la paura fa novanta

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Lo avete sentito? C’è stato un terremoto, è durato un attimo, ma in quell’attimo abbiamo iniziato a suonare il jazz mettendo il campionatore sotto agli strumenti a fiato, i gruppi punk avevano strumentisti tecnicamente dotati e batteristi della madonna, che poi era quello che mancava al punk del 77, e il reggae lo si suonava senza marcare il levare, solo immaginandolo. È durato poco, poi i musicisti hanno perso l’interesse e hanno acceso il pc.

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congiuntivite

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In una sala riunioni che definire asettica è fargli un complimento, perché vabbè che hai una società che si potrebbe chiamare Mortedeisensi spa, che operi in un settore triste, che hai dipendenti ammorbanti, che ti rivolgi a clienti grigi, che occupi una sede ubicata in un non-luogo con vista su furgone carbonizzato e il bar più vicino è a 600 metri e per di più gestito da cinesi. Ma almeno l’arredo sceglilo un po’ vivo, anziché mobili che in confronto gli uffici della pubblica amministrazione negli anni ’80 erano di design, per non parlare degli scaffali nudi con riviste verticali che leggete in quattro, targhe che attestano le partnership che sfigurerebbero persino a una riffa di regali natalizi indesiderati. Ecco, in questa splendida cornice un direttore marketing logorroico sta argomentando un monologo sullo stato dell’azienda da cui è stipendiato, in un italiano anglo-markettese con tutti i topoi della sua materia di studio. Il linguaggio è forbito, l’uditorio è estasiato, la curva di attenzione è al suo apice. E proprio in quel momento il direttore marketing canna in pieno un congiuntivo. Uno di quelli che quando la prof di italiano li sentiva dai bidelli imprecava dicendo che per lavorare in una scuola almeno il minimo sindacale della lingua italiana occorreva conoscerlo. “Dasse”. Una creatura deforme che esce dalla bocca posta poco sopra della cravattona a righe diagonali e rimane lì, ferma con un effetto 3D tra il direttore marketing e gli astanti, scolpita in uno di quei font che i neofiti della videoscrittura usano compiaciuti per vedere prendere corpo le proprie parole testé digitate sulla tastiera. Un impact, per esempio, bold e colorato con l’effetto sfumatura da un colore all’altro, come i cartelli “domenica aperti” che stampati autarchicamente trionfano appiccicati con nastro adesivo trasparente sulle vetrine dei negozi, ormai nessuno si pone più il problema del soggetto, ma scrivere “il negozio è aperto” va oggettivamente contro i criteri della comunicazione superveloce della moderna era digitale. Qui invece si è materializzato un “Dasse”. Tutto il resto dell’analisi sul bilancio e sulle previsioni di espansione, peraltro fuori luogo in quella sede, con quell’uditorio, per quel tipo di lavorazione, improvvisamente si riduce a un volume infinitesimale, come dopo il boato di un’esplosione l’udito resta sordo per un tempo variabile, a seconda dell’intensità e della sensibilità del timpano. La bocca continua a muoversi malgrado il mute, il pomo d’adamo va su e giù, ma invano perché il volume è a zero. Resta solo un ologramma, un rendering lì, in alto, sul tavolo della sala riunioni. “Dasse”. Il futuro non sarà mai più come prima.

digli di smettere

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Fa sorridere rivedere interviste o talk show di qualche anno fa in tv, durante le quali l’intervistatore e l’intervistato si scambiano domande e risposte con la sigaretta accesa in mano. Ormai l’entrare in luoghi pubblici e non sentire puzza di fumo è la normalità, ma l’ostracismo verso i tabagisti dai vagoni ferroviari, club, sale d’aspetto e uffici è storia recente. E quello che sembra un comportamento normale, il risparmiarsi il cambio forzato quotidiano di abiti a causa della convivenza o la semplice vicinanza di fumatori accaniti, un tempo era tutt’altro che scontato. Sembra incredibile aver passato secoli in cui si è permesso a chi non aveva il vizio, se non a coloro per i quali era pure dannoso, di subire le esalazioni di una combustione. E non solo rientrando a notte fonda dopo un concerto, durante il quale il tabacco talvolta mescolato ad altro saturavano l’ambiente chiuso e gli aromi dell’uno e dell’altro vegetale bruciato impregnavano capelli e magliette sudate. Una semplice andata e ritorno in treno poteva essere decisiva.

Per non parlare dell’ufficio. Solo dieci anni fa condividevo l’ambiente di lavoro con gente che mi appestava con un paio di pacchetti di Marlboro al giorno a testa. Il mio dirimpettaio rollava invece di continuo, ma quella era la cosa meno fastidiosa, perché, traboccante di personalità da ogni poro e umile quanto un opinion leader del centrodestra, mi spaccava la minchia con la sua techno autoprodotta in loop a un volume fintamente moderato. Una specie di folletto con i capelli strinati e l’accento del sud, al mio fianco, riempiva invece il posacenere di mozziconi macchiati dalle abbondanti dosi di rossetto porpora con cui tentava di caratterizzare al meglio la sua bruttezza interiore (ed esteriore).

E le auto? Tentare di migliorare l’esperienza di viaggio dei passeggeri con gli arbre magique, l’invenzione del secolo (scorso) il cui olezzo – il flavour classico alla vaniglia, tanto per dirne una – ti si impregnava peggio delle nazionali senza filtro.

Sono stato fumatore, da molto sono un ex, ogni tanto scrocco un pizzico di Old Holborn quando incontro qualcuno che ha una busta e le cartine con sé, questo solo per dire che cerco di essere comprensivo con chi non si libera dal vizio. Ma oggi come allora, ho l’impressione che se c’è un filo di fumo appeso a un mozzicone pronto a librarsi verso l’alto, ecco che prende la direzione delle mie narici attirato da chissà cosa, un po’ come il senso per gli uccelli dei protagonisti del film di Hitchcock. Sarà vittimismo, o il condizionamento della cultura imperante verso chi si arroga il diritto di smog difendendosi con un “il polmone è mio e me lo gestisco io”, senza pensare che la prevenzione è la miglior cura soprattutto contro la spesa sanitaria pubblica. Ma sono sempre io a dover fare qualche passo più in là per evitare di offrire incresciosi spettacoli – conati di vomito compreso – alle 8 del mattino sul binario. Potrei però portare con me una borsa di compost e sedermi in braccio al fumatore, una volta a bordo del treno, giusto per ricambiare il favore.

mio figlio è un fratello unico

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Avere fratelli o sorelle non è una bella esperienza. Con tutte le eccezioni del caso, sia chiaro, penso ai fratelli Cervi, ma da queste parti la brotherhood con parentela di primo grado è stata un vero danno tendente al disastro con avvocati di contorno. Un’esperienza che ha fatto piazza pulita del passato, terreno bruciato intorno a un’idea di roots, sbilanciamento dei pesi e punti riferimento esterni solo su passato prossimo e il presente. Il futuro, chissà. Di certo non può migliorare le cose, sanare ferite, consentire ai dissapori di riassorbirsi quando ormai, abbondantemente tracimati, hanno inquinato ogni dove. E, per quello che ricordo, non ho beneficiato di una guida fraterna nemmeno da ragazzo: al massimo ho avuto una debole indicazione su qualche gruppo musicale di riferimento, spazzato via al primo virgulto di ribellione adolescenziale, favorito da gente del calibro di Joe Strummer, e nient’altro. Cresciuto con la status honoris causa di figlio unico a tutti gli effetti, ora mi rammarico del fatto che non sia la mia condizione naturale. Perché subire un torto intra moenia è disorientante, ordire una trama più o meno criminale facendo forza sulla fiducia fraterna è diabolico.

Né io né mia moglie abbiamo impostato in partenza la dimensione che la nostra famiglia avrebbe dovuto avere. E crescendo, la nostra primo e “unicogenita” ha più volte manifestato il desiderio di una sorellina, pensando a quanto potesse essere più completa la struttura di noi, avere una complice più o meno coetanea in un letto a castello, una compagna di viaggio con cui cantare le filastrocche in coda al casello al rientro dalle gitarelle domenicali. Un’alleata nei contrasti contro i gruppi di fratelli o cugini nei giochi all’aperto, nei campeggi, al parco dopo la scuola. Ci siamo fermati a uno non per nostra scelta, ma abbiamo preferito non accanirci. E, col senno amarissimo del poi, va bene così. Meglio un amico, pochi amici, tanti amici. Mia nonna e suo fratello hanno trascorso 50 anni della loro vita, fino alla morte, senza rivolgersi la parola per una striscia di terra. Ecco una maledizione contadina che si perpetua nelle generazioni. Ma così, con una figlia unica, si estinguerà con me.

o la spacca

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Buona fortuna, che la fortuna non esiste e probabilmente nemmeno la statistica. Anzi, ci sono buone probabilità che io abbia ragione. Ma una cosa può andare bene e può andare male, ci puoi riuscire o no. Se non funziona hai perso, giusto? L’augurio sono solo parole al vento. Meglio non afferrarle nemmeno, per non avere l’impressione che ci sia una speranza. E tra le scelte di vita o di morte, talvolta non ci sono vie di mezzo, talaltra le vie di mezzo sono peggio. Se ci sono due opzioni, prevale sempre quella negativa, giusto? La porta al casello si blocca spesso quando è appena arrivata un’auto dietro e non si può fare retromarcia, cambiare fila ormai è fuori discussione. Se invece ce ne sono tante, di opzioni, puoi arrivare primo in concorso o in una gara, ma, diciamocelo, generalmente non accade. I posti dietro sono infiniti. Il vincitore su tanti è invece solo uno, e non sei tu. Tantomeno  io, sia chiaro. Al colloquio, ammesso che prendano in considerazione il tuo curriculum, decidono per un altro, più giovane, con meno esperienza e meno costoso. Scrivere buona fortuna, quando cioè l’augurio rimane e non puoi fare a meno di non leggerlo e quindi pensare che ci possa essere una speranza, demanda tutto alla tua responsabilità, ma la responsabilità, in un ambito di statistica in cui le probabilità – lo dice la parola stessa – sono tali e si scontrano con numerosi ipotesi alternative, dal meteorite che spazza via tutto e tutti alla chiave che si rompe nella serratura e che ti blocca in casa, non può essere tua completamente. Ma questi, pardon, sono imprevisti, e nel Monopoli li riconosci perché hanno un colore diverso.

e uno

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Così, giusto per festeggiare il primo anno di vita di “alcuni aneddoti dal mio futuro”, mi dedico un pezzo (che è del 90, mannaggia, non rientra nelle celebrazioni del ventennio, ma che importa) e mi bevo una birra. Grazie a tutti quelli che mi hanno letto finora. Continuate a farlo eh, e chiamate gli amici.

venti di cambiamento

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Le celebrazioni si fanno per decenni, ne avevo già scritto qui, ma si fa così indipendentemente dal fatto che io ne abbia scritto , sia chiaro. E in rete sono iniziate le celebrazioni dei vent’anni del grunge. Il 1991 infatti è stato, oggettivamente, l’anno della rottura, da allora in poi, mi riferisco alla musica, nulla sarebbe stato più come prima. Intanto per l’uscita di Nevermind, l’album che ha portato i Nirvana ad un successo senza precedenti. Ma ci sono altri tre dischi fondamentali per quel genere musicale che ha influenzato, in misura minore rispetto a quanto accadde per il punk alla fine dei 70, gli anni successivi. Naturalmente, come per tutti i fenomeni così esplosivi, il corso è stato standard: boom immediato, massima esposizione mediatica, tre o quattro anni di rendita, diciamo fino al 1995, poi giro di boa e riflusso, musica agli antipodi, quindi, a vent’anni di distanza, nascita degli emuli. Ne parlerò più avanti, anche se è un thread trito e ritrito, ma questo è stato il processo che hanno attraversato analogamente, per esempio, il punk, il post punk, la new wave, ma anche il beat e il rock psichedelico, persino il progressive. Materiale da tesi di laurea, chissà.

Ma torniamo ai tre album che dovrebbero, a mio parere, accompagnare Nervermind in una equa celebrazione di quel 1991. Anzi, a dirla tutta, Nevermind è stato si deflagrante, ma oggi è innegabile che le reminiscenze che abbiamo e l’approccio critico siano obnubilati dalle vicissitudini di Cobain, dal mito che la sua tragica fine ha prodotto. Senza nulla togliere ai meriti di quel disco, non dimentichiamo che “Smells like a teen spirit” è uno dei pezzi più belli di tutti i tempi. E, per rimanere nel mainstream degli interventi che spopolano in rete per l’anniversario, ecco un inciso sull’immancabile “dove ero io nel 1991”. Beh, grazie per la domanda. Nel 1991 ero già grandicello, avevo finito il servizio militare e stavo per laurearmi. E per seguire l’ennesima moda underground, con l’unico obiettivo di suscitare il maggior interesse possibile nel sesso femminile, mi ero fatto crescere i capelli lunghi lunghi e vestivo trasandato (ma guarda un po’) proprio come i grungi. Allo stesso modo in cui dieci anni prima vestivo di nero e avevo la cresta, cinque anni prima avevo la zazzera come Morrissey e così via. Ecco come disperdere la propria personalità. C’è un detto che sintetizza questo atteggiamento, ma è tropo volgare perché riguarda la capacità di traino di un particolare vello femminile. Per chiudere qui la parentesi personale scaccia-lettori, i due ricordi più vivi che ho di Smells like eccetera sono una bottiglia di Jack Daniels in due prima di un concerto dei Diaframma con Davide nella sua Opel Corsa con quel pezzo a palla, e un buttafuori di un club di Torino che mi ha, appunto, buttato fuori perché avevo iniziato a saltare pregno del pathos esaltante dal riff di chitarra di Cobain. Fine. Ah, di Nevermind avevo acquistato il vinile, in omaggio c’era una maglietta che ho regalato a una tipa, sempre per il detto di cui sopra.

Ma non dimentichiamo che nel 1991 ha visto la luce anche Ten dei Pearl Jam, innanzitutto. E, in quanto a spessore, i Pearl Jam sono ben altra cosa. La versione meno fashion del grunge. Leggo da Il Post che ci saranno celebrazioni ufficiali dell’iniziativa, comprendenti “un film documentario intitolato Twenty e diretto da Cameron Crowe, regista con assidue frequentazioni nel mondo del rock“. Bene. Eddie Vedder che suona l’ukulele ha comunque un suo perché, non trovate?

Terza pietra miliare dell’epoca è Badmotorfinger dei Soundgarden, la versione un po’ tamarra del grunge. Ma Jesus Christ pose è senza dubbio un capolavoro dalle venature dark, divertente da ascoltare, ballare e suonare. Per vedere i Soundgarden in quella tournée, pensate un po’, ho dovuto per contrappasso sorbirmi un concerto dei Guns’n’Roses, allo stadio Delle Alpi di Torino, gruppo di cui la band di Chris Cornell fece da supporto. Tsk. C’erano anche però i Faith No More. Ma questo accadeva l’anno successivo, sempre per il solito modo di dire scurrile di cui sopra.

Chiude la tetralogia (wow, mai avrei pensato di utilizzare questa parola in un post) la summa di tutto quanto, ovvero i Temple of the Dog. I Temple of the Dog, vi ricorderete, erano un supergruppo di Seattle, comprendente membri di proprio di Soundgarden e Pearl Jam, che si era formato come una sorta di tributo per la morte del cantante di un altro gruppo grunge, i Mother Love Bone, Andrew Wood. Il supergruppo durò giusto il tempo della pubblicazione di un album omonimo, uscito nel 1991, con alcuni pezzi davvero ben riusciti, come la struggente Hunger Strike.

Per chiudere, sono convinto che siamo arrivati al grunge passando anche per i Jane’s Addiction. Almeno per me il percorso è stato quello. Il grunge poi un bel giorno è finito, fagocitato da MTV e dai suoi programmi unplugged, dai filmetti come Singles, superato poi dal ritorno (per mia fortuna) dell’elettronica nel rock. Nel frattempo sono uscite altre band, gli Alice in Chains, gli Stone Temple Pilots e gli Screaming Trees, che avremo tutto il tempo per celebrare. Fino a questo anniversario, un po’ più dirompente.

monsters & co

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Mia figlia si indispettisce spesso quando in casa, tra amici, o al telefono, sente mamma e papà discutere di politica. Quando cerchiamo di seguire un telegiornale, giusto per non dipendere da Internet come unica fonte d’informazione, ma lì la capisco, a quell’ora le piacerebbe rilassarsi sul divano e guardare un cartone dal media player. Quando viene il Beppe, e si discute sul partito, sulla sua riorganizzazione, sulle iniziative per portare la politica al territorio, per farla percepire come uno strumento di governo dal basso e una sorta di pannello di controllo per decifrare quello che succede. O quando siamo su un sentiero di montagna, squilla il telefono ed è l’amica che ci aggiorna sull’ultima schifezza del governo in auge, sul tale o talaltro processo del premier, e via dicendo.

In effetti, mia figlia ha i suoi buoni motivi, per indispettirsi. E siccome è mia moglie quella più dentro alle questioni, io prendo da parte la piccolina e cerco di farle capire che sì, che i grandi parlano di cose che possono sembrare noiose, ma che è come se in classe doveste prendere una decisione importante ed è necessario discuterne, sentire il parere di tutti, convincere tutti a partecipare perché è così che funziona la società, anche una micro-società come quella di una seconda (a breve terza) elementare. Che, insomma, quello che succede intorno a noi, e intorno ai grandi, dovrebbe anche interessare i bambini, perché tutte le decisioni che passano attraverso il confronto politico riguardano anche loro.

Ma lei si imbroncia di più, e mi dice che no, non è vero che riguardano anche i bambini, e che in classe, tra compagni, ci sono argomenti ben più interessanti su cui discutere. Le chiedo di fare un esempio. Lei mi guarda con quella espressione che fa quando sa che sta per dire una cosa che mi contrarierà, un misto tra timore, il fascino della sfida sferrata ai genitori e il dispiacere di dare al nostro dialogo una venatura di contrasto. Quindi mi dice un nome, il nome è Yara.

A casa stiamo il più possibile attenti a lasciare nostra figlia esposta agli input esterni da sola, sia di attualità che di puro entertainment, senza il nostro filtro almeno finché ci sarà riconosciuta l’autorevolezza di fonte e di opinionisti, a costo di subire, come succedeva anni fa, interminabili gag dei Teletubbies, o di testare i film anche più assurdi per bambini con l’obiettivo di evitare le distorsioni della realtà che l’informazione mediata dalla tv è in grado di dare. Per farvi un esempio, l’unica volta che non ho controllato un cartone animato trovato in rete, scelto da mia figlia per una visione collettiva con nonni e zii, si è rivelato essere un film porno, non vi dico l’imbarazzo tra gli adulti seduti sul divano, una domenica pomeriggio, di fronte alla prima scena che stava per svolgersi in giardino.

Stesso discorso per la cronaca nera, che abbonda nella scaletta dei telegiornali. Non abbiamo trattato insieme di fatti inquietanti come l’omicidio di Yara Gambirasio, anche perché, per un genitore di una figlia femmina, confesso essere argomento molto difficile. Ma ammetto l’errore, perché considerando tutta la storiografia che ne è derivata, inerente immigrazione e xenofobia, pedofilia, comportamenti devianti di un branco eccetera eccetera, è facile immaginare come i dettagli possano arrivare a una bambina di 7 anni di rimbalzo a scuola. E la sintesi fatta dai bambini di quella età, mettendo insieme le voci del tg, le interviste voyeuristiche di programmi squallidi seguiti in case in cui la tv si accende oramai per riflesso incondizionato non appena si torna dal lavoro, forse per colmare i silenzi e la mancanza di dialogo, la sintesi contiene il peggio del peggio in diverse varianti. Il marocchino che l’ha rapita per rubarle lo stereo che stava riportando in palestra, l’istruttore di ginnastica adulto che spia le ragazzine durante le gare, il muratore rumeno che la voleva portare in discoteca. E ogni bambino partecipa attivamente al confronto, probabilmente, mettendo del suo, e il suo è quello che ha assimilato la sera prima, durante l’ora di cena. L’argomento deve aver colpito molto l’immaginario infantile, visto che le sessioni di discussione si sono protratte per tutto l’anno scolastico, a quanto pare.

E a quel punto il danno è fatto; perché rimettere insieme le tessere di un puzzle, già di per sé difficile, magari scremando la narrazione dai dettagli più piccanti che possono stimolare la fantasia di un bambino, è una partita persa in partenza. Sono certo, e mi serva come lezione per il futuro, che insieme alle storie che più l’appassionano, sto pensando a Ulisse nell’antro di Polifemo, o Clorofilla di Bianca Pitzorno e alcune amene avventure di animali antropomorfi visti sul grande schermo, tra le reminiscenze dell’infanzia di mia figlia e dei suoi amichetti, una volta cresciuti, troverà posto anche la storia epica di una ragazzina presa e uccisa da chissà quali esseri cattivi. Gli alieni, chissà.

le mura di malapaga

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In tema di vacanze, ecco un viaggio spazio-temporale alla portata di tutti, poco più di un’ora da trascorrere virtualmente non solo altrove, ma in un altro quando. Il film “Le mura di Malapaga” è un gioiellino francese di cinema neorealista tra il noir e il sentimentale d’antan, diretto da René Clément, vincitore addirittura dell’Oscar come miglior film straniero, interpretato dalla star dell’epoca Jean Gabin. Ma la vera protagonista del film è la città che fa da scenario alla trama, una Genova da poco uscita dalla guerra, bombardata, ancora tutta da ricostruire. Una nutrita serie di cartoline in bianco e nero, una delle poche e rare testimonianze visive di una città che – almeno parzialmente – non c’è più. Il porto, con le mura da cui è tratto il titolo parte dell’antica cinta che da porta Siberia si estendeva fino a Piazza Cavour. Le vie strette e buie del centro storico, sì, i caruggi, ancora fitti di botteghe, teatro di vita per comparse vere, i genovesi sopravvissuti alla guerra. Facce da neorealismo e lineamenti di gente che ha sofferto e che, in Italia, non si sarebbero mai più riviste. Gli interni delle case traboccanti di sfollati, tra cui una giovane Ave Ninchi, bambini chiassosi e pronti a riappropriarsi degli spazi che la storia aveva negato ai loro genitori. A contrasto, qualche vista sui palazzi borghesi di Castelletto, quelli a metà delle vie in salita con il doppio ingresso, dal portone e dal tetto tramite passerella dalla strada sovrastante. Un bel film, e un bel carico di tensione da spendersi in estate, quando il bianco e nero ridimensiona l’orgia di colori della bella stagione, la calma piatta dell’interno con tv accesa e contorno di ansia da ignoto attutisce il chiasso del divertimento forzato là fuori, la bulimia di contatto virtuale e la psicosi dell’always on diventano risibili capricci, paragonati al bisogno quotidiano e imprevedibile di una società, quella del dopoguerra, ancora in fase di ridefinizione.