costretti in casa per un lockdown – possiamo considerarci già in piene ferie di agosto. Ho allestito un calendario per organizzare al meglio le ultime attività da svolgere con i bambini e lo slalom tra progetti e gite, se fossi uno che patisce il mal d’auto, mi avrebbe esposto a serio rischio sbocco sul file di Google Fogli su cui lo ho preparato. Ho piazzato le ultime esercitazioni (guai a chiamarle verifiche) decisive per tirare le somme dei cinque anni di matematica e, nella manciata di minuti che mi è rimasta libera da qui a giugno, ci infilerò tutto il resto.

Nel corso di formazione che sto tenendo in queste settimane ai miei colleghi, previsto dalle azioni di coinvolgimento degli animatori digitali all’interno del PNRR, ho insegnato ai colleghi a mettere l’out of office con GMail. La tentazione di inviare gli auguri di buona pasqua a tutta la lista per verificare chi ha avuto davvero il coraggio di impostarlo sul serio – la mia era una ironica provocazione – è forte. Le persone che non hanno a cuore la scuola italiana sostengono che, per noi docenti, un risponditore automatico non occorre, intanto perché siamo sempre in ferie e poi perché sarebbe l’unica occasione in cui rispondiamo al mittente come si fa negli uffici seri, cioè appena riceviamo l’email. Invece vi posso assicurare che siamo in tanti a rispondere all’istante come si fa negli uffici seri, soprattutto proprio quando qualcuno – di norma la docente di religione, sicuramente la più coinvolta dalla cosa e la più autorevole nel settore – invia gli auguri a tutti, corredati da gif o immagini in stile buongiornissimo!!1! kaffeeee?? sui gruppi di paese su Facebook, non so se ho reso l’idea. La casella di posta immediatamente si satura di una pioggia di ringraziamenti e saluti incrociati, in un tripudio a metà tra il boomerismo e quel modo di essere digitali tipico degli insegnanti.

In realtà a me spiace non poter salutare tutti, l’ultimo giorno prima delle pause più lunghe. Quando lavoravo in agenzia, l’ultimo giorno, con quello stato d’animo (inesistente altrove in natura) di stupore per l’eccezionalità di non doversi recare al lavoro il giorno dopo e quelli successivi per un causa indipendente dalla propria volontà (la chiusura decisa dall’azienda stessa), alle 18 mi lanciavo in un tour delle postazioni per lasciare il mio arrivederci a dopo le vacanze. Ma eravamo in trenta persone, e con un paio di saluti generici mi era possibile raggiungere tutti.

A scuola questo è impossibile. Siamo cinque volte tanto, distribuiti in più plessi e, nello stesso edificio, su più piani e, ancora, in aule separate e talvolta con le porte chiuse, nel segreto del nostro metodo pedagogico. Un tour di tutto il comprensivo mi esporrebbe alla preoccupazione plenaria sul mio stato di salute mentale. Chi mai lo farebbe? E poi, a dirla tutta, mi sa che domani faccio un salto, tanto le collaboratrici ci sono. Devo sgomberare un magazzino che diventerà un nuovo laboratorio e vorrei installare ChromeOS Flex per recuperare un paio di catorci che, all’ennesimo aggiornamento Windows, non danno più segni di vita. A scuola, volendo, c’è sempre da fare ma non prendetemi per uno di quelli malati di zelo. Mi piace l’atmosfera che si crea nelle aule e nei corridoi durante i giorni di chiusura. Il tempio dell’istruzione svuotato della sua materia prima. Una sensazione che non ha nulla a che vedere con l’andare in ufficio il sabato o la domenica perché c’è una scadenza da rispettare. Quante volte mi è successo. Ecco, a scuola non ci sono scadenze da rispettare, o meglio, non di quel tipo che intendete voi. Si fa sempre tutto tutti insieme e, proprio come in classe, il primo aspetta l’ultimo. E, se nell’attesa si annoia, c’è sempre una cornicetta da disegnare e colorare, per abbellire il foglio.