non mandare in fumo il tuo voto

Standard

Mi eri già simpatico prima, perché tutte le volte che ho comprato i biglietti per i concerti presso la rivendita Ticket One che hai nella tua tabaccheria non mi hai mai risparmiato qualche battuta sui gruppi a te sconosciuti che andavo a sentire, ricordandoti a distanza di mesi questa o quell’altra band dal nome improbabile, dimostrandoti a tuo modo esperto di “customer care relationship”. Ma hai anche la faccia simpatica, e so che avere un bar tabacchi in centro a Milano non dev’essere facile. Ci sono tuoi colleghi che, altrove, rincorrono malviventi per più isolati e gli sparano. A rapine da far west rispondono con inseguimenti da far west, per poi diventare icone dei movimenti per la giustizia fai-da-te.

E ieri, passando davanti al tuo esercizio, in via Fiamma, ho notato una bicicletta, tutta dipinta di azzurro, con una bandierina che svettava sul manubrio. E su quella bandierina c’era il logo del PD. E a fianco del logo del PD la tua foto. Che non ho riconosciuto subito: mentre passavo di lì, hai colto la mia espressione incuriosita, forse mi hai riconosciuto tra i tuoi clienti più indie-rocker, eri fuori e mi hai confermato “sì, sono proprio io”. Un tabaccaio del PD, un commerciante del PD. Ho deciso allora che ti avrei fatto un po’ di pubblicità, per quanto possa esserti di aiuto in questo umile spazio.

Purtroppo non sono residente a Milano e non posso votarti, ma spero che qualche elettore della zona, indeciso o no, legga questo post, capisca che sto parlando di te, tabaccaio che vendi anche i biglietti di concerti indie-menticabili, e dia il suo voto a te e a Pisapia. Ecco il nome di chi voterei, se vivessi nella zona in cui lavoro: Francesco Fasulo, il tabaccaio di via Fiamma che usa una bici tutta azzurra per fare campagna elettorale. Evviva i commercianti del PD. Evviva Francesco Fasulo. Votatelo.

leggende metropolitane

Standard

Non leggete il corriere on line a maggio, potrebbe esplodervi il browser. Firmato: il giornalista gentile. La notizia è che un quotidiano di buon cuore ne dia risalto in home page, sfruttando a pieni bit l’onda lunga dell’avvenimento dell’anno. Almeno fino all’11/9, quando saranno dieci anni tondi tondi. Perché parlare di una bufala che è bufala da sempre, fa bufala al quadrato. E, detto fra noi, sempre meglio il tram.

danze popolari

Standard

Maschio Piacione Disimpegnato: “E stasera che fai di bello?”
Femmina Accondiscendente Compiaciuta: “Ah stasera vado a hip-hop”
MPD: “Hip hop?”
FAC: “Si, finisco alle 10. Ci divertiamo da matti. Vuoi vedere una foto di me che faccio hip-hop?”
MPD: “Sì certo, fammi vedere.”

FAC smanetta un po’ con l’iphone tarocco, quindi lo passa a MPD.

MPD: “Ma no, non sei tu. Non sembri tu, sei diversissima”.
FAC ride schernendosi. “Certo che sono io. Fammi vedere? Ah si, avevo i capelli lisci, era l’estate scorsa. E sto guardando verso il basso. Ma sono io. Devo avere anche un video mentre faccio hip-hop.”
MPD: “Dai, fammelo vedere.”
FAC: “No, che fa troppo casino sul treno.”
MPD: “Guarda che puoi togliere l’audio”

FAC smanetta di nuovo con il cellulare e lo ripassa a MPD. Si sente una musica in sottofondo, più dance commerciale che hip-hop.

MPD: “Hey, che brave. Eccoti lì. Sì, siete proprio brave. Ma chi è questo qui?”
FAC: “Fammi vedere. Ah è Salah, un ballerino hip hop. Ha fatto anche Zelig. Se vai su youtube, scrivi Salah e Zelig, trovi i suoi video”
MPD: “Come si scrive?”
FAC: “Esse a elle a acca. Salah”
MPD: “Ah, Saham”
FAC: “Sì, devi vederlo, è spettacolare. No, Salah. Venerdì sera viene di nuovo in palestra, facciamo uno stage. Per questo prendo anche lezioni di inglese, con lui parliamo inglese”.
MPD: “Aaah, è per questo che sei già al terzo capitolo del libro?”
FAC: “Eeeeh, sisi. Di giorno lavoro, poi studio, e alla sera ciatto in inglese per esercitarmi. L’altra sera mi ha scritto you sleep? che vuol dire stai dormendo?, gli ho detto di no”.

smells like garlic spirit, ovvero raggiungere il nirvana dei sensi con l’olfatto

Standard

Io non sono razzista leghista contrario all’immigrazione intollerante, cioè lo sono e molto ma non a proposito di meltin pot e di mutazioni socioculturali dovute al tessuto etnografico in evoluzione. Cioè, in realtà a volte lo sono anche lì, ma non per partito preso, ecco. Solo in caso ci siano buoni motivi. Per esempio sto facendo i conti con nuove esperienze sensoriali, oramai realtà da accettare così come sono perché pienamente impiantate nel nostro quotidiano, tuttavia la mia sensibilità ne viene messa continuamente sotto sforzo. E ogni volta devo impormi che il suddetto substrato razzista leghista contrario all’immigrazione intollerante non faccia capolino e soverchi la componente accondiscendente e razionale che mi consente una dignitosa convivenza civile con tutti, razzisti leghisti contrari all’immigrazione a parte.

Sarà il mio naso di taglia xxll, un attributo da superdotato che mi fa trarre il massimo godimento dall’apparato olfattivo. Probabilmente, maggiore è la superficie epiteliale dedicata al senso, superiore è la quantità di impulsi percepiti? Quindi chi ha occhi grandi vede più cose? C’è più gusto per chi ha la bocca larga? Gli omoni con le manone sono più sensibili? Chi lo sa. Sta di fatto che, da sempre, credo di sentire profumi e puzze con maggiore intensità, mi accorgo di questo paragonando le mie reazioni con quelle di chi mi sta vicino, ogni volta che accade qualcosa di eclatante. E il mio nasone ha registrato nuovi odori nel campionario collettivo, immessi e condivisi proprio dalle nuove ondate migratorie, almeno credo. Perché solo da qualche anno il mio equilibrio, nel bene e nel male, subisce alterazioni di intensità variabile. Qualche esempio?

1. Alterazione dell’equilibrio elevata di segno positivo. La sede di uno dei miei clienti è in un palazzo anni ’20 del centro, zona Piazza Repubblica. Quelli che ancora hanno il portinaio. Che, a proposito di lavori snobbati dagli autoctoni, è indiano, e vive lì con la sua famiglia. Bene, ho avuto appuntamenti dal cliente in questione a qualsiasi ora del giorno feriale. E a qualunque ora, con vette nelle ore di punta della vita famigliare, ovvero i pasti, il profumo del curry si sente in un raggio di una decina di metri dal portone, fino all’ultimo piano, l’ottavo, dove il mio cliente ha l’ufficio. Io vado matto per il curry, insieme al salame è l’unica fragranza a procurarmi seri problemi di ipersalivazione, la cosiddetta acquolina in bocca. Per farla breve sbavo durante gli incontri di lavoro, è una gag che il mio cliente apprezza, mi rende simpatico ai suoi occhi (più di quanto lo sia senza curry) e mi approva sempre i progetti con mille complimenti. La sostanza in questione, il curry, è quindi catalogabile come: profumo.

2. Alterazione dell’equilibrio elevata ma di segno neutro (i segni positivo e negativo si equivalgono, a seconda dello stato d’animo). Qui, metro più metro meno, c’è un noto (per chi abita nella zona) aromificio. A parte la mia ignoranza, non pensavo infatti potessero esistere gli aromifici. Tanto meno in aree abitate. A meno che come aromificio non si intenda un banalissimo deposito di spezie. Boh. Fatto sta che ho scoperto l’esistenza dell’aromificio proprio per l’invisibile massa odorosa che investe il passante che transita di lì. Una sorta di nube impalpabile e (spero) non inquinante che a seconda di variabili indefinite (produzione in corso? percentuale di aromi disponibili? umidità e pressione atmosferica? tasso di polveri sottili presenti nell’atmosfera?) assume sfumature di intensità diverse. Mi rivolgo quindi alle persone che soffrono di nausee: attraversate la strada e recatevi sul marciapiede opposto. Meglio non rischiare. La sostanza in questione, varie, è quindi catalogabile come: profumo o puzza. Dipende.

3. Alterazione dell’equilibrio elevata di segno negativissimo. Haimè, non credevo di dover, prima o poi nella mia vita, fare i conti con uno dei miei principali nemici. L’aglio. Mi piace il sapore mescolato nei cibi, ma come olezzo mediato dall’uomo mi rivolta lo stomaco come un calzino. Soprattutto la mattina presto. E avete capito a cosa mi riferisco. Chi viaggia sui mezzi pubblici avrà già fatto i conti con questo nuovo trend, inevitabile perché probabilmente si tratta di una tecnica di auto-isolamento tipica di alcune culture. Ma che mi fa sbarellare. D’inverno mi avvolgo naso e bocca nella sciarpa, d’estate mi tocca spostarmi. Brevetterò allora il biglietto della metro in chewing-gum al sapore menta ultra-strong, da masticare obbligatoriamente dopo l’obliterazione. Anzi, la convalida del biglietto avverrà proprio tramite masticazione da parte dell’utente. Per chi ha l’abbonamento? Ehm, non ci ho ancora pensato. La sostanza in questione, aglio, è quindi catalogabile come: letale. Sempre.

sembra ieri

Standard

Ti ho visto, era mattina. Sei uscito all’alba sul balcone in pantofole, canottiera e Levis, la cintura slacciata, hai dato un’occhiata al consueto non-colore del cielo che tradizionalmente fa da controsoffitto sopra a Milano e aree adiacenti, mentre i rintocchi di campane ti hanno annunciato che un altro giorno di festa comandata era appena cominciato. E più tardi, quando tutti erano già svegli, hai deciso di fare un giro in bici da solo, visto che tua figlia non ne vuole sapere di uscire di casa e rimirare le brutture suburbane che ti circondano. Ha solo sette anni, ma già ha sviluppato il suo senso estetico. Come biasimarla. Tua moglie non è da meno.

A te invece piace pedalare lungo la zona grigia, quella sorta di terra di nessuno a cavallo tra la prima cintura metropolitana e la periferia della metropoli stessa. Una linea di confine in perenne crisi di identità: siamo già in città o siamo ancora nei sobborghi? Solo tu trovi affascinante osservare da vicino luoghi e cose che di norma ci si lascia sfuggire dal finestrino dell’auto. Uno scenario costruito unicamente a misura di mezzi di trasporto, che a occhio nudo e statico svela mostruosamente la sua oscenità. I piloni dello svincolo autostradale e il percolato che perpetuo ne fuoriesce, infiltrandosi sotto manifesti di Pittarello e biancheria intima Yamamay, accentuandone lo squallore pornografico. I lati semi-erbosi delle strade, in attesa di essere invasi dell’ambrosia, fanno da letto a vuoti di sottomarche di alcolici da discount.

C’è un sentiero che scorre lungo i binari della tramvia, considerato dai pedoni un marciapiede, dai ciclisti una pista ciclabile. Superi un paio di cinesi che si recano al lavoro, o rientrano camminando dal turno di notte svolto chissà dove, si scostano al campanello, di certo non rivendicano l’esclusiva. Poi il parchetto di quartiere, chi non può fare altro fa festa con i bambini lì, nel frattempo si fa vedere anche il sole.

Poche centinaia di metri su strada, invece, e rischi la distrazione degli automobilisti ben due volte. Non sarebbe giusta la tragedia proprio oggi. Ti viene subito in mente quel motivetto anni ottanta, quello della morte che è dappertutto, ci sono mosche sul parabrezza. Così pensi sia il caso di rientrare; nel rettilineo un ragazzo cammina di fretta, un’auto lo segue da vicino. C’è il padre alla guida, che gli intima di risalire nell’abitacolo. Il figlio non lo guarda nemmeno, gli chiede senza mezzi termini di non rompergli i coglioni e di andare affanculo. L’insulto si perde con un curioso effetto Doppler tra una famiglia cingalese che aspetta il tram alla fermata poco più avanti, intenta ad osservare i manifesti elettorali, i posti di lavoro creati dalla Moratti grazie all’expo e l’espressione corroborante di Pisapia. Dall’altro lato della provinciale, nel parcheggio esterno di uno stabilimento, un tizio malvestito si specchia nel vetro anteriore di una utilitaria, si accende una sigaretta e si guarda intorno sospetto, nella tipica espressione di chi sta per delinquere.

Lo sprint finale, passi sotto il cartello che sancisce l’inizio della competenza territoriale del tuo paese di residenza. Anche lì ci sono case, in un giardino che dà sulla strada un tizio che conosci, è il papà di una compagna di classe di tua figlia, sta accendendo il fuoco di un barbecue. L’odore di grigliata mista, beati loro, ti ricorda allora che c’è vita che ti aspetta. Non sarà giornata di resurrezione a sproposito.

la resistenza torna di moda

Standard

La notizia è proprio di ieri. Leggo da shopandthecity che “a pochi mesi dall’inaugurazione di Corso Vittorio Emanuele a Milano, GAP raddoppia e segue la strada già intrapresa da Abercrombie: passare da una location centralissima, a un grande centro commerciale extraurbano. In questo caso si tratta de IL FIORDALISO di Rozzano (Mi).

Per l’inaugurazione, una iniziativa carina: dalle 12 alle 19, oggi e domani, chi si presenta nel nuovo negozio può realizzare un servizio fotografico GAP personalizzato, in omaggio.”

Ecco i primi fortunati vincitori del servizio fotografico GAP:

g.a.p. generazionale

Standard

storie di ordinaria folla

Standard

L’informazione è ormai considerata un diritto gratis dell’uomo metropolitano. Mi riferisco all’evoluzione del genere cui apparteniamo anche noi frequentatori dell’ambiente social e virtuale, ovvero l’insieme di bipedi che brulicano sottoterra nelle ore di punta per raggiungere il posto di lavoro. Non si spiegherebbe la profusione di pusher di attualità distorta che presidiano i numerosi varchi di passaggio all’inferno, voragini segnalate da una emme bianca in campo rosso che ogni elettore vorrebbe sempre più vicino al portone di residenza per diminuire il percorso outdoor e la conseguente esposizione alle polveri sottili, se non per veder aumentare il valore del proprio stabile.

Uomini con pettorina di tutte le nazionalità infondono consapevolezza sociale consegnando a cottimo i propri contenitori cartacei pieni di copia e incolla, comunicati stampa elaborati il minimo sindacale e publiredazionali. Ma la free press è anche un ottimo stimolo di evasione dalle celle del sudoku, passatempo ora sempre più desueto e che prima o poi sarà soppiantato definitivamente da app di vario genere.

Sui convogli a rotaie di più lunga percorrenza, che si distinguono dai mezzi dedicati al tratto urbano dal posizionamento dei sedili, è facile abituarsi alle facce degli habitué, tanto che se li incontri sopra, alla luce del sole, quando c’è, e non sei sufficientemente pronto, cadi nell’errore fatale di rivolgere loro un cenno. Perché da quel momento in poi dovrai salutarli sempre.

Da una parte c’è chi resiste nel partecipare e vincere la sfida, come concorrente individuale, alla conquista quotidiana dello spazio vuoto minimo di sopravvivenza, il necessario a consentire i movimenti base, come voltare le pagine della gazzetta dello sport o gesticolare litigando al telefono con il partner del momento. I più fortunati possono godersi il posto al ritmo dell’hi-fi antisociale, determinante per mettersi al riparo dal volume delle suonerie con cui l’italiano usa comunicare al mondo la propria manifesta appartenenza.

La legge numero uno del pendolare misantropo è puntare il posto tra viaggiatori come te, che hanno qualcosa di carta – ultimamente va bene anche in silicio e touch screen – in mano contenente parole sul quale concentrano il proprio sguardo. Guai a trovarsi in mezzo a gruppi più o meno numerosi di persone che affrontano quel percorso ogni giorno insieme e hanno sviluppato confidenza. Nell’interregno del viaggio sui mezzi pubblici, in quell’ambiente mobile, un limbo tra casa e ufficio privo di responsabilità di alcun genere, se non il possedere la tessera elettronica di sopravvivenza mensile, i rapporti che nascono e si sviluppano sono preoccupantemente deleteri. Per il prossimo, intendo.

E oggi sono a pagina 15 di Libertà di Franzen, finalmente è arrivato il mio turno nella lista delle prenotazioni in biblioteca. Sono sintonizzato su un canale a prova di Radio Maria, nulla può distrarmi. Ma è come se avessi un sistema di difesa personale che esercita un’analisi dei contenuti, prima di consentire l’ingresso ai dati attraverso il firewall. La keyword questa volta è la parola “gay”. Non mi sono nemmeno reso conto che i 3 posti limitrofi al mio sono occupati da altrettanti pendolari, volti già visti. Due ragazze sulla trentina, di fronte, e un impiegato che ostenta un look tra l’agente immobiliare e il testimone di geova, al mio fianco. Viaggiano sempre insieme e sono da evitare come la peste, fidatevi. È ora di fare un blog di foto segnaletiche, altro che di facezie come questo. I tre wanted salgono la stazione successiva alla mia e oggi non è stato possibile non soccombere alla collisione.

“Racconta a Valerio dello scherzo che abbiamo fatto a Tiziano”, dice la trentenne A alla trentenne B. “Da morire”, inizia così la narrazione la trentenne B all’impiegato, che scopro appunto chiamarsi Valerio. Prendete nota. “Tiziano non sopporta i gay, davvero, li odia”. È questa frase che, come un’interferenza dopo una curva su una qualsiasi strada provinciale del litorale ligure alterna acriticamente le stazioni radio, irrompe alla mia attenzione. Che non è tanto il fatto che Tiziano odi i gay. Il mondo è pieno di gente stronza. Ma che una persona possa pensare di raccontare una storiella con un incipit simile in pubblico senza un minimo di pudore. “Allora praticamente sono andata sul sito dell’Arci Gay e ho trovato un fac simile della tessera. L’ho stampata, gli ho incollato su la sua foto con nome, cognome e firma, e poi gliela ho messa sulla scrivania”. I tre ridono di gusto e l’aria si fa satura dell’olezzo di una colazione dozzinale appena consumata nel bar della loro stazione di salita, probabilmente cappuccio e cornetto industriale testé gonfiato da un microonde.

Non so se ci sia stato un seguito, tipo che Tiziano abbia fatto un fotomontaggio delle due colleghe impiegate vestite da Nicole Minetti o in piscina con Rocco Siffredi, magari di Nicole Minetti in piscina con Rocco Siffredi, cosa che forse avrei fatto io se fossi stato un collega gay delle due trentenni, magari pubblicandolo in home page del sito aziendale. Sono sceso prima dell’happy end e non ho sentito il finale della barzelletta. Ho fatto attenzione al gap tra me e loro, fingendo di essere nella metropolitana di Londra. Quindi sono salito a rivedere le stelle, procedendo immobile sulla scala mobile, tenendo, come tutti, rigorosamente la destra.

vivere e morire a milano, nel 1944

Standard

L’inverno del ’44 è stato a Milano il più mite che si sia avuto da un quarto di secolo; nebbia quasi mai, neve mai, pioggia non più da novembre, e non una nuvola per mesi; tutto il giorno il sole. Spuntava il giorno e spuntava il sole; cadeva il giorno e se ne andava il sole. Il libraio ambulante di Porta Venezia diceva: «Questo è l’inverno più mite che abbiamo avuto da un quarto di secolo. È dal 1908 che non avevamo un inverno così mite.» «Dal 1908?» diceva l’uomo del posteggio biciclette. «Allora non è un quarto di secolo. Sono trentasei anni.» «Bene,» il libraio diceva. «Questo è l’inverno più mite che abbiamo avuto da trentasei anni. Dal 1908.» Egli aveva perduto il suo banco nei giorni della distruzione di agosto; aveva lasciato la città; e non è ritornato a Porta Venezia che al principio di dicembre per poter vedere questo che vedeva: il più mite inverno di Milano dopo il 1908. Splendeva il sole sulle macerie del ’43; splendeva, ai Giardini, sugli alberi ignudi e sulle cancellate; ed era una mattina nell’inverno, era gennaio. Un uomo si fermò davanti al banco dei libri; portava una bicicletta per mano.
«Buongiorno,» il libraio gli disse.
«Buongiorno.»
«Che inverno, eh!»
«Che inverno è?»
«È l’inverno più mite che abbiamo avuto da un quarto di secolo.»
Si avvicinò l’uomo del posteggio.
«Da un quarto di secolo?» disse. «O dal 1908?»
«Dal 1908,» disse il libraio. «Dal 1908.»

Inizia così la letteratura sulla Resistenza. Ogni anno, verso l’anniversario della liberazione, se riesco (ma ci riesco quasi sempre) rileggo quella che è la migliore testimonianza, scritta praticamente in diretta da Vittorini, della Milano durante l’ultimo anno di guerra. I GAP, i morti passati per le armi che parlano ai passanti in piazza Cinque Giornate, i nomi in codice, la ferocia stipendiata dei tedeschi e quella gratuita degli italiani in nero. Che non dev’essere, e questo lo dico solo per me, una scusa per guardarsi indietro e contemplare il peggio. Ma cammino quasi ogni giorno nei luoghi descritti, come transito spesso da Piazzale Loreto, e mi viene un brivido perché mi sembrano cose accadute davvero troppo poco tempo fa.

gente di un certo libello

Standard

S. abita a uno sputo dall’ufficio, un paio di isolati. Il che la dice lunga sulla sua estrazione sociale: un appartamento di proprietà in corso di Porta Vittoria non lascia dubbi. E infatti dubbi non ne abbiamo. S. potrebbe tranquillamente non lavorare, non occupare inutilmente un posto togliendo l’opportunità a un precario qualsiasi di emanciparsi, farsi una vita, recuperare una dignità. Se fossi il capo, qui, la voce “residenza” costituirebbe un elemento fondamentale di cui tenere conto. Mi direte: magari il candidato/a ha in subaffitto una cantina o un seminterrato in piazza del Duomo. Si, vabbè. Riconosci comunque il tipo di persona.

Comunque il problema non si pone, S. ha meritatamente superato un colloquio ed ora è qui nella mia stessa stanza. Una ragazza nata sciùra, portamento e look degni di Letizia Moratti, come lei simpatica come una verruca, cappellino compreso. E di Letizia Moratti è anche elettrice: disinformata come tutti quelli che votano di là, commenta a voce alta le news del palinsesto di portali trash come Libero (quello della posta), anche se non mi stupirei se la sua disinformazione attingesse anche all’omonimo pseudo-quotidiano. L’apoteosi dell’aberrazione antropologica cui appartiene si è consumata con l’organizzazione della sua cerimonia nuziale, non affidata a un wedding planner solo perché è pure convinta di avere buon gusto, mesi e mesi di telefonate (personali durante l’orario di lavoro) a questo e a quello e il vestito e il pranzo e la location, nozze alle quali non sono stato nemmeno invitato. Tsk.

Pochi isolati a piedi da casa all’ufficio, dicevo. Un tragitto che non può impiegare leggendo. Ma questo non le ha impedito, una mattina di poco più di un mese fa, un ingresso trionfale con un tomo, edizione di lusso, copertina rigida, una decina di centimetri di altezza, poggiato sull’avambraccio. Spesso si chiacchiera di libri, ci si consiglia, si danno pareri. Così S. ha deciso di fornire il suo contributo, mostrare la sua carta di identità culturale. Io sono così. E io sono Oriana Fallaci, ci ha detto. Un inutile blocco di cellulosa trattata con centinaia e centinaia di pagine contenenti parole disarticolate allineate in sequenza a giustificare il prezzo in quarta di copertina. Questo libro vale tanti caratteri spazi inclusi quanti l’editore le ha commissionato. E S. ha poggiato questa porzione di vuoto in meno al confine tra le nostre due scrivanie, in bellavista. Un colpo basso, un dispetto da scuola media, una linguaccia per vendicare mesi di snobismo culturale nei suoi confronti.

Ma l’ostensione è durata solo un giorno, lo spazio occupato inutilmente da quel libello è tornato ad essere vuoto la mattina successiva, non avendo suscitato dibattito alcuno. Dubito che S. l’abbia letto in 24 ore. Probabilmente era solo un simpatico gadget a forma di cattiveria, un inutile beauty-case-book, un pericoloso e intollerante fermacarte di carta, o l’ultimo ritrovato per l’autopotenziamento dei bicipiti.