scarabocchio

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Ho conosciuto Valeria al raduno nazionale dei fan di Garbo. Eravamo quattro gatti ma gli organizzatori ci hanno diviso lo stesso a seconda della canzone che ci rappresentava di più, requisito che in molti avevano frainteso con una banale dichiarazione del proprio brano preferito. In realtà si trattava di un’attività da team building aziendale, forse poco adeguata al contesto ma che comunque mi sembrava coinvolgente. Io e lei eravamo gli unici nel gruppo di “Cose veloci”, la canzone che Garbo ha presentato al Festival di Sanremo dell’85. Ci siamo presentati e, dopo i convenevoli, la conversazione si è immediatamente incentrata sull’esibizione in playback del giovedì alla manifestazione canora. Garbo sembrava Lloyd Cole, con quel dolcevita marrone chiaro e l’avveniristico ciuffo laterale. Niente a che vedere con il look dell’esibizione dei giorni successivi. Ci siamo ricordati però del paradosso del brano che, malgrado il titolo, aveva un andamento downbeat. Nonostante ciò c’era qualche dj che lo passava, considerato che il bpm rallentato non costituiva un’eccezione nelle selezioni per intrattenere la gente in pista, una sorta di warm-up propedeutico alle proposte più consone per una programmazione orientata al ballo. Valeria mi ha mostrato la copia del 45 giri autografata che aveva portato con sé al raduno e che custodiva in una di quelle buste in plastica trasparente in cui si conservano i dischi da collezione. Io le ho confessato di non esserne munito ma di avere l’mp3 da qualche parte. Mi è sembrata delusa dalla mia inadeguatezza. Mi ha detto che nessuna celebrità metterebbe mai la firma su un file. Stavo per raccontarle della cartolina promozionale di “Sorrisi e Canzoni TV” con dedica di cui mi aveva fatto omaggio di persona prima di un concerto ma nel frattempo, nella sala, ha preso il via il provvidenziale ascolto dei più famosi successi del cantautore, e la cosa è finita lì.

una terza sopra

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Subito dopo la discografia dei Beatles e, lo scrivo per sentito dire perché non ci ho mai provato, molta roba di Simon & Garfunkel che è stata pensata per dare il meglio a due voci, “Rio” dei Duran Duran è il disco più divertente da ascoltare in macchina se, come me, non resistete all’impulso di armonizzare le melodie delle canzoni anche se non ve lo potete permettere. Era l’83 ed era bello maneggiare quel vinile con quella copertina così particolare da sembrare più una pagina pubblicitaria su una rivista patinata, estrarre il disco, mettere il lato A e divertirsi spostando una terza sopra – in falsetto, considerando il tono già acuto di Simon Le Bon – il ritornello della prima canzone, la title-track di quell’album. Non solo. Anche “Hungry like the wolf” e l’inossidabile “Save a prayer” si prestavano particolarmente a quello scempio privato che, però, a porte chiuse dava molte soddisfazioni. Il fatto è che nessuno avrebbe mai detto, quando attendevamo che passassero i video di quelle canzoni alla tele per divertirci con le nostre seconde voci, che avremmo trascorso il sessantaduesimo compleanno di Simon Le Bon nel mezzo di una pandemia globale.

ora vi insegno come si fa a essere un vero estimatore dei Cure

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Ieri pomeriggio mi ha telefonato Robert Smith, il cantante dei Cure, per esprimermi personalmente un ringraziamento per la mia fedeltà. L’avrebbe fatto prima se non avessi cambiato il numero di telefono. Qualche anno fa – facevo ancora il copywriter – ho avuto una SIM aziendale e da allora ho dismesso il mio vecchio recapito personale perché, alla fine, tutti mi chiamavano sul nuovo numero. Probabilmente a Robert Smith gli era sfuggito questo passaggio e ho apprezzato molto il fatto che abbia chiamato mia mamma – ai tempi del mio primo colpo di fulmine con “The Top” avevo diciassette anni e vivevo ancora con i miei genitori, e Robert conservava ancora il mio vecchio numero di casa – per chiedere informazioni. Ma la cosa sensazionale è che poche ore dopo, chiacchierando con Roberta durante lo stretching in palestra, ho scoperto che i Cure piacciono ad entrambi. Certo, non come a me, ma comunque li segue da tempo. Il fatto è che non li ascolta più molto perché a suo marito non piacciono. Io potrei chiedere il divorzio se mia moglie pretendesse una cosa simile, e già una volta mi sono arrabbiato tantissimo perché ha messo “The Head on the Door” partendo dal lato B. Il problema però è un altro, e lasciate perdere che Roberta si chiama come me e come Robert Smith. Lei ascolta i Cure ma apprezza anche cose che con i Cure c’entrano poco, come i Muse e i Placebo. Io non credo che si possa essere un estimatore dei Cure e ascoltare cose così, come non credo che si possa essere un estimatore dei Cure e ascoltare altro che non sia Siouxsie and the Banshees.

Roberta ha visto i Cure la prima volta da ragazzina nel duemila e mi sono trattenuto dal raccontarle del Teatro Tenda nell’85. Abbiamo parlato della sua storia d’amore descritta in “Lovesong” e che dura da tempo immemorabile e tutto è filato liscio fino a quando ha sostenuto una tesi totalmente infondata sul fatto che Robert Smith abbia composto segretamente diverse hit commerciali, persino brani da discoteca, e Roberta ha usato proprio queste parole. Mi spiace che la conversazione si sia tenuta dopo la chiacchierata con Robert Smith, altrimenti ne avrei approfittato per sottoporgli la questione e capire la veridicità di quanto sostenuto dalla mia compagna di allenamento. Forse era stanca, dopo la fatica dell’attività sportiva, le si è annebbiato il cervello e ha scambiato Robert Smith per qualcun altro. A me non succederebbe mai di confondere così un riferimento fondamentale della mia vita come i Cure. Pochi giorni fa, in macchina, è partita “Glittering Prize” dei Simple Minds e per un attimo ho avuto difficoltà a ricondurla a “Sparkle in the rain” piuttosto che a “New Gold Dream”. Per fortuna con Jim Kerr non ho tutta questa confidenza, quindi sono certo che non verrà mai a scoprirlo.

è il 2018 è c’è ancora gente che acquista gli ellepì dei Cure

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È il 2018 è c’è ancora gente che acquista gli ellepì dei Cure. Io, per esempio. Avrete letto infatti che ci sono due belle novità per gli estimatori più anziani della band di Robert Smith. Intanto è stato ristampato su vinile quel “Mixed Up” che a me piace tanto e di cui avevo parlato qui. Era ora, considerato che l’edizione originale era ormai diventata una rarità e l’acquisto di una copia usata un’impresa proibitiva. Io – non chiedetemi perché – l’avevo preso ai tempi su cassetta e, al milionesimo ascolto, il nastro si era distrutto. La seconda notizia è che i Cure hanno finalmente dato seguito a questo progetto di brani remixati con “Torn Down: Mixed Up Extras 2018”, un ellepì doppio nuovo di zecca che comprende altre 16 canzoni remiscelate:

01. Three Imaginary Boys – Help Me Mix by Robert Smith
02. M – Attack Mix by Robert Smith
03. The Drowning Man – Bright Birds Mix by Robert Smith
04. A Strange Day – Drowning Waves Mix by Robert Smith
05. Just One Kiss – Remember Mix by Robert Smith
06. Shake Dog Shake – New Blood Mix by Robert Smith
07. A Night Like This – Hello Goodbye Mix by Robert Smith
08. Like Cockatoos – Lonely In The Rain Mix by Robert Smith
09. Plainsong – Edge Of The World Mix by Robert Smith
10. Never Enough – Time To Kill Mix by Robert Smith
11. From The Edge Of The Deep Green Sea – Love In Vain Mix by Robert Smith
12. Want – Time Mix by Robert Smith
13. The Last Day of Summer – 31st August Mix by Robert Smith
14. Cut Here – If Only Mix by Robert Smith
15. Lost – Found Mix by Robert Smith
16. It’s Over – Whisper Mix by Robert Smith

Se volete c’è anche poi una versione su CD con un bel po’ di gustosissimi remix d’epoca:

01. Let’s Go To Bed – Extended Mix 1982 – 2018 remaster
02. Just One Kiss – Extended Mix 1982 – 2018 remaster
03. Close To Me – Extended Remix 1985 – 2018 remaster
04. Boys Don’t Cry – New Voice Club Mix 1986 – 2018 remaster
05. Why Can’t I Be You? – Extended Mix 1987 – 2018 remaster
06. A Japanese Dream – 12″ Remix 1987 – 2018 remaster
07. Pictures of You – Extended Version 1990 – 2018 remaster
08. Let’s Go To Bed – Milk Mix 1990 – 2018 remaster
09. Just Like Heaven – Dizzy Mix 1990 – 2018 remaster
10. Primary – Red Mix 1990 – 2018 remaster
11. The Lovecats – TC & Benny Mix 1990 – 2018 remaster

tandem

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Tandem andava in onda nel primissimo pomeriggio, appena rientrati da scuola, e lo seguivo perché c’erano le sfide tra i ragazzi delle superiori delle grandi città e per chi, come me, frequentava la prima liceo in provincia, il programma costituiva una sorta di ciclo di lezioni private per imparare qualcosa di più su come essere giovani e stare al mondo, il mondo degli adolescenti, ovviamente. Ho collegato solo molti anni dopo quel Fabrizio Frizzi conduttore in erba a quello che poi è diventato Fabrizio Frizzi volto noto dello spettacolo. Non è facile capire cosa potesse significare la tv per dei ragazzi nel 1982, senza Internet, smartphone, pc e persino console per videogiochi domestici. Tandem mi piaceva soprattutto perché talvolta la gara tra gli istituti comprendeva anche una competizione tra le band delle due scuole in gara. Una volta la prova aveva visto un trio fusion strumentale gareggiare contro un gruppo post-punk di studenti, molto ben strutturato, dal piglio decisissimo e dall’esplicito nome “Taedium Vitae” che trasmetteva tutte le contraddizioni tra l’impegno negli studi classici e l’intellettualismo di cui le sottoculture off comunque erano pregne. Malgrado dietro ai “Taedium Vitae” ci fosse un vero e proprio progetto, per non parlare della modernità della musica proposta, il pubblico aveva premiato ingiustamente il terzetto fusion (chitarra, basso e batteria) tutto preso dai loro inutili tecnicismi, frutto di un approccio puramente meccanico all’arte. Per me e per tutti i fan della new wave della prima ora non vi fu alcun dubbio, invece, su quali dovessero essere i veri vincitori.

se per caso avevo ancora quella foto in cui tu sorridevi e non guardavi

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Ho restituito a Raffaella l’istante che le ho sottratto facendole una foto di nascosto durante la gita scolastica, a trentacinque anni di distanza. Ho osservato la bellezza di quella posa un’ultima volta prima di chiudere la busta della lettera, il suo K-Way di colore “azzurro K-Way” e il fiore di campo in mano, e ho pensato a tutte le foto che non ho mai stampato da quando esistono le fotocamere digitali. Il rapporto che abbiamo con i ritratti di persona è completamente diverso. Ne vediamo a centinaia al giorno e non ce ne accorgiamo neppure, mentre su un’unica foto di Raffaella – ben nascosta in un diario – ci ho passato ore e ore struggendomi di passione.

Possono piacervi o meno le romanticherie, ma che le foto ai tempi dei rullini e delle istantanee avessero ben altro significato è fuori discussione ed è provato dalle numerose canzoni pop in cui i ritratti della persona amata o desiderata sono veri e propri oggetti di culto. Oggi a chi verrebbe in mente di scrivere un brano dedicato a un selfie? Un tempo le cose non andavano proprio così.

“Remembering you
Standing quiet in the rain
As I ran to your heart to be near
And we kissed as the sky fell in
Holding you close
How I always held close in your fear”

Picture of you – The Cure

 

“Can’t lose this mood gentle
With summer at our ears
Flood the world deep in sunlight
Break into the peaceful wild”

The first picture of you – Lotus Eaters

 

“It’s not the make-up
And it’s not the way that you dance
It’s not the evening sky
It’s more the way your eyes
Are laughing as they glance
Across the great divide”

Wishing (If I Had a Photograph of You) – A Flock Of Seagulls

 

“What use is a souvenir
Of something we once had
When all it ever does is
Make me feel bad?”

A Photograph of you – Depeche Mode

Demo grafia

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Ho fatto piazza pulita una decina di anni fa per liberare spazio e perché, oggettivamente, della rivoluzione digitale in fase di compimento quella era davvero la componente più anacronistica e superflua. Prima ho messo in cantina la doppia piastra, che faceva dell’impianto una torretta difficilmente collocabile in casa, tutta colpa dell’altezza fuori dei parametri del mobilio standard. Sarebbe stato complicato poi tenere tutte quelle Maxell e TDK da sessanta o novanta minuti in giro con le custodie che si fracassano così facilmente. Per giustificare la presenza di così tanto vinile, poi, era fondamentale scendere a qualche compromesso. Se già alzarsi per girare la facciata di un disco ogni venti minuti ai tempi di Spotify non esiste, figuriamoci attendere l’avanzamento veloce o il riavvolgimento di un nastro per trovare a tentoni il pezzo da ascoltare. Ricordo ancora quel gesto drastico: un scatolone di cartone rovesciato nel container dei rifiuti ingombranti alla piattaforma ecologica e tutte le cassette che cadono. E chi si è visto si è visto.

Il problema erano però certe cassette particolari, quelle categorizzabili nel sottoinsieme delle demo. Nelle demo c’erano le canzoni che si registravano con la band che poi, prima dellInternet, si spedivano a locali, redazioni di giornali, concorsi, case discografiche. Le demo si registravano pagando di tasca propria gli studi di registrazione che, in cambio, ti restituivano i tuoi sogni mixati di tutto punto su nastri dozzinali ma che poi, ascoltati sull’autoradio o con il walkman tornando a casa dopo un pomeriggio di mastering, mandavano al top gli ormoni delle velleità da rockstar. Ascoltare quelle demo su cassetta, ai tempi dell’hard disk recording e dei virtual synth, fa sorridere: composizioni approssimative, suonate male e incise peggio, con quei ronzii che solo gli ampli e i sintetizzatori analogici di un tempo sapevano emettere. Il problema, però, è che oggi per molti noi ascoltarle è comunque impossibile perché sono in tanti quelli che, come me, hanno buttato via tutto, presi da un delirio di iper-sopravvalutazione delle proprie capacità di mettere a tacere la nostalgia.

Così di quelle cassette con i nastri quasi consumati è difficile che ne resti traccia. I più lungimiranti hanno già digitalizzato le registrazioni da tempo e pubblicato i loro successi – incompresi allora e oggi – su youtube. I più stolti, come me, si canticchiano le canzoni composte a quattordici, diciotto, vent’anni cercando di ricordarne le strofe, gli arrangiamenti, i suoni, il bpm, la tonalità, l’ultima nota dell’esecuzione a ridosso della certezza di non aver sbagliato nulla, la sorpresa del primo ascolto. Tutto svanito. A meno che qualche amica non spunti fuori trent’anni dopo con una copia di una di quelle cassette di cui, per motivi che potete immaginare, le si aveva fatto omaggio. Non riesco a immaginare il momento in cui schiaccerò il tasto play non appena ne verrò in possesso e l’incantesimo che si manifesterà.

BIG (scritto tutto maiuscolo che fa più effetto)

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Avete presente quei film in cui per un incantesimo un adulto diventa un bambino e viceversa? Per un periodo di tempo padre e figlio o madre e figlia o zio e nipote o prof e alunno, ora non ricordo bene la trama, si scambiano i corpi e la vita stessa e così vivono reciprocamente i pro e i contro dell’uno e dell’altro ruolo. Non oso pensare a cosa peggiore e per fortuna che, se a qualcuno di noi succedesse davvero, faremmo di tutto per svegliarci dal brutto sogno.

Ho pensato a questa specie di stregoneria qualche giorno fa mentre viaggiavo sulla metro per tornare a casa dall’ufficio, tutto fiero della mia copia in vinile della ristampa di “Our love to admire” degli Interpol pubblicata per il decennale dell’album, fresca di acquisto e pronta per essere messa sul piatto. Ai tempi, da ignorante qual ero, avevo preso la versione su cd e, da allora, ho vissuto nel rimpianto dell’occasione perduta fino a quando una brillante strategia commerciale del terzetto newyorkese ci ha messo una pezza e io, target perfetto per questo tipo di stregonerie, mica quelle a cui facevo accenno su, ci sono cascato come un pollo.

Comunque è successo che una ragazzina delle superiori con una felpa rossa di Abercrombie si è seduta accanto a me, ha inforcato gli auricolari e ha messo “Unknown Pleasures” sul suo iPhone, l’ho visto perché mi piace sbirciare di nascosto quello che ascolta la gente e poi l’intro di batteria di “Disorder” è talmente noto ed elementare nella sua esecuzione che lo riconoscerei anche mimato. Ora non voglio riaccendere la vecchia solfa della musica derivativa e di Paul Banks che imita il timbro di Ian Curtis, visto che ormai la questione si è risolta almeno dal 2007. Ma in quel frangente c’è stato un ribaltamento dei piani, una specie di sottosopra tanto per parafrasare una nota serie TV di moda, in cui chi sta da una parte ha lasciato il posto a chi sta dall’altra. Un cinquantenne con canzoncine da ragazzini, una ragazzina con nelle orecchie la storia della musica moderna. La magia si è protratta per almeno cinque fermate, poi ho iniziato a preoccuparmi per i compiti che avrei dovuto fare per il giorno dopo.

“50 anni e New Wave”, i protagonisti dell’episodio in onda questa sera

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Gianpaolo viaggia quasi per i sessanta e ha uno di quei mali che non si riescono nemmeno a pronunciare tanto fanno paura, figuriamoci a debellarli. È lui al centro del nuovo episodio che sarà trasmesso oggi del fortunato docu-reality “50 anni e New Wave”, che come avevamo già detto ai tempi è il sensazionale programma del momento che fa un po’ il verso a “16 anni e incinta” ma è dedicato a un gruppo di ex-giovani cresciuti ascoltando The Cure e Talking Heads che ora, alle soglie della terza età, proprio non se la sentono di mettere le Creeper in soffitta e appendere il chiodo al chiodo. Gianpaolo, nemmeno fossimo in un film di Isabel Coixet e non alla tv italiana, viene messo a conoscenza di avere al massimo un anno di vita e, ancora sotto la copertura wireless dell’ospedale, manda subito un Whatsapp a Salvatore. “devo parlarti, posso venire da te subito?”.

Gianpaolo e Salvatore erano rispettivamente chitarra solista e basso rigorosamente suonato col plettro di una band new wave attiva tra l’82 e l’87, prima che – vuoi l’università, vuoi il militare, vuoi il lavoro – ognuno andasse per la sua strada. Ma Gianpaolo ha avuto sempre quel gruppo nel cuore perché è stato lì che ha vissuto gli anni formativi della sua vita. Ha militato successivamente in decine di complessi di tutti i generi, ma con nessuno ha provato quello che ha provato con Salvatore e gli altri, con nessuno è riuscito a esprimere il vero suono new wave italiano alla stessa maniera.

Per farla breve, Gianpaolo convince Salvatore a rintracciare gli altri, compreso Mauro il batterista che da quando fa il geometra in Comune ha perso tutto il suo estro new wave, per rivivere anche solo per una sera, sul palco di un piccolo teatro di quella città di provincia, le sensazioni provate allora, tutto vestito di nero con la sua Telecaster graffiante.

Da lì parte tutta la macchina organizzativa. La moglie di Fede, l’addetto ai synth, è una PR oltreché una firma del quotidiano locale. È lei che lancia l’idea della serata di beneficenza. Coinvolge alcuni animatori del mondo no profit della zona e mette in pista una partnership con una popolarissima associazione che gravita intorno al presidio sanitario. La notizia fa il giro della città: un uomo dal destino segnato che invita tutti ad assistere a quello che sarà l’ultimo concerto della sua vita, una cosa che non farei mai già solo pensando a cosa si prova a suonare l’ultimo pezzo di un ultimo concerto. Morirei di crepacuore sul palco.

Il nuovo episodio di “50 anni e New Wave” si conclude però con una festa, e non con un Funeral Party. Gianpaolo, Salvatore, Fede, Gene, Mauro e Lino con la stessa strumentazione che imbracciavano nei primi anni 80, tra le luci e il fumo di un’esibizione live, la sala gremita, gli abiti di scena neri e grigi, molti di quelli che li seguivano quarant’anni prima in piedi a ballare con anfibi e capelli cotonati sotto il palco, in un tripudio di buon vecchio sano gusto new wave, che Gianpaolo porterà sempre con sé ovunque andrà. Mi raccomando, non perdetevi l’episodio. Merita davvero.