e pupe

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Papà, ma quando tu andavi a scuola esistevano i bulli?”. Con mia figlia si sta parlando di un nuovo compagno di classe, un dono inaspettato che arriva fresco fresco da un’altra scuola da cui probabilmente o è stato allontanato o, palesando il dissenso con la linea didattica del comprensorio, è stato ritirato dai genitori stessi. Un dono di cui è stata omaggiata la terza di mia figlia, l’unica terza a essere priva al momento di casi problematici. E in realtà il pacco in questione, per insistere sulla metafora del regalo, non è che sia un bullo, bensì un piccolo cretinetti viziato, con un vocabolario di scurrilità alimentato a grandi fratelli, strisce le notizie e mediasettate varie. Uno di quelli che appena la maestra si assenta dall’aula comincia con il suo show di “bombe atomiche” (che non oso pensare in cosa consistano) e insulti gratuiti, anche pesanti, anzi fortunatamente talmente fuori misura da non essere colti nemmeno dai compagni di classe (papà, cosa vuol dire titoloirripetibile?), che già l’hanno bollato come uno svitato. Ma che talvolta “alza le mani”, probabilmente perché a casa nessuno gliele ha mai “scese addosso” abbastanza. Così, non riuscendo a capire il motivo per cui l’armonia di un gruppo debba essere guastata da un cane sciolto – cara mia, mi vien da dirle, ricorda che questo sarà una costante della tua vita sociale – mi chiede come si stava da studenti in quella dimensione atemporale che è il passato dei suoi genitori.

A pensarci bene, i bulli non esistevano nella mia scuola, perché se fossero esistiti sarebbero stati annientati dai piccoli delinquenti che la frequentavano. Ben altre complessità. Il quartiere in cui vivevo condivideva la scuola elementare e media con uno dei peggiori agglomerati urbani della mia città, popolato da famiglie numerosissime, la maggior parte immigrate dal sud, dai cognomi tanto pittoreschi quanto allarmanti e spesso presenti sulle pagine di cronaca locale e noti per una gamma completa di crimini comuni. Il tutto in un’epoca in cui non esisteva alcuna sensibilità per questo tipo di disagio, né a tutela degli interessati e né a difesa di quelli che, come me, lo subivano. Ricordo in prima media compagni di classe di 16 anni, pluri-ripetenti con cui lo scontro individuale era fuori discussione a priori, sia per la differenza di età sia per il fatto che erano ragazzi costantemente muniti di coltello a serramanico e catene. Stesso discorso con quelli più abbordabili dal punto di vista fisico, con il rischio di vederli poi tornare accompagnati dai numerosi fratelli maggiori, in scala come i Fratelli Dalton. E la partita non poteva essere certo sospesa per manifesta inferiorità dell’avversario. I professori stessi erano a rischio, ricordo casi in cui il limite non è stato superato di poco. Non vi dico il trattamento per quelli un po’ babbionelli come me. Sì, mi direte, anche questo è bullismo, ma il materiale umano dava adito a poche speranze di recupero, tanto che in molti hanno seguito, come da copione, lo stesso destino che la famiglia di origine aveva loro riservato in alcune varianti: con eroina, quindi morte entro i trent’anni o conseguenze croniche sulle spalle della collettività, o senza droghe pesanti ma con un maggior orientamento al crimine, quindi carcere o affini, ancora sulle spalle della collettività.

Da qui, la mia risposta è stata che il bullo in questione, con i capelli dritti sulla testa e le scarpe che si illuminano quando corre, è sicuramente da tener sotto controllo, ma la sua pericolosità è relativa è può essere annientata dalla vostra intelligenza, dalla coesione di tutti contro uno, dal ridurre al minimo lo spirito di emulazione degli altri maschietti e dall’evitare che il fascino della cattiveria possa essere motivo di attrazione anche dalle bambine. No papà, mi dice mia figlia, a me sembra solo un deficiente. Ecco, brava, penso io, lascia perdere i deficienti.

fuocherello

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“Qualcuno prima o poi inizierà a sparare”, con la variante “sarebbe il caso che qualcuno cominciasse a farlo” è un inquietante sfogo che mi è già capitato di sentire qualche volta, negli ultimi mesi e da persone diverse, anche eterogenee tra di loro in quanto a cultura, estrazione sociale, età. Non tante eh, per fortuna, ma un numero sufficiente a formare un piccolo gruppuscolo di guerriglia urbana. La cosa preoccupante è che si tratta di persone adulte, che probabilmente, come me, per motivi anagrafici hanno attraversato da spettatori gli anni della lotta armata. E siccome io ho fatto incubi a non finire, ai tempi, per via dei telegiornali che trasmettevano a non finire le foto o gli identikit dei terroristi, non so se mi piacerebbe ripassare in mezzo agli anni di piombo, questa volta da adulto, e spiegare a mia figlia che cosa sta succedendo intorno a lei e quali possono essere i rischi anche per la gente comune. Infatti è lo sparare nel mucchio che mi atterrisce, ma credo chi sostiene che sia un bene usare le armi per risolvere alcune delle questioni più urgenti intenda, prima, prendere bene la mira. In tal caso, ehm…

grandi muscoli e poca carne

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Ho capito, forse, la causa scatenante di tutto. Quelle coincidenze impossibili  che quando accadono creano un pandemonio e aprono porte su dimensioni parallele. Per esempio, posare il piede su una zolla di bosco mai calpestata da un essere umano (forse c’era su un albo di Dylan Dog o me lo sono sognato), oppure leggere per sbaglio una formula magica al contrario e zac! Là dove c’era un muro ora c’è una porta aperta su un baratro senza ritorno. No, questa è meno cupa come allucinazione ma altrettanto inspiegabile. In tangenziale ovest, direzione nord, c’è il traffico delle diciotto di un giorno feriale, sono alla guida della Passat aziendale. Fuori trentacinque gradi abbondanti e un sole da ferragosto malgrado il mese di scarto. Ed ecco la probabile sequenza di eventi magici: guardo l’ora sull’orologio al polso sinistro (un Casio Calculator vintage) la cui superficie riflette il sole, abbagliandomi, mentre involontariamente con la mano destra cambio stazione radio e parte “L’ultima luna” di Lucio Dalla. Sono nel panico, per un paio di secondi non vedo più nulla. Quando la vista ritorna, mi trovo al volante di una Fiat 128, mi sorprende il marchio sul clacson nel centro del sottile volante e il cofano verde scuro che si dipana davanti. L’impianto hi-fi con lettore mp3 non c’è più, al suo posto vedo un estraibile con le manopolone in plastica e gomma. Svanisce la cintura di sicurezza. Mi guardo intorno: una 131 Mirafiori blu, una Opel Kadett, l’immancabile 126, una due cavalli. E cosa sono quei manifesti pubblicitari sui palazzi? Il punt e mes, Calindri che lotta contro il logorio della vita moderna, quindi eccolo lì il miracolo, l’epifania, il momento topico dell’estasi suburbana. Lucio Dalla immortalato con il suo inseparabile berretto scuro di lana, la testa china sul piano e dietro una luce di scena, una gigantografia che ricopre un muro in alto a sovrastare anche la tangenziale. Sotto, la reclame di una marca di jeans d’epoca e un pay-off che ricordo come un mantra: Blu Jeans, Blu Jesus. Oddio, mi sento male, tra l’altro l’aria condizionata in macchina non c’è più, mica era stata inventata, così tiro giù il finestrino (a manovella). Mi supera una Giulietta della Polizia, diamine, penso, e se adesso mi si affianca qualcuno e inizia a sparare? Poi “L’ultima luna” sfuma, irrompe un jingle assordante, cambio stazione, sento Gigi D’alessio, e spero che non succeda una cosa analoga. Che salto spazio-temporale potrebbe capitarmi?

dalla taglia xxll alla ss

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Avete letto tutti la burla delle t-shirt stampate con l’inchiostro simpatico? Al primo lavaggio il messaggio neonazista si trasforma nel suo opposto, e lascia i nostalgici del terzo reich con un palmo di naso. Le magliette continuano ad essere un efficace mezzo di comunicazione, un documento di identità manifesto che troppi, ancora oggi, sottovalutano. E in momenti borderline come quello attuale in cui si passa dalla più cieca indifferenza al linciaggio squadrista in totale imprevedibilità, occorre fare attenzione a cosa indossiamo.

Ho ricevuto molte telefonate, proprio come Alberoni, di persone preoccupate che mi chiedono se esistano rischi seri nell’ostentare sul proprio torace o, peggio, sulla schiena, un’appartenenza partitica piuttosto che il gruppo musicale preferito. Cari lettori, per i gruppi musicali non vedo problema alcuno. Per quanto riguarda la propria posizione parlamentare, o extra, a dirla tutta io ci andrei con i piedi di piombo. A meno che non siate così creativi da puntare tutto sull’ironia, toni che, come sappiamo, a destra sono pressoché inesistenti e conseguentemente del tutto incompresi. La maglietta del Che o quella della nazionale sovietica di calcio non lasciano dubbi. Per non parlare della bandiera con falce e martello; sono stato coinvolto in un dibattito – a tavola, sia chiaro – durante il quale mi si faceva notare che una maglietta con la svastica non passa inosservata alle forze dell’ordine, mentre le vestigia della cosiddetta dittatura comunista sono tollerate e considerate lecite. Pure il sottoscritto è in possesso di una maglietta rossa recante l’acronimo CCCP, la sigla però in questo caso di riferisce al noto gruppo di punk filosovietico capitanato da Zamboni e da un cantante di cui, da qualche anno, mi sfugge il nome. Cioè, Lenin e soci non c’entrano nulla, tantomeno il Comintern.

Ma, a parte questa che mi ostino a considerare un’eccezione a conferma della regola, sono un seguace della tinta unita senza marca, senza scritta, senza fronzoli. E delle righe orizzontali, ma questa la considero un criterio estetico e nulla più. Perché essere troppo espliciti è rischioso, metti che ti capita di passare davanti a una sede di casa pound, e proprio quel giorno hai su una t-shirt da bancarella fricchettona, sei spacciato. Ma se la cerchi con un messaggio sottile, questi che amano le cose semplici nemmeno capiscono cosa intendi dire, e il gioco è fatto. Ho notato però uno sforzo anche dall’altra parte. Ho visto un tizio indossare una maglietta con una vistosa M davanti. La testa lucida e la corporatura da combattimento mi hanno fatto insospettire. Camminava nella direzione opposta alla mia, mi sono girato e ho notato che sulla schiena, con lo stesso font, compariva una B. B e M, e confesso che non è stato immediato comprendere quali iniziali fossero. La fatica è sempre la stessa, difficile riconoscerli nell’orientamento opposto a quello a cui siamo abituati.

e allora mambro

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Il treno è fermo alla stazione di Bologna. Una bellissima mamma con tre bellissime figlie dirette chissà dove in riviera romagnola, tutto il mese d’agosto al mare a casa dei nonni – che fortuna avere i nonni che abitano lì -, il papà che farà la spola da Milano ogni fine settimana a parte la settimana centrale di agosto. Oggi è il 30 luglio 1980, fa un caldo cane, le gambe sudate delle bambine si appiccicano alla pelle dei sedili e non riescono a stare ferme. La mamma e gli altri 2 passeggeri dello scompartimento, una coppia di anziani, sono lievemente infastiditi, ma la vera causa è il treno bloccato lì più che i continui passatempo fisici con cui le bimbe cercano di sfuggire alla noia, dài fate le brave, non siamo nemmeno a metà viaggio probabilmente. I vagoni sono fermi al binario, all’ombra della pensilina solo parzialmente, il resto sotto il sole pomeridiano. Tutti i finestrini son giù. Il capotreno ha già fischiato 2 volte, ma il treno resta lì, e il ritardo aumenta. Ormai è quasi mezz’ora di sosta, i passeggeri sono al limite della sopportazione, anche perché il treno è gremito, c’è gente in piedi. La bella signora sventola un quotidiano sotto il mento, osserva indignata una coppia di manovali che staccano un vagone da un locomotore nel binario di fronte, dà quindi un’occhiata al quadrante dell’orologio da polso, sbuffa. “E poi si lamentano che gli mettono le bombe”. Il treno riparte con 45 minuti di ritardo, una piccola parentesi di disagio che sarà presto dimenticata. Le due sorelle gemelle, più grandi, si immergono nella lettura di fumetti. La piccola si addormenta, la testa sul grembo della bellissima mamma.

il peggio cinema

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È questione di un attimo. Sei lì con un ghiacciolo in mano a guardare il circo in tv, se non altro perché tua figlia lo considera una sorta di rito familiare estivo, e poi adora gli animali – non dal vivo però – e al circo su raitre ci sono anche zebre e antilopi, non me ne vogliano gli animalisti e sappiate che sono dalla vostra parte e lo è anche lei, giuro. Ci sono tre acrobati sudamericani che stanno per lanciarsi in una impossibile traversata su una fune tesa uno sopra l’altro, il terzo addirittura in equilibrio su una sedia, ma l’anima del commercio ha regole rigide, se la pubblicità deve partire in quel secondo non c’è scampo. I funamboli sudamericani devono rimanere lì fermi, sperare che la pubblicità duri poco, e allora vai a spiegare ai bambini che è un programma registrato, che hanno messo in pause il file e la riproduzione partirà dal fotogramma successivo dopo gli spot. Spot che, per regole interne, è vietato seguire, quindi ci si concede un giro di canali.

Ed è questione di un attimo. Tra un canale e il successivo fanno capolino un paio di secondi de “La meglio gioventù”, la scena in cui la brava terrorista in erba Sonia Bergamasco estrae dalla tasca con nonchalance un sanpietrino seduta in un cortile dopo essere scampata alle cariche della polizia, il momento che ci fa intendere quali saranno le sue scelte politiche successive. Un esempio di finzione narrativa così scolastico da mettere i brividi, quasi quanto due innamorati che, non ancora rivelatisi, si chinano contemporaneamente per raccogliere qualcosa e, nella risalita, incrociano gli occhi languidi e capiscono di avere i destini incrociati. Oppure un amante che si nasconde nell’armadio della camera da letto perché è appena rientrato inaspettatamente il marito in casa. Ecco, il livello è questo. E nel pessimo minestrone di Giordana – non si confonda l’intento né l’argomento trattato con la qualità del film, direi la stessa cosa su quel altro capolavoro di cinematografia italiana che è “Il partigiano Johnny”- la vetta più alta è la comparsa, mi pare verso la fine, del fantasma di Alessio Boni a conferire il suo placet alla storia d’amore tra la sua ex e il fratello, una scena che meriterebbe la discesa di un’astronave dalla quale fuoriescono tutti i ragazzi uccisi negli scontri degli anni 70, di sinistra e di destra. Ma no, ripensandoci, di destra meglio di no.

prove tecniche di riflusso

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Siamo la prima orda di invasioni barbariche. Ho la primissima percezione di questo mentre, appoggiato al quadro svedese della palestra del liceo, seguo – cerco di seguire – il dibattito tra gli schieramenti dei collettivi scolastici. L’assemblea di istituto è gremita, il giorno dopo ritaglierò la foto sul quotidiano locale; ma già è evidente la nuance di impegno che dal rosso scarlatto dei veterani delle quinte porta al punto interrogativo rosa pallido su campo bianco dei novizi delle prime. L’attività del servizio d’ordine interno, dai fasti delle spedizioni antifasciste è declassata a requisire carte da gioco, cubi di Rubik insoluti e rudimentali battaglie navali. Davanti a me due compagni di classe si lasciano andare limonando abbracciati. Seguo sbigottito la querelle tra due diciottenni sui punti di rottura tra anarchia e comunismo. Dal fondo della palestra partono fischi, qualcuno distribuisce volantini dell’autonomia.

Lì ti osservo. Sembri uscita da una foto in bianco e nero di Tano D’Amico, un’istantanea rubata ad una manifestazione di gioiosa protesta di metà anni ’70. Non ancora settantasette, ma già libera dagli schemi post-rivoluzionari del ’68. Sei una femminista che non sa di esserlo. Ti immagino seduta sui banchi della facoltà, mentre elabori con la tua coscienza critica il messaggio politico di un intervento durante un’assemblea. Il tutto si manifesta nel tuo sguardo acuto che si focalizza in un punto definito. La risoluzione del problema. Ancora una foto, aspetta. Con il pugno alzato scandisci slogan di libertà con il sorriso, non hai una pettinatura, non hai un look. Sei un progetto con una lunga sciarpa a bande bicolori, grigio chiaro e grigio scuro. Un progetto vivente.

Hai una borsa di corda a tracolla, abbassi il pugno e torni a reggere lo striscione che porti con le tue compagne, tutte poco più che ventenni ma di quei vent’anni di allora, che nessuno riesce a rappresentare nemmeno nei film. I registi, specie quelli italiani che vogliono raccontare le Brigate Rosse, hanno la memoria estetica edulcorata dai luoghi comuni, ma non sarebbe un’impresa facile comunque. Le facce stesse sono diverse. Non so dove collocare lo spartiacque. Va da sé che da allora le espressioni del viso si sono involute. Lo stupore non esiste più. Per non parlare del fisico. Allora nessun corpo era modellato dal fitness, la meccanica applicata all’esercizio fisico, atleti d’allevamento. Al massimo canottaggio. La muscolatura era innata come genetica la magrezza. La moda era attillata perché non esistevano i pettorali a mezzaluna se non al circo. E io penso che mio padre ha da poco acquistato la tv a colori, e chissà dove faremo la gita.

oggi moriva

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Probabilmente R. quel giorno indossava i soliti jeans logori dalla maniacalità tipica di certi bambini come lui, che a 11 anni si fissano su un capo d’abbigliamento e lo mettono ininterrottamente, finché mamma non lo lava di nascosto. E a metà maggio, e c’era il sole, ne sono certo, in Liguria è praticamente estate. Quindi una t-shirt, siamo nel 1978 e ancora non si chiamano t-shirt, bensì magliette con le maniche corte, e le classiche scarpe da tennis blu scamosciate con tre righe arancioni su ogni lato.

Probabilmente R. è appena tornato da scuola e ha già divorato il pranzo, quando ottiene il permesso di scendere in strada per comprare qualche bustina di figurine all’edicola in piazza. Sì, fa caldo, e dopo pranzo la via è deserta, secondo consuetudine. R. si mette in fila dietro al signore in maniche di camicia e coglie il dialogo con l’edicolante, una donna barbuta che indossa sempre buffi cappelli colorati. La radio è accesa, un cronista aggiorna da chissà dove. L’edicolante barbuta consegna in mano le monete di resto all’uomo in camicia. “Ci vorrebbe la pena di morte, altro che”. L’uomo fa un cenno perplesso con la testa e si allontana con la Settimana Enigmistica.

Probabilmente R. sceglie qualche pacchetto di figurine per fare cifra tonda con il denaro avuto in regalo dalla nonna, li sceglie a caso per diminuire le possibilità di trovare doppioni secondo una personale quanto aleatoria teoria statistica. L’edicolante barbuta intanto presta attenzione alle news, siamo nel 1978 e ancora non si chiamano programmi di news, bensì Giornale Radio. “Ci vorrebbe la pena di morte”, ripete a R. che però non capisce, è in estasi per la consistenza delle bustine raccolte da un elastico giallo, teso intorno. Niente resto, quindi, se la cifra è tonda. Giusto.

R. si avvia verso casa, il vizio di specchiarsi nella vetrina della rivendita di pasta fresca si sta trasformando un atto quasi involontario. C’è un po’ di vento, come al solito. R. si infila su per le scale, il contrasto tra la luce e la fresca oscurità dell’androne genera sempre il rischio di sbagliare la misura della prima rampa, più alta delle altre. Poi via, fino al quinto piano senza ascensore.

A casa la tv è accesa; la nonna di R. segue la diretta del ritrovamento di un cadavere eccellente nel retro di una Renault 4, raccontato da un volto familiare, uno di quelli che aggiorna all’ora di cena il bollettino di guerra per le strade. R. inizia la procedura scaramantica di apertura dei pacchetti, l’album quasi ultimato sulle ginocchia, seduto sul divano. “Ci vorrebbe la pena di morte”, sentenzia anche la nonna, tornando a lavare i piatti.

brrrrrrrrrrrr

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Che poi, se ha ragione uno come Sergio Flamigni, tirare in ballo le Brigate Rosse in contesti come questi non so quanto sia efficace.

non si esce vivi dagli anni 70

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Nel giro di un paio di giorni si riaprono i casi di due tra i tanti misteri mai risolti, e che probabilmente rimarranno tali, della seconda guerra civile italiana del secolo breve, nel pieno della notte della repubblica. Anni settanta o giù di lì. L’articolo di Repubblica, pubblicato ieri, sull’omicidio di Valerio Verbano e quello del Corriere di oggi su Fausto Tinelli e Iaio Iannucci. Dalla estrema destra ai Servizi Segreti il passo è breve.