avvicinare Netflix ai cinefili

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Ho scritto qualche tempo fa che Netflix è una cosa fantastica e ne sono tutt’ora convinto. Ci sono secondo me però alcuni aspetti che potrebbero migliorare. Magari si tratta di funzionalità che esistono già e che non ho trovato, in questo caso smentitemi a vostro piacimento, fatelo pure senza ritegno. Vengo al punto.

La vastità dell’offerta attualmente è sistematizzata con una serie di criteri di ricerca e di scelta piuttosto efficienti ma, secondo me, adatti solo a un pubblico “passivo”, lasciatemi il termine. Un pubblico che si fa guidare tra i titoli con i diversi incroci che Netflix mette a disposizione: che cosa ti può piacere in base a quello che hai già visto, le macro-categorie di genere, serie e film internazionali, le opere tratte da libri e quelle basate su avvenimenti storici eccetera.

Manca però, secondo me, una funzionalità che, per chi è cresciuto con un modo di andare al cinema di vecchio stampo, sarebbe molto più efficiente. Mi riferisco alla disponibilità di un elenco per nome dei registi, e non solo la possibilità di trovarli digitando le loro generalità nel campo di ricerca. A causa di questa mancanza, per dire, mi stavo per perdere due film veramente superlativi di registi molto bravi: mi riferisco a Todd Solondz (su Netflix attualmente è presente Wiener Dog) e a Jesse Peretz, membro dei Lemonheads e dietro alla macchina da presa di “Quell’idiota di nostro fratello”.

Molto spesso dei registi come loro – e non solo – non sempre si è aggiornati sulla loro produzione, quindi difficilmente si riesce a ricondurre un film a chi l’ha girato. Su Netflix, spulciando l’archivio, il nome del regista non compare mai nelle prime righe che riassumono l’opera, e in entrambi i casi ho capito di cosa si trattasse molto fortuitamente. Chissà quante altre perle nasconde l’offerta di Netflix, ma controllare uno a uno su Internet di cosa si tratta è faticoso, come potete immaginare.

Cari amici di Netflix, quindi, se avete tempo e voglia potreste implementare una funzionalità utile a visualizzare al volo il nome del regista, ma anche degli attori, degli sceneggiatori o di quanto possa essere utile a chi è interessato e introdurre un modo per cercare nel catalogo i titoli attraverso questi parametri. Se tutto questo è già possibile, sono tutto orecchie (e tutto occhi). Grazie.

sbiancato

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Ci sono diversi modi per fruire delle cose del passato. Possiamo considerarle storia o storiografia e, dal presente, studiarle per comprendere meglio il contesto, i fatti, le conseguenze. Possiamo farle nostre alla luce di un revival o una moda derivativa, quindi additarle come oggetti di culto al di fuori da ogni possibile giudizio. Possiamo riderci su per la distanza a cui si trovano dal momento in cui le guardiamo perché è passata così tanta acqua sotto i ponti, o sono cambiate così tanto le condizioni, per cui siamo incapaci di comprendere cosa abbia spinto a una tale ingenuità, impensabile per noi e la nostra adorata contemporaneità digitale.

Tutti questi punti di vista si applicano a qualsiasi cosa, ma oggi mi sono venuti in mente perché sto rimuginando sull’effetto che mi ha fatto vedere “Bianca” di Nanni Moretti qualche giorno fa, dopo aver notato il titolo nella vastità caotica dei programmi disponibili su Netflix in questo periodo. In realtà stavo spulciando il menu alla ricerca de “Il ragazzo di campagna”, non chiedetemi il perché, ma quando ho riconosciuto il volto di Laura Morante tra quella abbondanza di titoli sconosciuti sono trasalito e non ci ho pensato due volte a premere play e, se siete sottoscrittori dell’abbonamento come me, vi invito a fare lo stesso e poi a dirmi se avete provato le stesse cose che ho provato io. So che “Bianca” appartiene al background esperienziale di tutti voi e quindi taglio corto. Vorrei solo farvi riflettere su alcuni aspetti che risaltano durante la visione di un film come “Bianca” su Netflix e su uno smart tv da decine di pollici come il mio.

Ho provato innanzitutto una forte tenerezza per la sigla in cui non succede assolutamente nulla se non la sequenza dei testi, ora che siamo abituati a veri e propri film nei film con musiche da paura, e ho usato l’avanzamento veloce non perché volevo che durasse poco ma per proteggerla dal ludibrio della contemporaneità, non so se mi spiego.

Poi mi sono anche innervosito perché Nanni Moretti, nel film, non parlava come un attore americano doppiato di oggi in una delle serie tv che vanno per la maggiore e Laura Morante, di cui ero follemente innamorato, non sembra aver fatto nulla per cambiare la sua bellezza secondo i canoni estetici attuali. La pettinatura, il trucco, la dentatura, la pelle, sono fatte per ben altra risoluzione video. Nessuno poi si è premurato di adattare la sceneggiatura e certi dialoghi alla velocità a cui siamo avvezzi sui social e l’audio stesso, in certi punti, lascia un po’ a desiderare. Ti aspetti che gli attori parlino e invece non dicono nulla. Si guardano. Spalmano la nutella. Osservano i dirimpettai. Cose così.

Sono giunto quindi alla constatazione di quanto la contemporaneità, nei confronti di un film come “Bianca”, possa essere fortemente lesiva, possa farne vilipendio, possa strapparne gli organi vitali e farli a brandelli come un predatore che insegna ai propri figli come esercitare al meglio il primato genetico nella catena alimentare. E la morale è che un film come “Bianca” non dovrebbe essere un film come un altro da vedere su Netflix e su una smart tv da decine di pollici, fatta per sequenze rapide, colori ultra-naturali, piani per schermi di quel tipo così ampi che ti consentono di consultare simultaneamente lo smartphone avendo comunque il programma che stai seguendo sempre nel campo visivo, grafica da realtà aumentata e iper-realtà da contemplare a pochi centimetri dal divano, colonne sonore fortemente evocative.

Un film come “Bianca” dovrebbe essere incompatibile con tutte queste diavolerie e rimanere sugli scaffali più nascosti dei supermercati dell’entertainment come Netflix o in quei cestoni che si trovano negli Autogrill, con i cd a pochi spiccioli perché non se li compra più nessuno, in modo che nessuno lo possa più vedere e possa venire giustamente dimenticato, e in modo che nessuno possa più rimanere perplesso di fronte ai canoni di bellezza di Laura Morante che non sono quelli di oggi o alle frasi-citazioni di Nanni Moretti o al suo linguaggio nei dettagli cinematografici che oggi nessuno si sognerebbe più di usare, in modo che un film come “Bianca” possa rimanere un lontano ricordo, un qualcosa di sfocato come la storia che si impara a scuola, come certe reminiscenze che non si sa bene se sono davvero nostre, se ce le siamo inventate e le abbiamo tirate in ballo tante di quelle volte che oggi le consideriamo parte della nostra vita e tra qualche anno, raggiunta la demenza senile, potremo finalmente spacciare come autentiche perché anzi saranno in molti a dichiarare che è stato così anche per loro, che non ne sono sicuri, ma tanto se è vero o no nessuno ci farà più caso.

10 modi per rovinare tutta la poesia di un film come Grease

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L’algoritmo con cui Netflix suggerisce cose in base ai gusti dedotti dallo storico dei programmi visti probabilmente impazzirà dal momento che ieri sera, dopo un mese delle serie più trendy e vari documentari sulla seconda guerra mondiale, ho premuto il tasto play per riprodurre Grease. Lo so che fa sorridere spendere dieci euro al mese per vedere un film come Grease che ho visto al cinema appena uscito con i miei compagni di classe e poi qualche altra centinaia di volte tra i miliardi di passaggi tv che ha avuto, forse devo averne pure una copia in vhs senza contare che sicuramente si troverà completo in streaming da qualche parte, se non sullo stesso Youtube. Posso addurre però due scusanti mica da poco: ero sul divano con mia figlia che non lo aveva mai visto e proprio il film Grease sarà oggetto di un adattamento per uno spettacolo teatrale, messo in scena da alcune sue amiche che frequentano i corsi dedicati ai rientri pomeridiani della loro scuola, per cui dovevo soddisfare la curiosità di una millennial.

Non vi nascondo che non mi abbia fatto piacere, e non solo per aver introdotto mia figlia a un pilastro del background culturale pop della mia generazione. Anzi, ricordando l’euforia con cui, dopo i titoli di coda, i miei amici ed io eravamo usciti dalla sala dell’Eldorado, che era un cinema bellissimo della mia città con il tetto a cupola che, tra il primo e il secondo tempo, si spalancava, ho provato persino un briciolo di malinconia per la semplicità con cui si affrontavano certe tematiche a undici anni in una città di provincia e ieri, nella scena clou in cui Sandy e Danny cantano e ballano “You’re the One That I Want”, ho avuto un serio impeto di commozione che, grazie all’oscurità della sera e all’attenzione di mia figlia verso la tv, sono riuscito a occultare egregiamente.

Questo moto ha indotto l’occhio navigato, cinico e disincantato dello spettatore cinquantenne che è in me a cercare tutti i particolari utili a gettare i sentimenti in caciara e, come al solito, uscire a testa alta da una tipica situazione in cui lo stato d’animo si trova agli antipodi del comportamento che pretendo da me stesso, permettendomi di ripensare al film sotto un nuovo punto di vista.

Intanto assistere nel 2017 un film del 1978 ambientato negli anni 50 causa un bel corto circuito filologico. Come reinterpreteremmo noi, così distanti dall’alba del rock’n’roll, gli usi e costumi del tempo? Chissà quanto correremmo il rischio di generalizzare e banalizzare un tema ora che è così distante e, soprattutto, ai tempi dell’Internet.

Notavo poi che protagonisti e comparse sembrano tutti quarantenni, per come erano conciati, mentre dovevano impersonare dei diciassettenni, questo perché oggi i diciassettenni li vediamo come dei bambinetti. Il fatto è che gli studenti protagonisti della Rydell High School sono interpretati da adulti, e non c’entra la presenza di pluri-ripetenti. Grease è del 78 e nel 78 John Travolta aveva 24 anni e Olivia Newton-John andava per i 30.

Non mi è potuto sfuggire poi quanto fumino tutti. A Danny, quando si dà allo sport per cercare di cambiare per Sandy, viene chiesto dall’insegnante di ginnastica di limitare il consumo a non più di due pacchetti al giorno. Sandy viene persino iniziata alle sigarette dalla Pink Ladies e in generale è un continuo inno al tabagismo. Sicuramente negli Stati Uniti e in quel periodo storico la sensibilità verso le malattie polmonari e cardiovascolari era diversa, ma oggi – a differenza degli anni 70 – un regista chiamato a dirigere un film di quel tipo troverebbe sicuramente un escamotage per non vedersi la pellicola boicottata dall’opinione pubblica. E, a proposito di Sandy con la sigaretta in bocca, certo che nella scena in cui va da Danny tutta vestita in pelle è messa giù da battaglia, non trovate?

Ancora a proposito di Danny alle prese con l’attività fisica, ho fatto notare a mia figlia che i giocatori della squadra di basket della scuola al completo – e poi anche quella di atletica – indossano le All Star. Oggi, ai tempi dell’attrezzatura super-tecnica rinforzata e molleggiata, pensare di fare anche solo una corsa con una suola di gomma piatta e così primitiva fa sorridere. Se la cosa sorprende anche voi, ma non credo, qui trovate la storia del celebre brand americano. Non solo. Oggi in cui il basket a stelle e strisce è uno sport in cui i bianchi sono rarissimi, è stato curioso seguire qualche azione senza i possenti giocatori afroamericani a cui siamo abituati che schiacciano come dei forsennati. D’altronde, negli anni 50 dubito che i neri potessero aspirare a un’istruzione come i coetanei bianchi, figuriamoci giocare in un campetto vero e proprio.

Non ricordavo, inoltre, che tra i film che i protagonisti vedono al drive-in viene mostrato anche il trailer della pellicola horror fantascientifica “Blob – Fluido mortale”, lo stesso che conosciamo perché utilizzato come sigla dell’omonimo programma di Raitre. E a proposito di citazioni cinematografiche, mi ha fatto piacere ritrovare Rizzo dopo che l’ultima volta in cui avevo visto l’attrice sul grande schermo aveva una vistosa benda da pirata in “Smoke”, che non di stancherò mai di dire che è il mio film preferito di tutti i tempi del mondo mondiale.

Tornando sulle minoranze, sono frequenti i cognomi italiani nel film, ci avevate fatto caso? Oltre alla già citata Betty Rizzo c’è Marty Maraschino, Cha Cha DiGregorio, Johnny Casino leader dei The Gamblers e nulla mi toglie dalla testa che lo stesso Danny Zuko sia vittima degli strascichi di una trascrizione approssimativa del cognome Zucco, subita da qualche suo avo italiano all’arrivo a Ellis Island.

Non avevo mai notato poi che l’officina in cui i Thunderbirds mettono a punto il “fulmine alla brillantina” si trova all’interno della Rydell High School. Se non ho letto male, i ragazzi, mentre ci lavorano, indossano una tuta con il nome della scuola e, verso la fine, vengono raggiunti da un annuncio all’interfono della preside. Ecco un nuovo spunto per apprezzare il sistema scolastico americano, oppure la Rydell High School dev’essere l’antesignano degli strampalati indirizzi che i licei italiani hanno oggi, per non parlare delle numerose occasioni per fare festa e l’opportunità di avere un luna park a disposizione degli studenti. Nella stessa scena dei meccanici al lavoro non si possono non notare, quindi, i calzini bianchi di John Travolta a spezzare scarpe e pantaloni neri, un particolare comunque piuttosto ricorrente nel film. Chissà se davvero negli anni 50 c’era così scarsa attenzione ai particolari del look.

Peccato poi che la meticolosità filologica con cui è stata preparata la colonna sonora sia parzialmente messa in discussione dalla presenza di alcuni brani che, con gli anni 50, c’entrano ben poco, e mi riferisco alla titletrack in stile disco-funky o al pezzo usato per la gara di ballo. E, a proposito di Vince Fontaine, il presentatore TV che fa il cascamorto con una delle studentesse, anche questa è una scena inammissibile in un film di questo tipo, se venisse prodotto nel 2017. La ragazza ammette poi anche di aver respinto un tentativo di Vince Fontaine di metterle “un’aspirina nella Coca Cola”. Ve lo immaginate ai nostri tempi, con tutta l’attenzione che c’è per la violenza sulle donne e sugli approcci sessuali degli adulti nei confronti delle ragazzine?

La grande domanda, infine, me la sono posta dopo la scena conclusiva: che ne è stato, poi, degli studenti neodiplomati della Rydell High School alla fine del film e delle coppie che, apparentemente felici, lasciano la giovinezza per affrontare insieme il futuro? Dovrò guardare il sequel, ma ho un po’ di paura a farlo.

dalla russia con amore

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Il contratto prevede al punto 3 una clausola che vieta il ricorso ad ascensori in luoghi pubblici con tragitti inferiori a due piani e impone l’uso del font Georgia per la redazione di qualsiasi tipo di testo su Word, pena la qualità pessima del testo prodotto. Forte sopportazione delle temperature elevate in luoghi ad alta densità di dispositivi elettronici e dimestichezza nella gestione di comunicazioni via e-mail di colleghe meridionali piuttosto bruttine ad alto tasso di maleducazione. Dentifricio, olio da cucina e l’asse del water sono a carico del dipendente mentre l’acqua in bottigliette da 50 cl è un benefit aziendale. Ma è la convivenza forzata con anziani affetti da depressione e acufene, animali domestici isterici e pittoreschi freak – veri e propri fenomeni da baraccone – che ha indotto l’ingegnere a una trasferta in Unione Sovietica approfittando di una commessa in una delle principali industrie statali per prendere una boccata d’aria. A proposito, ho dimenticato di dire che in ufficio c’è persino qualcuno che non si sa trattenere, avete capito a fare cosa. A Mosca invece c’è profumo di socialismo reale con qualche venatura di Perestrojka ma c’è anche uno degli impianti che la sua azienda ha costruito che sembra avere qualche problema. Per il momento, però, il problema oltrepassata la cortina di ferro sembra avercelo lui. Appena sceso dall’Aeroflot un funzionario gli soffia il passaporto sotto il naso e minaccia di non restituirglielo finché non avrà messo le cose a posto. Ma non è così semplice. Anche se questa è una storia inventata, perché ai tempi della guerra fredda mica c’erano i personal computer, ai fini della riuscita del racconto decido che invece è difficile comunicare con i paesi comunisti e, in più, per ordinare un pezzo in Italia e fagli superare tutte le dogane del Patto di Varsavia ci vogliono mesi, altro che i corrieri di Amazon. L’ingegnere così fa buon viso a cattivo gioco e, aspettando di poter tornare in patria, lui che è uno che fa amicizia anche con i muri, si dà da fare nella capitale dell’impero orientale. Attira le simpatie dei pezzi del partito e del ministero dello sviluppo e condivide esperienze di donne a pagamento, economia sommersa e, soprattutto, new business. Entra in contatto con altre industrie statali in cui, sono i tempi dell’italiano vero di Toto Cutugno, riesce a piazzare qualcuno degli impianti che la sua azienda costruisce e commercializza. Passano tre mesi e quando arriva il pezzo di ricambio dell’impianto guasto ha già collezionato un altro paio di commesse di quelle che ti mettono a posto per la vita. In più conosce la ragazza che, oggi in cui Word c’è veramente e Toto Cutugno non si sa che fine abbia fatto, è diventata la sua moglie russa. L’ingegnere ha scelto di restare là anche dopo la restituzione del passaporto e ora, a quasi trent’anni dalla fine dell’Unione Sovietica, continua con lo stesso entusiasmo a fornire di impianti le industrie di Putin, anche con la sua carica di socio di maggioranza e presidente della filiale di Mosca di una multinazionale nata così per caso.

tutti insieme appassionatamente

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Mia mamma non si ricorda l’ultima volta in cui è stata al cinema. Cioè non è che proprio non si ricorda, dice così come quando si vuole sottolineare il fatto che è trascorsa un’infinità di tempo dall’ultima volta in cui si è fatto qualcosa. Ci tengo a rimarcarlo proprio perché quando si parla di anziani e memoria è sempre bene andare a fondo delle cose. Mi racconta del concerto di Peppino Di Capri a cui ha assistito con mio papà all’Astor – che era un cinema-teatro che non esiste più – quando erano ancora fidanzati e delle serate trascorse da giovane a vedere film nelle sale sature del fumo delle sigarette accese e della puzza dei mozziconi spenti, a questo proposito pensate a come è migliorata la qualità della vita degli esseri umani da quando è stato imposto il divieto di fumo nei luoghi pubblici. Non ci si crede: qualche giorno fa in treno un tizio un po’ spostato si è acceso una sigaretta seduto sui gradini e il flashback è stato devastante: come abbiamo potuto convivere per secoli con tali esalazioni rimane un mistero. E anche i miei genitori fumavano al cinema, ma questo appunto talmente tanti anni fa che mia mamma non si ricorda di avere visto un film sul grande schermo.

Non credo volesse farmi sapere che le piacerebbe essere accompagnata al cinema, perché me l’avrebbe chiesto direttamente e poi da quando mio papà non c’è più è ancora più restia di prima nel mettere il naso fuori di casa. Ma il punto è che mi ha fatto riflettere su quante volte mia moglie ed io abbiamo accompagnato al cinema nostra figlia. Magari mi sbaglio, ma credo che per un bambino vedere un film con i genitori sia un’esperienza divertente. Anche in questo caso, oramai del passato. Mia figlia si spara tutti quei film per adolescenti che vanno di moda ora tipo Hunger Games o Maze Runner e di certo non vuole adulti tra le palle durante la proiezione ma solo amiche fanatiche come lei. Ma prima che i feromoni prendessero il sopravvento ricordo bei momenti passati insieme a vedere cartoni o film intelligenti.

E dato che probabilmente ci comportiamo con i nostri figli come avremmo voluto che i nostri genitori si fossero comportati con noi, o magari invece facciamo così perché loro l’hanno fatto con noi e la cosa ha funzionato, il passaggio successivo della mia riflessione è stato che anch’io non ricordavo l’ultima volta in cui ero stato al cinema con mia mamma e mio papà. Anzi, se proprio devo dirla tutta, secondo me tutti insieme non ci siamo mai andati. Ho ancora vivi nella memoria certi film visti solo con mio papà nel vecchio cinema Verdi del paesino in cui soggiornavamo in estate. Titoli del calibro di “Dove osano le aquile” o “Il corsaro nero” con Tony Renis, giuro, in cui c’è una scena in cui ci sono degli uomini su una scialuppa e uno chiede al personaggio interpretato da Tony Renis “Tu chi sei?” e quello risponde con il suo nome che non ricordo, e mio papà ha gridato “Ma va, tu sei Tony Renis”. Al cinema in città invece abbiamo visto insieme “Lo squalo”, roba che poi ho avuto paura per il resto della mia vita.

Ma la questione aperta è perché non siamo mai andati tutti insieme, loro, io e le mie due sorelle. Forse perché in cinque al cinema era un investimento mica da dopo. Lo facevamo anche noi: a meno di occasioni speciali o proiezioni al cinema parrocchiale, il cartone animato nel multisala a dieci-dodici euro a zucca lo si vedeva in due, non in tre. Fino a quando poi è subentrato l’espediente del film con le amichette, in cui entrano solo i bambini – quindi si paga un biglietto – e i genitori stanno fuori ad aspettare o vanno ad assistere a uno spettacolo più interessante. Forse la formula dei miei era la stessa, forse non era così comune fare le cose tutti insieme, forse andare al cinema era un’occasione speciale e lo si faceva una volta l’anno magari il pomeriggio di Natale e basta.

uno dei peggiori assortimenti uomo-donna mai visti, nemmeno in the lobster

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Appena saranno disponibili su Internet le quote del film “The Lobster” potremo citare nella sua esattezza il passaggio in cui l’affascinante leader dei solitari, che presto vedrete (io no di certo) anche al fianco di 007, consegna a Colin Farrell un lettore cd portatile con tanto di cuffiette da walkman vecchio modello con della musica elettronica che è l’unica che i solitari possono ballare in quanto si balla da sola. Per il resto non c’è molto da dire su una sceneggiatura piuttosto pretenziosa messa in mano a un regista un po’ meh se non che questa cosa delle affinità elettive come condizione necessaria e sufficiente all’accoppiamento ha comunque un suo fondamento.

Si tratta di una posizione a difesa della quale faccio sempre l’esempio di uno dei peggiori assortimenti della storia dell’umanità umana che è quello tra una donna campionessa sportiva o atleta praticante che si mette insieme a un uomo poco avvezzo all’attività fisica e anzi, piuttosto incline a pratiche tutt’altro che salutistiche come sigarette e canne, birra e musica sociale, laddove per musica sociale intendo proprio quella che – a differenza della musica elettronica – anche se non è che si balla avvinghiata a un partner prevede comunque un certo scambio emotivo con il prossimo.

Verrà infatti il giorno della resa dei conti dopo i fasti delle prime settimane di relazione, quelle in cui le persone che stanno insieme da poco vedono le caratteristiche altrui come veri e propri tesori da conoscere pezzo per pezzo. Verrà il giorno della resa dei conti, dicevo, in cui la donna campionessa sportiva o atleta praticante comprende che la vita dissoluta del neo-partner fatta di sigarette e canne, birra e musica sociale è potenzialmente in grado di destabilizzare la vita di una campionessa sportiva o atleta praticante e quindi, e mi rivolgo a noi maschi poco avvezzi all’attività fisica, cercherà di convincervi a fare qualcosa per migliorarvi.

Vi coinvolgerà intanto tra i suoi amici che sono tutti campioni sportivi o atleti praticanti che vi indurranno a un complesso di inferiorità per la loro condizione fisica fatta di postura impeccabile, addominali naturalmente scolpiti dal tempo passato a dedicarsi anima e corpo a uno sport nobile in quanto minore come judo, pallanuoto o pattinaggio artistico, vi coinvolgerà – dicevo – e lo farà per dimostrarvi come è bella l’umanità che si sente in forma. Quindi vi inviterà ad andare a correre insieme. Anzi, prima le camminate. Poi la corsa con pessimi risultati da parte vostra che avete i piedi poco avvezzi alle scarpe tecniche (perché vi costringerà anche a spendere un patrimonio in attrezzatura tecnica) dopo decenni di anfibi, vi trovate fianchi e stomaco rilassati per la vostra attitudine a bere alcolici in ogni occasione e a nutrirvi di roba dove e come capita, e avete il fiatone già dopo una rampa di scale.

E quando la donna campionessa sportiva o atleta praticante avrà compreso quanto sono inconciliabili due mondi agli antipodi come lo sport praticato e la vita da artista scapigliato che vi contraddistingue, si metterà con quel suo amico campione sportivo o atleta praticante che aveva più volte esercitato su di voi la sua superiorità fatta di tricipiti (muscoli di cui voi non siete nemmeno probabilmente provvisti) e appunto di addominali naturalmente scolpiti. Il mio consiglio è quindi, non appena conoscete una donna e questa vi piace, chiedetele proprio di lasciarsi tastare gli addominali prima di qualunque altra parte del suo corpo e se sentite una certa durezza scappate veloci nella foresta dei solitari, finché siete in tempo.

ecco cosa succede ogni volta in cui qualcuno sceglie un pezzo di Bowie come colonna sonora di un film di fantascienza

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I due momenti che nel film “Sopravvissuto” o “The Martian” costituiscono il punto massimo e quello più scarso dal punto di vista del coinvolgimento dello spettatore sono quando parte “Starman” di David Bowie e proprio alla fine quando lo schermo si fa buio e inizia “I will survive”. Il perché lo capite da soli: quando viene scelta una colonna sonora composta da canzoni provenienti da altre epoche o comunque pubblicate con altri intenti a fare da sottofondo a un film del 2015 con Matt Damon è il segnale che nemmeno a Hollywood o da quelle parti è sopravvissuto qualcuno con un gusto sufficiente a non farcire le storie per il grande schermo con canzoni così didascaliche e invece sono passati tutti ai prodotti per il piccolo schermo, le sempre più numerose serie tv che probabilmente rendono profitti più interessanti, in questo momento storico. Per il resto la storia di un uomo solo su un pianeta ostile ci lascia porre tutte le domande senza risposta che ci vengono in mente di fronte all’incommensurabile. C’è stato anche un momento in cui la terra è stata abitata da un solo esponente del genere umano oppure davvero una specie si evoluta non si sa bene come a tal punto dall’assumere sembianze come le nostre? Nel primo caso, a meno che non fosse uno come il protagonista del film di Ridley Scott che, forte della sua laurea in biologia, si è arrangiato con una coltivazione di patate marziane, ci sarà stato il momento in cui l’uomo – o la donna, certo – n. 1 ha provato tutte le cose che costituiscono la quotidianità tipica della nostra specie per la prima volta. Provate immaginare alla prima volta in cui ha avuto sonno. Magari credeva di morire soggiogato da questa forza sconosciuta che cercava in ogni modo di sottrarlo alla vita, temendo di spegnersi per non risvegliarsi più. A noi sembra una cosa normale perché ci siamo abituati e anzi, non vediamo l’ora che sia il weekend per esercitare questo che resta comunque uno dei migliori passatempi il più possibile, sul divano e con un paio di gatti sulla pancia. O anche, e scusate la bassezza dell’argomento, la prima volta che al primo uomo o donna è scappata la cacca. Lo so che fa ridere, ma se ci pensate è una cosa seria. Il nostro archetipo avrà patito le pene dell’inferno preoccupato per quello stimolo sconosciuto con cui una parte di sé faceva di tutto per abbandonare il suo corpo. Se vi sembra una cosa stupida allora vi riporto su temi di più alto livello: se è comparso di botto l’uomo sulla terra perché è stato creato d’emblée, è stato appunto messo qui già adulto o neonato? Se era neonato era da solo? Come ha fatto a soppravvivere? Se era adulto era un uomo primitivo o già evoluto come per esempio i fenici o gli ittiti? Facile dire che l’uomo è caduto sulla terra, perché tiriamo di nuovo in ballo David Bowie e meno male che come pezzo di Matt Demon che si sa se verrà salvato non è stato scelto “Space Oddity”, che invece poteva funzionare nella sua versione in italiano “Ragazzo solo, ragazza sola”, più solo di così.

ma che storia è che un figlio torna indietro nel tempo e bacia la madre e sistema le cose per cambiare il destino di tutti?

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So che molti di voi aspettavano questa data dal 1985 e mi spiace fare il guastafeste. Ma ieri non è successo niente di particolare per molti, mentre per altri si. Ho letto di gente che ha cessato di vivere alla vigilia del viaggio nel tempo più famoso della storia, l’ho letto sulla mia home di Facebook quindi persone comuni come me e voi. E ho visto anche foto di neonati appena sfornati con tanto di braccialetto, sapete che in reparto, quando sono tutti in bella mostra e ci sono i parenti che si azzuffano per vedere meglio, è facile scambiare la propria progenie per quella di altri. Questi ultimi – tra i miei contatti ne annovero almeno due – saranno ricordati per essere giunti al mondo su una Delorean, chissà. La vita e la morte nelle ricorrenze importanti è un fenomeno ovvio come il destino che si accanisce su chi non se lo merita privilegiando i peggiori per non si sa quale legge naturale se non, appunto, la casualità delle cose. Nonostante ciò, “Ritorno al futuro” resta uno dei numerosi film divertenti che ho visto anni dopo la sua uscita. Nell’85 un vero punkettone radicale mica si poteva permettere un film di cassetta per giunta con la colonna sonora di Huey Lewis and the News. Pensate a quante cose la nostra intransigenza ci ha fatto perdere. Ma vi dirò che averlo perso fresco di uscita mi ha consentito di apprezzarne di più la leggerezza in tempi in cui di cose così ce ne è stato davvero il bisogno. Un’altra irremovibile circa la saga completa di Marty McFly è mia figlia, ma non si tratta di un problema di gusti, il suo. A mia figlia fatele vedere le cose più spaventevoli del mondo ma al cinema o in tv non fate dell’ironia o cose strane sui genitori. Che storia è che un figlio torna indietro nel tempo e bacia la madre e sistema le cose per cambiare il destino di tutti? La prima volta che ha assistito alla proiezione domestica – forse era troppo piccola – ha interrotto la visione giustificando i suoi timori con l’attacco omicida dei terroristi libici. Ma poi ho capito il motivo perché il caso di “Ritorno al futuro” fa il paio con “La città incantata” di Hayao Miyazaki. Mia figlia oggi si spara i film e le serie più truculente su licantropi e vampiri ma i genitori trasformati in maiali proprio non le vanno giù. Così, per la trilogia di Zemeckis, siamo rimasti solo al primo capitolo e ogni volta che cerco di convincerla a vedere il resto non c’è verso. Quindi niente, ognuno vive i miti del cinema un po’ a suo modo. Con lei mi è già andata sin troppo bene con i Blues Brothers e persino con Smoke, pensate un po’. Ecco perché, per noi, il 21 ottobre è stata una data come le altre.

scatto alla risposta

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I film epocali, quelli che quando sono usciti hanno fatto la storia del cinema o per lo meno il pienone ai botteghini, bisognerebbe averli visti al clou del loro successo perché, a distanza di decenni, è facile che perdano un po’ del loro smalto e non solo se si tratta di storie sul futuro o distopiche, pensate a quante volte ci siamo detti che Spazio 1999 o Kubrick eccetera eccetera. Ci sono film poi considerati pietre miliari magari perché realizzati con tecniche che poi hanno fatto scuola negli anni successivi e quindi oggi in cui con gli effetti virtuali si fanno le cose quasi meglio che dal vero è sufficiente vederli con gli occhi della riconoscenza. Io che sono un recidivo recensore di film senza averli visti – appartengo alla corrente dei critici pregiudiziali – avrei così dovuto seguire “Matrix” qualche sera fa mentre lo vedeva mia figlia, tenendo conto che non l’avevo nemmeno visto ai tempi. Ma poi due chiacchiere, una controllatina ai socialcosi sullo smartphone, un’occhiatina allo schermo della tele senza trovare elementi rassicuranti a cui rivolgere l’interesse, fatto sta che anche in questa che probabilmente è stata l’ultima occasione in cui avrei potuto rimediare, alla fine ne ho subito solo il chiasso degli effetti speciali, qualche conversazione difficile da comprendere senza aver seguito la storia e un paio di canzoni di successo nel 1999 o giù di lì che, comunque, ho riascoltato con la tenerezza che muovono le cose che sono state innovative un tempo ma che oggi sembrano a tutti gli effetti oggetti di antiquariato. E, a proposito di ferrivecchi, mi è stato fatto notare che un modello di telefono in dotazione agli attori di Matrix era lo stesso che utilizzavo io. Da qualche parte, in cantina, devo avere ancora il Nokia 7110 con cui ci si poteva persino connettere a Internet attraverso il WAP, funzionalità che non ho mai sfruttato e non saprei dirvi il motivo, probabilmente perché non avrei saputo cosa cercare da visualizzare su un display che, pur più grande degli standard, consentiva esperienze all’utente piuttosto approssimative. Era un telefono per chiamare, ricevere e mandare sms e niente di più, come tutti i dispositivi dei tempi. Ero riuscito però a caricare come suoneria una versione a beep beep dell’Internazionale che quanto squillava in pubblico mi inorgogliva come un idiota ogni volta. Ma la caratteristica principale del 7110 era lo slider a scatto che scopriva la tastiera con una tecnica davvero avveniristica e molto scenica, per questo è stato scelto per il film, anche se in Matrix si vede il suo predecessore che è quasi uguale, l’8110. Il meccanismo a molla dello slider, che avviava e interrompeva le telefonate, manco a dirlo è stata la prima cosa a rompersi quando l’ho fatto cadere. Una volta il Nokia 7110 me l’hanno pure rubato ma me ne sono accorto subito e, non ci crederete, sono riuscito a essere abbastanza convincente da farmelo restituire solo a parole, probabilmente perché era il 2001 e, come modello, era già stato ampiamente superato.

due o tre cose che vengono in mente dopo i titoli di coda

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Il successo del nuovo film di Sorrentino ha dimostrato come se non ce fosse il bisogno che c’è una sola proiezione possibile ed è quella in avanti, potremmo cioè fornire qui di seguito una efficace sintesi delle tematiche di “Youth” ovvero: giovinezza un cazzo, abbiamo le ore contate, nel peggiore dei casi ti portano i fiori in una struttura per i malati di Alzheimer ma, manco a dirlo, in quel caso difficilmente te ne accorgi. Spero che l’uso del termine proiezione in ambito cinematografico non vi abbia tratto in inganno, questa volta il gioco di parole non c’entra. Ho cercato così in rete alcune alternative alla depressione in cui possiamo incorrere se ottemperiamo a questa prospettiva, fermo restando che il miglior rimedio resta comunque appendere se stessi al chiodo e immolarsi al futuro altrui così ti distrai un po’ (figli, prossimo, cause comuni e, perché no, animali), anche questo è un punto di vista rispettabile. Ma se preferite rimanere nel vostro orticello il primo suggerimento è lasciare il telefono sempre acceso, perché spegnerlo significa perdere delle opportunità, ti chiamano per l’occasione della vita che può riguardare la sfera personale o professionale e magari lo fanno da un fuso orario sfavorevole per noi, com’è il dollaro oggi. Tu dormi e quelli dall’altro capo della linea sentono che al momento non sei raggiungibile, così chiamano senza pensarci su quello dopo nella lista e ciao. Si tratta di un caso differente dal classico “un produttore viene a sentirmi per caso mentre canto le mie canzoni al pub sotto casa” o “scrivo cose in Internet e un facoltoso agente letterario mi scopre e mi finanzia il primo romanzo” perché se qualcuno ha il tuo numero vuol dire che cerca proprio te, per questo è meglio stare sempre pronti e indossare biancheria pulita e calzini senza buchi. Senza contare che, per qualsiasi evenienza, vi godrete il lusso di non dover inserire il PIN ogni volta. La seconda alternativa è che se ritenete di aver talmente bisogno di parlare con qualcuno fate prima a inventarvi gente che vi fa domande e a costruirvi dialoghi con i controcazzi. Scambi di opinioni su misura. È una pratica che aiuta. – “Ne sei sicuro?”.