l’invasione degli ultrasuoni

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Con Elena invece ci sentiamo tutt’ora, o meglio sono io a sentire lei perché conduce un breve programma radiofonico da lunedì a venerdì su un network commerciale, una delle prime emittenti che ha capito che il futuro della radio sarebbe stato quello di tenere compagnia quasi esclusivamente agli automobilisti in giro per lavoro. Non è granché. La musica la potete immaginare, i testi è roba da rubrica sulla settimana enigmistica, “forse non tutti sanno che” o “strano ma vero”, con tutto il bene che voglio al settimanale che vanta il maggior numero di tentativi di imitazione. Per farvi capire, lei dallo studio di Roma è stata la prima a dare la notizia del suono persistente che si è manifestato un po’ di tempo di tempo fa, per tre giorni di seguito sulla capitale, un fa della terza ottava (questo) che si è diffuso ovunque. All’inizio nessuno ci ha fatto caso. Poi la gente, spostandosi tra i vari quartieri, ha iniziato a farsi delle domande perché era evidente che non si trattasse di una sirena localizzata in un punto definito, in quanto l’intensità era costante ovunque. Roba che ti snerva: lo stesso suono di bordone 24 ore al giorno, un vero incubo perché ti costringe ad ascoltare musica in tonalità che stanno bene con il fa. Poi come è venuto se ne è andato. Elena, o meglio chi le scrive i testi, ha azzardato l’ipotesi fantascientifica che si fosse trattato di una specie di invasione aliena. E se le altre innumerevoli forme di vita dell’universo fossero in realtà delle onde sonore? O degli odori, e noi non ce ne accorgiamo? In questo caso io voto per certe puzze che davvero sono fuori dal mondo. Elena comunque invece non mi sente, perché io sto al di qua della radio, che poi è un’app che ho installata sullo smartcoso. Dopo aver lavorato per quasi un anno l’uno di fronte all’altra in due postazioni piuttosto ravvicinate abbiamo però continuato a scriverci, ogni tanto. Vivevo con il senso di colpa perché le avevo fatto capire che potevamo vederci per fare qualcosa dopo l’ufficio e non sapevo che Vincenzo, uno dei tecnici hardware, le faceva una corte piuttosto esplicita. Una mattina le fa recapitare addirittura un mazzo di fiori, credo fosse però il giorno del compleanno di Elena, così ho intuito che fosse il caso di farmi da parte. Ho ancora l’ultima e-mail che le ho spedito dopo che suo papà, un commercialista che lavorava proprio per la radio in questione, era riuscito a trovarle un posto ambito come quello. Non che Elena non fosse all’altezza, aveva studiato per fare la speaker ed era lì ogni giorno di fronte a me solo come impiego di risulta, per sbarcare il lunario in attesa di qualcosa di più attinente alle sue velleità. Con la scusa di mandarle un saluto le avevo chiesto se in radio ci fosse stata qualche opportunità anche per me, magari per scrivere testi come quello dell’invasione degli alieni sotto forma di suono. Mi aveva risposto che mi leggeva con piacere, si dice così negli scambi epistolari anche se elettronici, e che avrebbe chiesto in redazione se c’era bisogno.

amici nel momento del bisogno

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Quindi avrete capito anche voi che Stefano passa il tempo con me perché altrimenti starebbe da solo, lo si evince da come me lo fa pesare. Qualsiasi cosa che dico è una cazzata, il posto fa schifo e mi si impregnano i vestiti di puzza di cucina, cambia canzone che questa mi fa cagare, insomma quelle cose lì. Mi ha appena ripreso perché mi sono trovato con le mani incrociate sul volante dopo la curva, dice che è un errore di quelli per cui ti bocciano immediatamente alla scuola guida. In genere non è un problema che sfoghi su di me il fatto che non ha amici.

Mentre guido e continua a rimproverarmi lo guardo con la coda dell’occhio. Stefano è ancora lo stesso della foto di prima media, tale e quale, e non c’entra che i dodicenni del 78 sembrano molto più adulti rispetto ai ragazzini della stessa età che si vedono oggi in giro, anche se è un fenomeno che nessuno riesce a spiegarsi. Dicevo che in genere sono abituato ai suoi modi di fare così respingenti, ma stasera proprio non sono in vena. E anzi sono talmente indispettito che mi viene voglia di attribuirgli tutti i difetti delle persone del mondo, descrivendolo. Persino i miei, anche per capire attraverso la reazione di chi legge se sono comportamenti riprovevoli oppure invece se la gente è disposta a essere indulgente, o per lo meno a far finta di niente, di fronte a certe cose. Stefano non si passa il filo interdentale. Stefano scrive cose senza capo né coda che è facile poi ritrovare in certi romanzi di narrativa americana contemporanea. Stefano vorrebbe cambiarsi i suoi piedi, tanto li detesta: ne hanno sempre una e non gli danno i risultati che lui vorrebbe, poi però quando ha sentito un amico raccontare di quello che voleva farsene amputare uno e mettersi una protesi piuttosto che continuare con il fastidio che gli dava ha pensato che, tutto sommato, possono convivere – lui con i suoi piedi – ancora qualche anno. Stefano ha lasciato che una prendesse l’iniziativa giusto perché alla fine gli piacciono solo le ragazze a cui è sicuro di piacere. Stefano sostiene che gli sceneggiatori dei telefilm che vanno di moda e che durano più stagioni, nel caso in cui qualcuno del cast molli il colpo in corso d’opera, sono costretti a rivedere tutte le conseguenze che il pretesto con cui il personaggio interpretato viene tolto di mezzo può generare ai fini della trama, che è un aspetto decisamente interessante del mestiere di chi lavora per la tv, una sorta di potere divino in grado di cambiare i destini e gli sviluppi della storia, quella con la esse maiuscola. Insomma, ci siamo capiti.

Un ultimo appunto sulle telefonate che intercorrono tra me e Stefano, quando l’uno chiama l’altro per chiedere la reciproca disponibilità, e qui entrambi ci rimettiamo al vostro giudizio. La conversazione si esaurisce in una manciata di secondi, il che dimostra la mia teoria. Le compagnie telefoniche non hanno ancora capito le opportunità di guadagno della differenziazione dei contratti a seconda se il cliente è uomo o donna. Nel primo caso io farei pagare salatissimo lo scatto alla risposta e il primo minuto della chiamata, una durata che nessun essere umano di sesso maschile oltrepassa. Al contrario, le tariffe del traffico femminile conviene impostarle sulla lunghezza delle conversazioni. Se un giorno tale modello di business sarà applicato, sapete chi ha avuto l’idea per primo.

perdere il segnalibro non significa non trovare più il senso delle cose

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Lo strano fenomeno dei segnalibri dalla silhouette inconfondibile del Centre Pompidou rinvenuti abbandonati nelle stazioni dell’hinterland milanese ha dato vita a una vera e propria psicosi di nuove e inusitate calamità bibliche. Un oggetto in plastica che riassume in sé cultura e architettura, narrativa ed estetica, conoscenza e viaggi piovuto non si sa bene come dal cielo è stato interpretato prima dall’opinione pubblica e poi dai media di un paese ignorante e scarsamente secolarizzato come il nostro come un richiamo escatologico alla perdita della curiosità intellettuale, soppiantata dalla completezza informativa dei profili Instagram di grandi e piccini e dagli aforismi reali o arbitrariamente attribuiti a celebrità di dubbio valore di cui ci nutriamo ogni dì su Facebook.

Ma non dobbiamo illuderci che la gente del duemila e rotti, oramai avvezza alla realtà digitale e alla conoscenza fai da te che spopola sui social network, abbia intenzione di virare la propria evoluzione a ritroso verso un passato oramai identificato come specifico di un’epoca morta e sepolta. Tanto più che alcuni studiosi stanno lavorando per dimostrare la tesi che il caso in questione sia frutto di una banale coincidenza. Al momento ne sono stati intercettati tre, due rossi e uno giallo, quindi magari qualche distrattone che ha fatto incetta di souvenir di un certo tipo e che man mano li ha smarriti durante quotidiani spostamenti di routine, una supposizione che potrebbe essere confermata dall’analisi del DNA.

D’altronde è abbastanza facile perdere un segnalibro, quelli poi del Centre Pompidou, di plastica liscia, scivolano sulla carta che è un piacere. Io, che sia chiaro non ho nulla da spartire con quelli oggetto di questo strano fenomeno, uso quello che mi capita sottomano quando inizio un nuovo libro. Fino a ieri per esempio avevo abbinato a Una perfetta felicità di James Salter una cartolina della Val d’Aosta che mi è stata consegnata dal mittente compilata di tutto punto, con tanto di indirizzo, saluti e firma ma senza esser stata spedita. Nell’era di Whatsapp giustamente le cartoline non si inviano più ma si portano a mano, mi sembra un buon compromesso tra tradizione e modernità. Sentire poi il bisogno di mandare un pensiero anche da soli 200 km di distanza – il destinatario, che sono io, vive alle porte di Milano – tradisce tutti i limiti dei viaggi a corto raggio e dal loro valore, direttamente proporzionale ai rischi che uno ha voglia di correre. Più si è disposti a osare e maggiore sarà la bellezza e il piacere che se ne trarrà, questo è uno degli insegnamenti che il genere umano impartisce ai propri figli probabilmente dalla scoperta del fuoco. Prendi la macchina e vai in Val d’Aosta – con tutto il rispetto per gli amici valdostani -, prendi un Boeing e vai dall’altra parte del mondo. E guarda caso nel mio piccolo ho smarrito proprio la cartolina da Champoluc, e visto che c’è scritto dietro a chi deve essere spedita, magari qualcuno, convertito alle buone azioni dall’imminente fine del mondo i cui presagi sono stati individuati nei segnalibri a forma di progetto di Renzo Piano comparsi misteriosamente, ha voglia di comprare un francobollo e di chiudere il cerchio, allo stesso modo in cui sono arrivato al punto di partenza io qui.

p.s. l’immagine è solo rappresentativa del prodotto ed è l’unica che ho trovato in rete, per scoprire a quale blog l’ho rubata basta cliccarci sopra

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non è difficile rubare in un’auto chiusa

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La storia della dichiarazione di intenti tutt’altro che amichevole sulla schiena del trench di Ian Curtis, diventata un pretesto di moda fai da te dopo il mediocre film sulla vita del cantante dei Joy Division di qualche anno fa, aveva già dato ispirazione a diversi modi per pasticciare cappotti e chiodo. Giorgio, che oltre alla cricca dei post punk faceva politica attiva, si era addirittura scritto Craxi ladro con il pennarello bianco indelebile ed è rimasto immortalato così in quella foto in cui è rimasto per scherzo. C’era una darkina con cui era stato molti anni prima ma si erano lasciati in un modo piuttosto rocambolesco, e da allora non l’aveva più vista. Poi l’ha notata in posa a fianco del poster del gruppo new wave che avrebbe suonato di lì a poco in quel posto dove ci vedevamo per ascoltare musica persino al sabato pomeriggio, con le scalinata neoclassica nel cortile su cui nelle serate meno fredde le coppie si facevano di tutto al buio con la musica dei Bauhaus che colava dalle porte dell’uscita di sicurezza a causa dello scadente materiale fonoassorbente, per quello poi di lì a poco quel posto ha chiuso e chi si è visto si è visto. Sua sorella le stava facendo una foto con lei in posa e lui è corso all’altro capo del poster e a tutti è scappata una risata, e quella foto è rimasta famosa e una copia sbiadita devo averla ancora da qualche parte. Era il poster di un concerto che ricordo bene perché avevo un cappotto lunghissimo e nero che avevo lasciato sul sedile posteriore nella macchina parcheggiata sotto la sopraelevata, non avevo scritto “Hate” dietro perché non volevo rovinarlo e costava un botto. Dopo il concerto sono tornato a prendere l’auto e il cappotto dentro non c’era più, ma le portiere erano comunque chiuse e non ho mai capito come sia potuto succedere.

la vita on demand, ecco gli operatori più convenienti

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Quante sono le cose che durano ventiquattr’ore a partire da certi abbonamenti a servizi virtuali, pensate al wireless in alcune strutture turistiche ma anche i biglietti giornalieri per i mezzi pubblici, d’altronde lo dice il nome stesso. Le più belle cose vivono solo un giorno, come le rose, e non sono certo io il primo a dirlo. Il sabato e la domenica durano così sulla carta, poi però al lunedì ti rendi conto di essere stato fregato, c’è sempre qualche ora marcia come quando compri la frutta e ti mettono i pezzi peggiori di cui si vogliono disfare in fondo, nel sacchetto di carta. Questo perché in realtà il tempo dovrebbe a consumo come alcuni servizi che oggi stanno avendo un vero e proprio successo commerciale. L’assicurazione, per esempio. Perché pagare un prezzo annuale quando guidiamo solo due o tre ore a settimana. Prendi la macchina per una gitarella fuori porta che è una bella giornata e l’assicurazione si attiva nel momento in cui schiacci il pulsante di apertura elettronica sulla chiave. Il costo ti viene automaticamente addebitato sulla carta di credito e ci si possono inventare millemila prodotti accessori a seconda se usi l’auto poco o tanto, tipo i km accumulati e a fine anno hai degli sconti o buoni benzina. Ecco, la vita dovrebbe essere più o meno così. Ci sono un sacco di episodi in cui il tempo che passi è sprecato, certo è difficile dirlo a priori ma con un po’ di esperienza le “sòle” le riconosci da come ti si presentano. Sai già in partenza se un’occasione è sprecata e così non attivi questa specie di telepass esistenziale. Pensate a quanto dureremmo con una modalità in questi termini. Ci sono cose, per esempio, che facciamo per amore e chi se ne importa se buttiamo via del tempo. Ami una persona e stai lì a osservarla anche quanto compila il 730 e tu non te la senti di allontanarti perché comunque il fatto solo di rimanere vicino vale il credito che si consuma. Anzi, quello che provi è una sorta di servizio aggiuntivo grazie al quale la vita non costa nulla. Il rovescio di questa medaglia è che i secondi, quando l’amore va in rosso, costano un botto, come le telefonate ai cellulari che faccio dal fisso con Fastweb. Anche solo una conversazione di circostanza, quelle che si hanno quando si ha più poco da dire, e solo lo scatto alla risposta ti toglie interi pomeriggi di futuro.

sto per fare un quarantotto

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Sapete bene l’inglese? Come si traduce “la vita è un blister non infinito ma piuttosto lungo (si spera) con quell’intelligente invenzione che ogni cavità che contiene la pillola della serenità ha accanto l’indicazione del giorno in cui si deve assumere”? L’ipertensione, per esempio, si combatte con uno di questi sistemi ed è proprio così – con la ciclicità con cui ogni giorno alla stessa ora devi ricordarti il dosaggio quotidiano – che osservi il blister e pensi che sono già passati quattro giorni dall’ultima confezione che hai aperto, un anno da quando hai dimezzato la posologia grazie a una vita più sana, tre anni da quando mi è successa questa cosa qui, quattro da quando mi è venuto il capogiro sulle Dolomiti che ha fatto suonare un campanello d’allarme e così via. Maggio, lo sapete, è il mese mariano per i credenti e il mese del mio compleanno per i miei venticinque lettori, e a botte di capsule per la pressione, unguenti anti-infiammatori a protezione dalle tendiniti e dagli altri acciacchi che per i podisti fai-da-te sono all’ordine del giorno, non c’è più tanto da scherzare. Senza contare il fattore memoria: se ci scappa di dimenticare la pastiglia quotidiana non è un problema ma è possibile che l’effetto di una cura prolungata svanisca, ed ecco perché bisogna tenerle in un punto in cui ci si sofferma con frequenza, così ogni giorno a quella tal ora ci viene in mente. Mio papà le portava sempre nel taschino della camicia, per dire, un metodo fin troppo zelante. Ma nella metafora che sottende a questa ennesima teoria ciarlatana, a botte di quindici giorni alla volta si fa presto a perdere la nozione del tempo. E vi ricordate, invece, di prendere la pillola, quella con P maiuscola, sempre che si usi ancora e la medicina non abbia trovato nuovi sistemi per evitare gravidanze indesiderate? Quella sì che è bene tenerla a mente con una sveglia quotidiana. Ricordo metodiche strategie di coppia per tener fede a quel patto biologico, d’altronde la pillola anticoncezionale è un vero e proprio progetto a due, almeno a me è rimasta questa immagine, e magari se sei sola non ce n’è nemmeno il bisogno ma potrei confondermi in quanto non direttamente interessato. Poi di botto interrompi e, a noi è successo così, tempo un mese e ti trovi un potenziale inquilino che cresce dentro al tuo partner, con altri giorni da contare uno dopo l’altro fino a quando, se è femmina, inizierà anche lei con una sua ciclicità che – e a me è successo proprio la settimana scorsa, mia figlia ha undici anni – sembra sempre troppo presto, per un padre. Cose che finiscono e poi ricominciano, funziona sempre così anche se a volte non ci si fa proprio caso.

scegli il punto d’inizio o fai clic sulla mappa

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Se passate in questo momento davanti ai gradini della chiesa di San Francesco da Paola, in via Manzoni a Milano, potete vedere seduti – probabilmente in cerca di quel riposo da turista che ti induce ad appropriarti di qualunque elemento architettonico pubblico su cui cercare ristoro, cosa che a casa tua non faresti mai – due uomini e una donna di dimensioni mai viste. Dev’essere la dimostrazione che non abbiamo ancora conosciuto tutto, che ci sono popoli della terra che non avremmo mai immaginato di incontrare prima che la modernità accorciasse il pianeta, dopo aver abbreviato il secolo scorso e ridotto il prodotto interno lordo della maggior parte degli stati europei.

Mi avvicino per capire le reali proporzioni di questa famiglia di giganti e raggiungo la certezza che non si tratta di una illusione ottica dovuta a qualche effetto di realtà aumentata. Sono persone in carne e ossa che, già da sedute, sono alte come me che comunque sfioro il metro e ottantasei. Scommetto che il padre, sulla cinquantina, porta un numero di scarpe corrispondente a una lunghezza di piede non esistente in natura. La madre ha le braccia lunghe come i gonzi di Braccio di Ferro e il figlio adolescente già supera tutti gli altri. Mi chiedo da quale repubblica baltica possano provenire, è l’unica spiegazione che riesco a dare, ma questo non mette freno all’entusiasmo della novità che è un po’ come lo stato d’animo che devono aver provato gli esploratori che, lungo la storia, sono entrati in contatto con popolazioni autoctone nei luoghi scoperti per la prima volta. Noi invece siamo qui ancora a disgustarci per l’odore delle pelli non pallide come la nostra, pensate come siamo messi.

E se passate in questo momento e mi confermate la straordinarietà dell’evento mi potete tranquillizzare sul fatto che non è perché sono reduce da una specie di attacco di panico. Ho appena concluso un sopralluogo in uno spazio che domani ospiterà una conferenza durante la quale dovrò occuparmi di alcune interviste video. Un posto fighissimo tutto fatto a scale su vari piani ma all’interno di un loft spropositato, praticamente al buio con sprazzi di luce molto zen che si aprono su complementi d’arredo per bagno. Ma mentre valutavo gli angoli più adatti da usare come location per le riprese – si dice così – mi sono perso. Ho chiesto ben due volte come si facesse a uscire di lì e mi hanno pure indicato la strada ma ormai era troppo tardi. Ho iniziato a sudare copiosamente e siccome mi vergognavo di chiedere di essere accompagnato o ad ammettere che ero spacciato, potete immaginare la tipologia di persone che lavora in quegli ambienti usi a ospitare eventi di moda e design, ho fatto finta di rispondere al telefono per ostentare quella distrazione che impedisce ai maschi di fare due cose contemporaneamente. Dicevo forte, come se parlassi a qualcuno, di aspettare che mi ero perso, nel frattempo lanciavo sguardi di complicità a due receptionist con le sembianze da modelle orientali che ci sono cascate e, con aria di chi compatisce le persone quanto interpretano alla perfezione uno stereotipo, mi hanno indicato la rampa di scale corretta per fuggire da quel labirinto che sembrava ispirato da una incisione di Escher.

Finalmente mi sono trovato fuori, in via Manzoni. Ormai però mi ero affezionato al mio ruolo di finto interlocutore telefonico. Al mio amico immaginario, ubicato a un inesistente altro capo della linea, ho raccontato che avevo preso un granchio, e quella tizia che davo per scontato fosse un architetto, quella con la borsa di Artemide con la schiscia dentro che vedo ogni mattina, in realtà lavora in amministrazione di una sorta di agenzia immobiliare. L’ho scoperto perché ho camminato davanti a lei mentre era coinvolta in una specie di colloquio al telefono.

Nel frattempo si è alzato un vento anomalo che ha contribuito ad asciugare un po’ la camicia fradicia dalla paura che mi sono preso prima, in quel posto da incubo in cui dovrò trascorrere l’intera giornata di domani. Il resto lo sapete, e se passate in questo momento davanti ai gradini della chiesa di San Francesco da Paola possiamo chiedere insieme a quella famiglia di spilungoni di mettersi in piedi, per capire davvero quanto sono in grado di surclassarci.

tutte le iniziative per la sesta “Giornata senza musica”

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Non è la prima volta in cui l’assessore alla cultura si presenta con vistose calzature da trekking in ambiente urbano, ormai la cittadinanza è abituata ad accettare questo vezzo di informalità e soprattutto costituisce materia di distrazione se, al momento di tenere il discorso, nessuno lo ha provvisto di un microfono da esterni e ci tocca fare silenzio anche se i rumori dell’ambiente non li può zittire nessuno. D’altronde oggi in cui si celebra la “Giornata senza musica” ogni sistema di diffusione audio è bene tenerlo al chiuso nei negozi che li noleggiano, per fugare qualsiasi tentazione.

Anch’io ho sperato fino all’ultimo che piovesse, così la festa poteva sembrare un’iniziativa qualsiasi guastata dal brutto tempo in cui è meglio lasciare casse e strumenti musicali al coperto. Invece no, non c’era il sole ma comunque nemmeno una goccia d’acqua e qualche multa perché qualcuno si è messo a canticchiare qualcosa si è vista. In un caso io mi sono astenuto a fatica dalla delazione. C’era un tizio che fischiettava il che, oltre a essere un comportamento vietato nella “Giornata senza musica”, è una pratica davvero desueta e di altri tempi. Fischiava una nota aria del secolo scorso, un retaggio dei recenti festeggiamenti dei cent’anni della Liberazione che gli dev’essere rimasto in testa dopo le manifestazioni di ieri. Non è stata però una bell’idea quella di inaugurare un nuovo monumento proprio nel giorno del silenzio, come i più lo hanno ribattezzato. Ci sarebbe stata bene la banda, il coro della scuola civica di musica, magari i bambini delle elementari con le loro app di audio editing.

Invece niente. L’assessore che sembra un montanaro parla senza che lo senta nessuno davanti a una parete su cui sono state applicate centinaia di facce di gesso sorridenti. È questa l’opera che un artista locale ha donato ai cittadini. Centinaia di riproduzioni di volti degli abitanti del paese – tra cui ci sono anch’io – ricavate da calchi realizzati sui visi sorridenti dei volontari che si sono prestati all’iniziativa. Carino no? Conclusa la parte dei discorsi ufficiali – anche se incomprensibili da dove sto seguendo l’inaugurazione – ci avviciniamo per cercarci come si fa al cimitero. Dove ti hanno messo?, ci viene da chiedere a chi abbiamo vicino. Ed eccomi lì, identico all’originale. Non avevo dubbi, con il naso che mi ritrovo sono facile da riprodurre, in qualunque modo, anche ad opera di uno scultore.

Mi avvio per rientrare a casa, a mia figlia che mi ha accompagnato non è piaciuto nulla di tutto ciò, lei è in quella fase adolescenziale in cui senza coetanei fa tutto schifo. Io penso che alla sua età ascoltavo Lio e mi scappa di canticchiare il ritornello di “Amoureux solitaires” senza accorgermi che il capo dei vigili è lì a due passi, mi sente e mi fulmina con lo sguardo. Mi viene il dubbio di essere stato ripreso per il testo, ma forse solo io collego il concetto di amore solitario alla masturbazione, o forse alla masturbazione collegavo Lio ai tempi, con la gonna di pelle al ginocchio. Comunque no, era sempre per la “Giornata senza musica” a cui so benissimo che non mi abituerò mai come quando avevo comprato la Alicia DeLonghi e per un paio di mesi buoni avevo continuato a mettere la caffettiera sul fornello, accorgendomi fortunatamente in tempo del guaio che stavo per combinare. E anche oggi mi va di culo, niente contravvenzione. Il capo dei vigili mi ha riconosciuto come la faccia di gesso venuta meglio e, per una volta, ci passa sopra.

colpo di sole

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Come si chiama quella sensazione per cui il sole scalda il gilet di lana e ne percepisci la proprietà di isolante termico mentre l’aria è ancora fredda e il tutto ti induce a volgere la faccia al sole per bilanciare l’effetto con un ottimo conduttore? Per noi che siamo sempre alla ricerca di nomi da dare a stati d’animo, prodotti, figli, iniziative marketing, cose, la mancanza di parole giuste è sopportabile tanto quanto la sete. Ci sono le volte in cui bisogna dare i nomi alle canzoni, i titoli insomma, e i nomi d’arte, come chiamare una band, il che risulta uno sforzo più semplice perché se non si hanno troppe pretese si può attingere ai propri riferimenti culturali. È bello anche sentirsi chiamare, ciascuno di noi ha un nome, e sfido a trovare qualcuno a cui non piaccia essere oggetto di attenzioni. Sentire pronunciare il proprio nome ha lo stesso effetto di un raggio immobilizzante e non c’è metafora più azzeccata perché ti cattura l’attenzione, ti fermi, ti volti per strada, cerchi chi ti sta cercando e appena capisci si instaura una specie di canale privilegiato di interesse tra te e l’altro. Sembrano cose banali e probabilmente lo sono, talmente ovvie che non ci fate caso e non dovrei nemmeno io ma poi sto al sole a godermi il calore sul gilet di lana e se devo pronunciare a voce alta il nome di un passante – un passante che conosco bene, eh – ecco che il calore raddoppia, la lana non è più isolante e i raggi raggiungono lo stomaco, il cuore e numerosi altri organi interni. Avete presente, vero, la realtà aumentata? Gli inserimenti di grafica che oggi vanno molto di moda nelle tecniche di postproduzione video? Ecco. Prima ti ho chiamato e il tuo nome è rimasto lì, sospeso sulla strada tra lo sbigottimento dei passanti, e chiunque avrà capito il motivo.

così da vicino

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Averti raccontato che ho paura di vedere le navi da vicino a bordo di un moscone come quella volta in cui ho partecipato alla visita guidata del porto tu avresti dovuto considerarlo come un vero e proprio approccio perché non conoscevi i retroscena. Si tratta di un episodio che fa il paio con quel misto di fobia e attrazione nello sostare con il naso all’insù sotto i giganti dell’architettura di massa piena però, non la torre Eiffel per dire – con tutti quei buchi che ne alleggeriscono la mole – ma certi grattacieli di Manhattan o la stessa Lanterna di Genova. In natura mi è successo con la Tavolara, così inaccessibile, vista da un gommone con la vertigine della verticalità e tu sei sotto e però il fatto che ti trovi lì è perché l’attrazione appunto ha vinto la fobia, si dice addirittura che ci sono quelli che provano l’istinto di lanciarsi nel vuoto che è più forte del mettersi al riparo, ma qui si entra davvero in un ambito che non è di mia pertinenza e di cui proprio non voglio saperne nulla. Il problema era che ti osservavo da lontano e mi sembravi molto bella ed era bella l’idea che mi ero fatto della tua bellezza. Non pensavo che si sarebbe presentata l’occasione per avvicinarti, e quando è successo – consultavo un volume de “L’Année Philologique” per concludere la bozza della mia tesi nella biblioteca dell’Istituto di Latino e tu eri seduta proprio di fronte a me – ho trascorso buona parte della mattinata a studiare il tuo viso come ho visto fare in quella storia a disegni animati in cui minuscoli abitanti di un’isola legano a terra un gigantone proveniente da chissà dove e gli si mettono persino in piedi sulla faccia. Non lo sapevo ancora, perché poi l’ho letto anni dopo in un saggio sui mass media, ma si chiama mi pare effetto dell’iper-realtà, quando hai una cosa smisuratamente ingrandita davanti e noti dettagli che altrimenti resterebbero invisibili. Nel complesso il mio giudizio è rimasto invariato, è solo che la leggera peluria chiara come i tuoi capelli sulle tempie e qualche provvisoria impurità della pelle ha confermato la comune appartenenza al genere umano, già ampiamente dimostrata dalle lunghe ciglia, gli zigomi mai a riposo e persino il sangue nei capillari che sono sicuro di aver percepito. Una riflessione a cui ero giunto proprio quando poi ti sei allontanata, pensavo fosse per come ti avevo tenuto gli occhi addosso per tutto il tempo ma poi, quella volta della paura delle navi, della visita guidata del porto e di un paio di altre confessioni che non mi pare il caso di ricordare qui, mi avevi detto che non te n’eri nemmeno accorta. Nel dubbio, non ti ho mai creduto.