ad Amerigo ciò pareva sublime

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La sobria efficienza del Presidente del Consiglio e dei suoi ministri nel corso della conferenza stampa di questa sera, al di là dei contenuti e di tutto quello che sarà, mi ha riportato alla mente quel passaggio de “La giornata d’uno scrutatore”, in cui Italo Calvino si bea dell’ordinarietà e del grigiore di una macchina pubblica che fa il suo dovere in confronto ai fasti e alle pompe a cui il potere ci ha abituati – del fascismo per lui, del precedente governo per noi – e agli ossequi che una certa Italia ha tributato ai relativi cotillon. Poi, alle lacrime del ministro Elsa Fornero mi sono stupito anche io, sapete, non siamo più abituati alla spontaneità, quindi mi sono voltato verso mia moglie, ho visto anche lei visibilmente commossa, e ho pensato che la sensibilità era un aspetto della politica che quasi non ricordavo più.

di tutti, di più

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“La biblioteca è il posto migliore che ho conosciuto”, dice Marius in questa struggente clip di Amnesty International dedicata a un ragazzino rumeno che tra sgomberi e mille difficoltà, in pochi mesi e grazie all’aiuto di volontari ha imparato a leggere e a scrivere e ha trovato un seconda casa. Il ruolo della biblioteca civica come spazio pubblico condiviso e gratuito, in cui chiunque può sostare senza essere cacciato, non è solo più quello di tempio della cultura, dell’archiviazione e del nozionismo, o almeno non solo quello. Un luogo in cui è possibile consultare quotidiani e usare Internet (le biblioteche più evolute) gratuitamente o comunque a prezzo non di mercato, aree talvolta addirittura dotate di wifi libero, che proprio a causa delle nuove povertà stanno acquisendo un significato diverso, quello di versatile tetto pomeridiano comune. Sono certo che i puristi storceranno il naso di questo, alcuni operatori del settore grideranno allo scandalo, chi usa la biblioteca per studiare sbufferà infastidito in prossimità di bambini che giocano e schiamazzano in sala ragazzi e adolescenti che si alternano alle postazioni dotate di pc. Ma credo che libri, dvd e cultura non siano mai stati così meglio di adesso, in mezzo a così tanta vitalità e a disposizione di chi ha bisogno di un po’ di tutto. Via Tilane. In questa foto, invece, un utente con la propria figlia.

gente piccola piccola

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Non saprei dirvi se si tratti del migliore film a cartoni animati dell’anno perché non ho abbastanza termini di paragone, di certo Arrietty, l’ultima lavorazione dello Studio Ghibli (quelli che possono permettersi un logo come Totoro) distribuita in Italia è una delle produzioni cinematografiche di animazione più sorprendenti alle quali il sottoscritto e la sua discendente abbiano mai assistito. La favola degli gnomi come vicini di casa, anzi di stanza, uno dei temi più sfruttati dalla letteratura per l’infanzia che pur nella loro dimensione ridotta hanno sentimenti ed emozioni extralarge. E nell’anno del ritorno dei Puffi, ecco questo sì lo conosco anche io, da oriente arriva un punto di vista alternativo sulle creature antropomorfe più piccole che si possano immaginare. La famiglia a cui appartiene Arrietty è umana al 100% e vive esattamente come una qualunque famiglia costretta ad arrangiarsi perché di natura gnomica. Costretta a una sorta di esproprio delle cose più piccole, spesso cose di minima importanza dei giganti che abitano la villa che sovrasta il loro mini-appartamento, il padre trascorre le sue ore lavorative in continua spedizione, turni rigorosamente di notte, a spasso tra cose più grandi di lui alla ricerca dei generi necessari, e per fortuna i suoi congiunti si accontentano di poco. In questo scarto di proporzioni, Arriety non riesce a sottrarsi ai sentimenti di amicizia verso il ragazzo malato e costretto a una clausura forzata pre-operatoria proprio in quella villa di campagna. Ma nelle leggi della natura non è concepito un rapporto alla pari tra specie diverse, essere grandi e grossi impone l’istinto della dominazione. Un film perfetto per chi ama contornarsi di miniature, sbirciare nelle case delle bambole, costruire plastici in scala ridotta. Tratta da un mondo dove un gatto è più che un dinosauro, un corvo è un temibile predatore e una cavalletta equivale a un nostro equino adulto, Arrietty è un storia in grado di lasciare a bocca aperta adulti e bambini, un viaggio in una dimensione sotto i dieci centimetri per tornare ad essere piccini piccini e meravigliarsi di tutto quello che, visto da laggiù, può essere di nuovo una grande scoperta.

secondo lavoro

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Una mattina finì il dentifricio, era già venuto il momento di ricomprarlo. Nella stessa sessione di igiene personale si esaurì il deodorante che già l’aveva trafugato a casa dei suoi che era mezzo consumato, un paio di spalmate sotto le ascelle ed era rimasta solo la plastica del tubetto che, spingendo sulla pelle sensibile, la irritava. Nella cassetta della posta la sera precedente aveva raccolto la prima bolletta della luce con i costi dell’allaccio della nuova utenza, per fortuna la scadenza per il pagamento sarebbe stata dieci giorni dopo. Un’eternità. Nel frattempo stava esaurendo il latte, anche quello da annotare nella lista della spesa da fare nel pomeriggio, al rientro dall’ufficio. E i sacchi della spazzatura, quelli sono fondamentali. Poi il doppione delle chiavi della nuova casa che aveva preso in affitto, poco più che un monolocale. Senza contare la pulizia del boiler della settimana scorsa, di sua competenza, e l’acquisto del futon da usare come letto, una cosuccia in confronto alle tre mensilità anticipate e la caparra versata al padrone di casa. E quella mattina, quella del dentifricio, da solo in un bagno minuscolo e freddo, dietro una tenda di plastica Ikea da doccia, non era nemmeno la metà del mese.

non nelle mie corde

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Una volta esisteva una tipologia di nerd musicofilo, passatemi il termine, ben definita con gusti ben precisi. Quelli che in macchina, un’automobile solitamente sportiva con tutti quegli ammennicoli che non saprei definire, quegli optional che ne facevano un mezzo tendente alla vettura da rally o comunque differente dalla media, avevano un portacassette in cui non era difficile trovare artisti e gruppi tipo i Toto, Pat Metheny, gli Eagles, Gary Moore e, soprattutto, le favolose schitarrate di Carlos Santana. La confortevole fragranza dell’arbre magique alla vaniglia faceva da teatro sinestesico a quella specie di – come definirlo? –  soft hard rock melodico, tutto guitar-based, che il proprietario ascoltava con le mani ben salde sul volante da competizione, il capello un po’ lungo e ondulato sul collo, lo sguardo sognante a un tramonto dal quale speravano prima o poi di veder sorgere un fiore di luna. Ecco, dove siete ora? Che ne è stato di voi? Che musica ascoltate?

internet, una rete o un acquedotto?

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Stamattina, acceso il mio minimac in ufficio, mi sono chiesto se il fatto che miliardi di impiegati e lavoratori di ogni tipo al mondo sono connessi a questo infinito videogame che è Internet durante il 100% delle loro ore lavorative sia in qualche modo collegato alla crisi economica. Non so, un calo generale della produttività, un po’ come l’avvelenamento da piombo presente nell’acqua tra le cause della caduta dell’Impero Romano. Il mercato globale finisce ko per i troppi like sui social network? Sarà un enigma per gli archeologi del futuro capire la fonte di questa intossicazione generale che ha indotto una intera civiltà all’autodistruzione da cazzeggio.

che crea falsi miti di progresso

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I Subsonica hanno pubblicato una nuova edizione del loro ultimo lavoro, Eden, in cui hanno incluso anche la loro rivisitazione di “Up patriots to arms”, un pezzo che non ha bisogno di presentazione alcuna e che fa parte di una delle migliori produzioni musicali italiane del secolo scorso che è l’album Patriots di Franco Battiato. La band torinese ne propone la cover da un po’ di tempo, recentemente era compresa in un medley con “L’ultima risposta” ed oggi, finalmente, è stata registrata in studio con tutti i crismi, voce di Battiato compresa. Chiaro che stiamo parlando di una di quelle canzoni così intense e belle che è quasi impossibile eseguirla male, puoi anche rivoltarla come un calzino ma conserva comunque il suo fascino. Quindi grazie a Rael che mi ha dato l’ispirazione, e qui sotto trovate riunite l’originale, la prima cover che io ricordi che risale addirittura ai Disciplinatha, una versione rockettara dei Negrita e la più recente di Samuel e soci (in qualità meno che disdicevole, ma è quanto passa per ora il convento).

vita da star

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Ci siede intorno a un tavolo, si occupano divani e sedie, e poi ci si guarda negli occhi mentre ognuno si guarda dentro e cerca di immaginarsi quando sarà il proprio turno. Il rumore della trivella della riflessione si attenua solo quando uno di noi fa una domanda, quell’altro risponde. Si sdrammatizza, scappa il sorriso, la battuta. Poi l’ansia riparte e va più a fondo, oltre al dolore ci saranno tutti gli aspetti tecnici, nessuno è esperto, per fortuna, solo chi ha avuto un lutto di un parente stretto da poco sa dirti cosa ci vuole e cosa è bene evitare. Viene fuori addirittura che ci sono quelli che ti fanno tutto, non devi pensare a nulla, la mattina dopo hai già i manifesti per le vie, ti vestono la salma, ti organizzano le esequie. E domani tutti ad accompagnare un pezzo della storia di qualcun altro che va ad aggiungere anni a un film lungo più di quanto riusciamo a immaginare, alcune scene ancora impresse nella memoria di qualcuno, altre perse per sempre quando anche l’ultimo spettatore sopravvissuto è passato dietro le quinte. Così ti viene voglia di chiederlo a quelli che incontri, che poi è una domanda che oramai tutti collegano a una celebre gag di un comico napoletano, anche lui già nel cast di quell’altro lungometraggio. Lo sai, vero, che anche tu…? Ti viene da chiedere. E lo sai che anche questa tizia che è seduta qui a fianco e legge Vanity Fair, anche lei…? Lo sai, eh, che tutti, proprio tutti…? Ma poi esci, cammini, ti siedi tra sconosciuti e li guardi bene e in molti non vedi alcun segno di tutto ciò, oddio magari a quello che ha Libero in mano glielo augureresti, ma poi pensi chissenefrega, diamine, se si continua a produrre nuove serie, tutte di successo, a ingaggiare sempre nuovi protagonisti e nuove comparse, un motivo ci sarà.

new york new york

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Non capitava da ventuno anni: Don DeLillo e Paul Auster, gli scrittori simbolo di New York, seduti insieme sul palco a ragionare di letteratura, crisi, disorientamento di una società che sembra accartocciarsi sui propri guai economici e non solo. Ci è riuscita la rivista Granta a riunirli, dentro una libreria, e subito è tornata l’intesa di sempre. L’intesa di due uomini che solo nella scrittura trovano qualche spiraglio di redenzione, per un mondo che altrimenti pare sempre più alienato, incomprensibile, e incapace di far comunicare i suoi abitanti.

Il resto su La Stampa.

nelle vesti

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Quello che gli piaceva di più era il suo stile, quel modo di vestirsi così alternativo agli stili alternativi che non potevi nemmeno avvicinarlo a una categoria. Tenete conto che i negozi di abbigliamento dell’usato erano appena stati inventati ed erano frequentati da chi davvero non aveva soldi da spendere e da chi aveva gusti molto molto particolari. Ma bisognava anche potersi permettere di indossarli, per dire una volta lui, il suo amico Frank e la sua fidanzata avevano rischiato il linciaggio per come si erano conciati, certa gente l’ironia proprio non sa nemmeno da che parte si apre, figuriamoci se sull’etichetta non c’è indicata la marca. Comunque lo stile era originalissimo. Per fare un esempio: cappello a caciotta, giacca plasticosissima con sciarpa piumata, pantaloni da uomo anni 40 e scarpa anti-infortunistica. E il tutto le stava divinamente. Adorava quel look e portarsene appresso un campione mobile lo faceva anche sentire fortunato perché molti gli dicevano che era fortunato e lui ci credeva, davvero. La tua tipa è originalissima, si complimentavano. Trovi?, rispondeva con una domanda, facendo finta di niente. Capitava che dovessero recarsi in città insieme, per esempio, e lui era contento perché laggiù poteva sfoggiare quel soggetto all’avanguardia che portava a braccetto, e che risultava innovativo anche lì. Poi un giorno lei doveva andare in città da sola per restituire i libri a quel suo amico che tutti chiamavano con il soprannome, e un motivo ci sarà chissà, ma aveva pensato di farle una sorpresa e per caso l’ha intravista in coda alla biglietteria in stazione. Era piuttosto difficile riconoscerla. La giacca alla moda, la gonna da boutique corta sopra il ginocchio, collant velati e i tacchi, non altissimi ma comunque più delle pedule gialle che le aveva visto la sera prima sotto la salopette da operaio. Sembrava un’altra, un look talmente ordinario da essere persino provocante, ma quella era una parola bandita dal comune vocabolario. Ha pensato bene che la sorpresa fosse fuori luogo, probabilmente vestita in modo così strano per i suoi standard avrebbe potuto sentirsi in imbarazzo, così l’ha lasciata lì senza farsi vedere, certo che non le avrebbe mai chiesto nulla.