o niente

Standard

Il Deboscio si porta avanti con un coccodrillo per Vasco Rossi, eccolo qui (o leggetelo ).

Vendesi coccodrillo per Vasco in stile Studio Aperto. (Contattateci se interessati, prezzo modico)

E allora dai che prendiamo il volo, cantava. Questa volta, a volare in cielo è stato lui. Il Blasco. Un mito per tutti, che ha messo d’accordo quattro generazioni, che da trent’anni ci emoziona, diverte, e che ci ha unito sotto un’unica grande bandiera: quella del rock, delle emozioni da urlare forte al cielo sotto una pioggia di stelle. Ma oggi anche le stelle piangono l’astro più luminoso del firmamento. E chissà le donne del Vasco, oggi magari sposate e con figli, cosa diranno. Forse anche un pezzo di loro è volato su nel cielo con Vasco. Cosa diranno Sally, Gabry, Susanna, Jenny, Laura? Cosa dirà Toffee? Come potrà lenire il suo dolore Giulia? Forse non potrà come non potremo noi, oggi che una parte di noi non c’è più.
La più strabordante, caotica. La nostra vita spericolata è scomparsa e da oggi torna ordinaria, grigia, vuota. Forse L’alba non sarà mai più chiara.
La sua vita spericolata, esagerata, il suo equilibrio sopra la follia, oggi non c’è più. Ciao Vasco, con te se ne va un pezzo fondamentale di storia della musica italiana. E quando il cielo sarà buio e scuro forse potremo riuscire a distinguere una stella, luminosa come mai. Noi sapremo che sei tu, Vasco, e a quella stella rivolgeremo un ultimo, accorato “eeeh…!”, e ai nostri figli, lo racconteremo noi.

mi sento fortunato

Standard

È abbastanza facile lasciarsi prendere dalla disperazione, per chi fa un mestiere come il mio. Voglio dire, hai voglia a convincere aziende e imprese che i socialcosi sono utili anche per i loro affari, che il business corre sul duepuntozero, che è importante avere una strategia per spremere anche questa faccia oscura di Internet, in cui tutto è gratis, tutto è dovuto, non si capisce bene dove e come si possa guadagnare qualcosa, e allora bisogna contargliela su condita con tutti i neologismi del caso per confondere le carte, se siete online dovete esserci sempre, e come fate a esserci mentre state a costruire il vostro prodotto, chi gli risponde ai vostri amichetti su Facebook che si infervorano a mezzanotte e gli uffici sono chiusi e in quattro e quattr’otto la vostra reputazione è così inzaccherata che sembra Pig Pen dopo un match di baseball perché tutti i blogger della blogosfera, con o senza estintore in mano, hanno linkato la notizia urbi et orbi e siete belli che fottuti e ora mettiamo un punto che è meglio. Eh, troppo facile, nessuno ci crede più, non abbiamo nemmeno gli occhi per piangere, figurati se ci avanza qualche centinaio di euro per mettere per iscritto i nostri pensierini e farli sapere a un pubblico fatto di addetti ai lavori, che troverebbero comunque le notizie, e non addetti che comunque non le troveranno mai perché gli bastano le risposte di Yahoo. L’anno fiscale nuovo quindi comincia così, con un grosso punto interrogativo che non posso scrivere perché non trovo in nessuna combinazione di tasti, con un elenco di parole chiave che non finisce più ma così vago che nemmeno guggol è in grado di restituire una manciata di risultati utili, neppure in copia cache.

paternità

Standard

secondariamente

Standard

Leggevo non ricordo dove (ecco perché questo blog non può essere considerato una testata giornalistica) che c’è uno stretto rapporto causa-effetto tra la crescente presenza di plastica nelle nostre case, e in genere in tutti gli ambienti che frequentiamo quotidianamente, e l’abbassamento dell’età in cui ragazzi e le ragazze salgono, lieti e pensosi, il limitare di gioventù (cit.). Sostanze cioè che agiscono da catalizzatore e favoriscono la maturazione fisica e conseguentemente sessuale dei più giovani, anticipando nei punti – diciamo – giusti del corpo la mutazione adolescenziale. Il problema è che, a quanto pare, il cervello invece resta lì, ancorato alla sana immaturità e alla insana mitologia puberale, fatta di cose da piccoli non più piccoli che però necessitano ancora il filtro dei genitori. Un aggiornamento circa la fonte: mia moglie mi ricorda di avermi dato lei questa informazione, dopo averlo sentito in un documentario scientifico. Tantomeno ora sono una testata giornalistica. Ma torniamo a noi.

Se inscriviamo questo processo nella splendida cornice di tutto quello da adulti che si vede in giro, per non parlare dei video e dei format di MTV, la visione dell’innocenza secondo Antonio Ricci e via dicendo, per i genitori di bambine, e guarda caso il Vostro appartiene a questa categoria, non è certo un bel momento. E io che pensavo che toccato il fondo di “Non è la rai” non ci sarebbe stato altro, che bastasse oscurare le reti Mediaset per non incorrere nel cattivo esempio delle ninfette e dei fauni in competizione, del loro bisogno di esprimersi danzando e cantando per i loro coetanei, se non per gli adulti. Questo fenomeno di imbarbarimento ormai sembra veleggiare verso lidi inesplorati e rischiosissimi, proprio ora che tocca anche a me, mannaggia, reggere il timone.

Ma l’insieme di giovanissimi su cui il mercato punta per incrementare il loro peso decisionale in famiglia, fornire in offerta speciale quel minimo di autorevolezza utile a far pesare una opinione nella scelta dei prodotti e, in genere, nei consumi familiari e individuali, è oltremodo eterogeneo. L’uditorio può quindi disorientare l’osservatore. La categoria a cui questo gruppo in condizioni normali (diciamo fino a due o tre generazioni fa) apparterrebbe, mantiene strascichi di caratteristiche ancora infantili, perché è composta dagli stessi che comunque non si vergognano ancora a giocare con i loro fratelli minori, vanno in vacanza con i genitori, non possiedono mezzi di trasporto a motore e che, basta allargare di poco i parametri, può essere estesa anche ai bambini più piccoli. È la costante catena delle miniature: bambini mini-adolescenti, ragazzi mini-adulti, con la supervisione di adulti mai vecchi.

E a proposito di teens, provate a mettere in fila quelli già di là vicino a quelli ancora di qua, alti uguali e della stessa età ma l’uno poco più che un bambino e l’altro che si rolla una canna, oppure osservate la fanciulla per cui il ballo è il movimento di un gioco collettivo e la sua coetanea per cui invece è un mezzo di seduzione individuale imposto dalla cultura imperante che sulla seduzione non stop si basa, a maggior ragione se in realtà non sta ballando ma imita solo un modello assorbito dalla TV. Ecco, metteteli in fila, chiudeteli in un’aula scolastica e provate a pensare a un programma che vada bene a tutti. Io gli insegnanti delle scuole medie non li invidio proprio per nulla. E, finché mi è possibile, nemmeno i genitori dei loro alunni.

questa zozza società

Standard

D’altronde con qualcuno bisognerà pur prendersela, se è il primo giorno di lavoro dopo le ferie e piove e il treno viaggia con diciotto minuti di ritardo circa. Questa zozza società che ho visto ampiamente rappresentata sulla tratta Olbia-Civitavecchia, clientela tutta italiana perché dal nord Europa ha più senso imbarcarsi da Genova. Ce l’hai accanto e ti riporta alla realtà, l’Italia, anzi, l’Italia 1 che è fatta di treccine afro (probabilmente impazzavano gli intrecciatori sulle spiagge sarde e si tratta di una pettinatura alla moda), di labbra a canotto, di pelle tirata artificialmente e ammennicoli vari di cui ci beeeeeiamo (cit.) di fronte ai nostri simili, una spettacolarizzazione in cui manca solo un Teo Mammuccari che ci presenta uno a uno con il suo verso da agitatore di folle che tanto ci piace e chiede un applauso per ogni tratto osceno che nota in noi. Ma anche una zozza società in cui si vive per le ferie che poi finiscono, tutto riparte tranne l’economia perché manca la manovra, anzi c’è ma ogni giorno cambia e i mercati si burlano delle nostre zozzerie. Mi unisco allora al coro degli stornellatori, perché qualsiasi cosa sembra meglio, figuriamoci poi il vinello bianco fresco fresco che ti taglia le gambe, quindi mi alzo in piedi e dedico l’ultima strofa a questa società a responsabilità limitata in cui oggi sono rientrato al lavoro, che un po’ zozza lo è ma non dico perché, magari qualcuno che mi conosce passa di qui e lo legge.

isolazionismo

Standard

Non c’è nulla come questo posto, quello da cui sto scrivendo qualche ora prima di prendere la nave per tornare a casa, che mi dia l’idea della vacanza. Nulla. E mi dispiace non poco farmi sentire dai nativi di questo posto, vittime di una delle tante diaspore di cui la storia d’Italia è piena, migrazioni nazionali, internazionali e intercontinentali che hanno portato gli abitanti di questo posto un po’ ovunque nel mondo, e adesso che quasi per un principio di Archimede una eguale massa di gente viene qui perché laggiù, ovunque laggiù sia, non ci sono più sufficienti risorse, e loro non immaginano che non ce ne sono per tutti nemmeno qui, ma qui arrivano lo stesso e noi non solo non siamo pronti ma nemmeno vorremmo esserlo.

Dicevo, mi dispiace perché magari loro, i nativi che da qui sono stati costretti ad allontanarsi, vorrebbero che questo fosse considerato non solo un posto di vacanza, un paese dei bengodi in cui da tutto il mondo si viene a spendere il budget familiare dedicato alle ferie, ma anche, che so, un luogo di lavoro, un terreno per l’imprenditorialità sana, una regione normale tra regioni che normali certo non sono.

E scusatemi ancora, autoctoni, ma questo è il posto di mare più bello del pianeta, e mi dispiace per gli altri. Anche perché qui c’è un fattore decisivo che fa la differenza. Intendo dire che mi dispiace per le altre regioni e altre aree del nostro Paese di mare votate al turismo, ma che da sempre sembrano incompiute. Voglio dire, c’è chi proprio per l’accoglienza non è portato, storce il naso per il turismo del weekend e si lamenta se gli tagliano i ponti, e poi è pronto a rifilarti a caro prezzo stanze vergognose arredate con i mobili della nonna perché comunque è il posto in riva al mare più vicino. Che poi vi sfido a trovare un metro quadro di spiaggia libera, tra stabilimenti balneari affidati a gestori con concessioni vergognose che occupano da intere dinastie tutto il litorale, o almeno quello che ne rimane tra un sito industriale desueto e arrugginito ma rimasto lì, un’autostrada che ti passa sulla testa e un campeggio con i bungalow allestiti anche sugli scogli.

Ci sono altri lidi, dove però non sei mai a tuo agio, c’è il parcheggiatore abusivo, la casa volutamente incompleta a ridosso del bagnasciuga, le informazioni turistiche che smerciano materiale vecchio di dieci anni solo perché sono state stampate troppe brochure nel 2003 e poi è successo che sono finiti i soldi, gli scontrini fiscali questi sconosciuti, il conto preparato sul mini bloc notes a quadretti della prima elementare. Posti dove vai a visitare la riserva naturale taldeitali, lasci l’auto nel parcheggio e quando torni il vetro è rotto e la valigia non c’è più. Anche l’auto a fianco, targata Olanda, ha subito lo stesso trattamento. Ecco il migliore spot per chi vorrebbe tornare a essere una perla dell’accoglienza europea. Sì, lo so, un aneddoto non fa testo. Ed evito di soffermarmi sulle riviere con il mare marrone. Organizzatissime, per carità. Ma il mare marrone proprio no.

E lasciatemi dire, qui è tutto incantevole e ti senti ovunque a tuo agio, magari non proprio ovunque, ci sono aree colonizzate da tempo dal peggio del peggio della nostra società, baie presidiate da ferri da stiro galleggianti su cui risplendono labbra rifatte e pettorali depilati. Ma si tratta di una piccola parte di questo posto, e se fai finta che quella piccola parte sintetica non esista, tutto il resto non perde di un grammo il suo valore. Mare, cultura, aria, natura, cibo, tutto. E soprattutto qui, dicevo, c’è un fattore decisivo che fa la differenza: i sardi.

p.s. facciamo finta però che l’affaire Soru non sia mai accaduto.

scuola di volo

Standard

Bruciare in un incendio o lanciarsi nel vuoto per sfuggirne. Pare che paradossalmente l’istinto di sopravvivenza ti spinga ad optare per la seconda ipotesi, perché il lancio nel vuoto contempla maggiori possibilità di salvare la pelle. E’ agghiacciante, già. In genere, almeno visto da qui, morire non sembra essere una bella esperienza. E avere la possibilità di scegliere come non ne migliora la qualità.

Vedere le foto delle persone che sono balzate giù dal chissàqualepiano di una delle torri gemelle ne è una testimonianza. Da una di queste foto un performer di strada prende ispirazione per una delle sue opere viventi. Si lancia imbragato a testa in giù da vari punti rialzati di New York. Mi verrebbe da dire living theatre, ma sarebbe più appropriato dying theatre. Lui è l’uomo che cade, ed è uno dei protagonisti di passaggio dell’omonimo romanzo di DeLillo. C’è un altro protagonista, che potremmo definire itinerante, fa di cognome Atta, ed è l’uomo che impara il terrorismo tra la Germania e l’Afghanistan e che, nel libro e probabilmente anche nella storia che lo ha ispirato, passa i controlli dell’aeroporto imbottito di fede, di odio (sovente sinonimi) e di esplosivo. Così si immagina, l’eroe immortalato dalle telecamere di sorveglianza nell’ultimo controllo violato, quello fatale.

Dalla vicenda madre di tutte le collisioni, un aeroplano pieno di corpi consapevoli del loro destino scagliato contro un grattacielo pieno di corpi ignari del proprio destino. Lì lavora Keith, che sopravvive all’impatto e va a prendere parte della catena umana di sopravvissuti e feriti che si incolonna giù dalle scale della prima torre colpita e si avvia così verso la vita che sarà. Pieno di schegge di vetro e sangue non suo inizia il suo personale post-undici settembre. Rientra a casa dalla moglie Lianne da cui era separato e dal figlio, e si lascia travolgere da un menage di reinserimento famigliare alternato a una dipendenza da poker, che presto avrà il sopravvento. Un libro pieno zeppo di significati e significanti, di macerie e di polvere, di morte e di non vita, almeno non più come prima. Tra bruciare in un incendio o lanciarsi nel vuoto per sfuggirne, l’istinto di sopravvivenza dovrebbe mettersi a tacere. Io comunque, avendo la forza di scegliere, preferirei morire carbonizzato.

vietata la riproduzione del marchio

Standard

Ormai sembra essere un dato di fatto: in quanto a diffusione di tatuaggi pro capite, il popolo italiano è secondo solo a quello Maori. Il vezzo del marchiarsi indelebilmente la pelle non conosce età, appartenenza sociale o identità culturale. Bene, direte voi, e ora che lo hai scritto? Il tatuaggio sembra essere più di ogni altra moda il brand dell’omologazione di massa. Almeno tanto quanto avere un blog, direte voi. Tribali, ideogrammi, disegni esotici e ogni sorta di illustrazione che, almeno in teoria, raccoglie parti profonde di noi e le ritrasmette secondo un linguaggio codificato, oltre la mimica, la postura e l’abbigliamento stesso. Io sono quello che vedi sulla mia spalla. Ma poi subentra la copia, e non vi è nulla di male, sia chiaro, nell’imitare il vicino, l’amico, l’idolo del momento e decidere di immolare a un simbolo qualche centimetro quadrato della propria pelle.

Ma è il trovare la spiegazione alle domande del prossimo che, in questo caso, può essere complicato. Perché se vedo un dipinto che non comprendo, e ce ne sono molti, mi viene da chiedere informazioni. Che cosa significa, che cosa rappresenta, a quale tribù appartieni, chi sono tizio e caio i cui nomi hai impresso sugli avambracci, dove conduce quella specie di freccia capovolta che attira e instrada lo sguardo verso il solco tra le natiche. Ti rappresenta davvero?

Quello che lascia perplesso è la larga presa che questo trend ha avuto presso di noi, più di ogni altro Paese, basta fare una piccola conta in una qualsiasi micro-società multietnica come quella in cui mi trovo in questo momento. Cosa ci avvicina maggiormente ai Maori, cosa abbiamo più simile alla loro cultura dei tedeschi, per esempio, o degli svizzeri, o dei belgi e dei francesi? Probabilmente è l’essere perfettamente agli antipodi sulla superficie terrestre che ha steso questo filo diretto con la Nuova Zelanda?

E i diretti interessati ti dicono che no, tatuarsi risponde a un bisogno interiore, non è assolutamente una moda, è come imprimere un ricordo da qualche parte, indelebilmente, anzi è un segno di riconoscimento, un valore che hai voluto far emergere e che avrai sempre lì, fino a quando sarai cenere. Macchiata d’inchiostro. Almeno i Rayban puoi lasciarli in eredità.

finché lo vuoi sentire

Standard

La cosa più difficile è decidere con che pezzo iniziare, perché non sei un artista famoso e non fai parte di un gruppo e non hai i tuoi fan, là fuori, che non stano più nella pelle per assistere alla tua esibizione. Sei solo un intrattenitore momentaneo, il sottofondo musicale di una serata al pub o di una traversata in traghetto, solitamente il tuo lavoro non fa la differenza. Anzi, spesso è vissuto come fastidio, come barriera architettonica al chiacchericcio alcolico, a una lettura o qualsiasi altro passatempo di un viaggio verso le vacanze. Sei un pianista e/o un cantante di pianobar, e quando ti siedi dietro al tuo strumento non è detto che al di là dello spazio in cui il gestore del locale in cui ti esibisci – che solo raramente è un palco – ha ricavato dalla sua sala o nel suo dehor ci sia abbastanza pubblico.

E in quel momento, comunque, la gente che è lì ti nota ed è per questo che la cosa più difficile è decidere con che pezzo iniziare. Il biglietto da visita, la prima impressione, conquistare o meno la fiducia del pubblico, non è facile. Perché il pubblico, appunto, non è lì per te, si fa bellamente gli affari propri. Le coppie parlano tra loro, quelle più consumate bevono e guardano le altre coppie, ecco, forse loro faranno attenzione alla tua performance. I gruppi di amici scordateli, ciascuno giocherella con il proprio smartphone tra un sorso di birra e una battuta per conquistare la leadership della serata e del tavolo. Se il locale ha un’utenza varia, hai qualche speranza con i bambini in età prescolare, che ti si piazzano davanti, i più intraprendenti vorrebbero persino dare una manata sul tuo strumento per vedere l’effetto che fa. Parlare di strumento, poi, è sempre meno realistico. Gli strumenti musicali, pesanti e ingombranti, non li porti quasi più. Al massimo una chitarra, la tastiera, ma poi è il computer che suona tutto il resto, la batteria il contrabbasso eccetera.

E c’è sempre quell’imbarazzo che non coglie nessuno, che mentre gli altri sono in festa tu sei lì a lavorare; il sabato sera, la notte di capodanno, i matrimoni, ferragosto, compleanni e ricorrenze varie. E che la tua famiglia fa lo stesso festa senza di te, il sabato sera, la notte di capodanno, i matrimoni, ferragosto, compleanni e ricorrenze varie. Che poi, uno dice che è un bel mestiere, comunque sei un operatore dello spettacolo, ti permette di guadagnare suonando, ogni tanto metti in scaletta una cosa che ti diverte e che non necessariamente il pubblico apprezza. Sì, ci sono quelli talmente fanatici che la vedono da questo punto di vista. Ci sono quelli anche talmente bisognosi che lo fanno come secondo lavoro, rientrando ad ore assurde per poi la mattina dopo andare in ufficio a risolvere le solite rotture con botte di sonno da combattere fino a sera.

Ci sono quelli fanatici che invece lo fanno come secondo lavoro perché suonare è una passione, e suonare i pezzi di Concato o di Antonacci o di Raf è comunque una passione, anche se poi quei pezzi lì ti fanno cagare. Perché la scaletta non la scegli tu. Non puoi suonare quello che ti piace. Ci sono quelli, infatti, che pensano che allora è meglio non suonare del tutto, e che qualsiasi altro lavoro che ti lascia liberi il sabato sera, la notte di capodanno, i matrimoni, ferragosto, compleanni e ricorrenze varie è meglio.

il modello americano

Standard

Qualche mese dopo l’undici settembre successe un cosa che ha dell’incredibile. Voglio dire, un fatto che ha già in sé un che di straordinario, ma che, accaduto proprio in quel momento, a ripensarci sembra una burla. O no, sembra un disegno architettato apposta per suscitare incredulità, una eco del piano messo in opera l’undici settembre a New York, un modellino in scala dell’attacco alle torri del World Trade Center come le riproduzioni della realtà che si vendono nelle edicole. Ecco, una collana dell’edizione taldeitali che ti permette di collezionare le versioni ridotte per la conservazione casalinga dedicata agli amanti del genere, i grandi eventi storici, quelli più tragici. Pompei, o il Titanic o Pearl Harbour, in dispense settimanali, plastico incluso. Insomma, spero di aver reso l’idea. E ho come l’impressione che non sia stato così deflagrante come poteva esserlo in potenza, cioè almeno io credo che non sia stata colta l’essenza vera e la casualità di quell’avvenimento, perché è tutto molto strano: la tempistica, la dinamica. Tutto.

Mi stavo recando a prendere il treno del ritorno a casa dopo una giornata in ufficio. Lavoravo in Piazza della Repubblica, a Milano, e stavo percorrendo a piedi via Pisani in direzione Stazione Centrale, quando sento il rombo di un aeroplano e poco dopo un boato. Ma non avrei mai immaginato una cosa simile a ciò che era appena successo, non avevo collegato i due rumori appena percepiti come uno la causa dell’altro, tant’è che, comunque ormai predisposto ad attribuire a ogni suono fuori dall’ordinario il carattere della tragicità e della catastrofe, ho immediatamente pensato a una bomba nelle vicinanze. A una bomba in Stazione Centrale.

Ma, guardando verso l’alto, e non ricordo come si comportassero le persone che erano in strada con me in quel momento, notai fumo, polvere, fogli in A4 volare, che comunque mi ricordarono i reportage su Ground Zero che avevano ampiamente coperto le settimane successive all’attacco. Nel mentre, accelerando il passo per avvicinarmi a quello che avevo capito essere l’epicentro, fiumi di impiegati si riversavano fuori dagli alti palazzi che costeggiano via Pisani, mettendo probabilmente in pratica il piano di evacuazione degli edifici, quello che i responsabili della sicurezza imparano ai corsi per responsabili della sicurezza sul lavoro, e che raramente viene messo in pratica. Un ruolo considerato solo di forma, sottovalutato a tal punto che nessuno ritiene che un giorno sarà mai costretto a mettere in atto gli insegnamenti per salvare i propri colleghi. Che magari non vorresti nemmeno salvare.

Giunto in Piazza Duca d’Aosta, noto che la stazione è intatta. Si percepiscono i suoni delle sirene in arrivo, vedo gente affrettarsi, correre, allontanarsi in tutte le direzioni. Guardo in alto, ed ecco il danno: vedo il grattacielo Pirelli violato, uno squarcio a forma di tragedia, la bocca di un vulcano artificiale che erutta fuoco e fumo. E quando sono venuto a sapere che cosa era accaduto veramente, un aereo turistico che, in avaria, si era volontariamente schiantato proprio lì per evitare di cadere in qualche altro punto della città, non è stato difficile mettere insieme gli elementi che dimostrano all’assurdità della cosa. Dopo le Torri Gemelle, il Pirellone.

C’è molto su cui riflettere, non so in che termini, ma c’è molto. Ricordo di aver raggiunto il mio treno, con la paura che anche la stazione potesse essere a rischio, e che a differenza di tutti gli altri in partenza dopo che i binari furono fatti evacuare per ovvie ragioni di sicurezza, il mio partì in orario, perché era già pronto prima della collisione, quasi a volersi allontanare al più presto da quel tipo avvenimenti, fuggire dalla nuova tragedia. Basta, probabilmente ha pensato il capotreno, basta, non ne possiamo più.