socialmente inutili

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La società si divide principalmente in due classi: chi fa un lavoro con cui aiuta il prossimo e chi invece deve generare profitto, sostentamento o piacere prevalentemente per sé. Dimostratemi il contrario e fate pure prima tutte le vostre distinzioni. A salvare vite comunque ci si guadagna, ad amministrare cose di tutti si riesce persino a mettersi di nascosto via qualcosa, questo per i salvati. Per i sommersi invece è facile trovare chi crea ricchezza anche per altri e chi guadagnando dalla propria passione riesce a rendere felice un pubblico più o meno numeroso. Ma a me non la date a bere. Ero già abbondantemente fuori dall’orario di ufficio proprio ieri sera, e stavo esercitando la mia seniority professionale spostando il cursore su un player video per selezionare alcune parti di un video aziendale da tagliare per un cliente che mi dava il timing di riferimento. Il cliente mi diceva di prendere da lì a lì, e io mi segnavo minuti e secondi e le parole di inizio e fine della parte da estrarre su un blocco con il mio tratto pen blu, con la mia calligrafia che è talmente desueta che poi non riesco mai a capire gli appunti che prendo. Questo per un’ora, buona parte della quale che potrebbe considerarsi di straordinario, almeno nel mondo dell’iperuranio in cui lavoravano i nostri fratelli maggiori.

Non sono un neurochirurgo, purtroppo, ma tutto sommato credo di avere un costo orario per l’agenzia in cui lavoro di un certo livello. E, credetemi, non sono certo uno che si sottrae a lavori umili. Ho persino riparato la maniglia del bagno in ufficio dopo che è rimasta un mese abbondante rotta, senza nulla togliere a chi ripara le maniglie delle porte. Anzi, ci sarebbe persino l’asse di uno dei due water da sostituire – questo da prima di Natale – e credo che questo fine settimana farò un salto al Leroy Merlin ad acquistarne una di quelle un po’ fantasiose e decorate in modo spiritoso, visto che nessun altro sembra pensarci. C’è quella con la sabbia e le conchiglie, quella di Sponge Bob e persino quella del Milan. Ma, tornando a noi, io rientro nella categoria di quelli che devono innanzitutto portare a casa uno stipendio, quindi far guadagnare i datori di lavoro, e dulcis in fundo il piacere, a essere onesti, che proprio non è di casa. Ma se pensiamo a chi svolge un compito di supporto o di servizi alla persona, diciamo così, corre ben altro genere di rischi. In alcuni casi, pensiamo al settore della sanità, c’è anche il compito di dare brutte notizie o l’abitudine a svolgere mansioni tra persone sofferenti e prossime alla morte, o anche a fianco di parenti che devono affrontare il lutto dei propri cari. Quando mio papà è mancato, in ospedale, gli infermieri hanno aspettato che arrivassi sul posto prima di portarlo via dalla stanza e sistemarlo in obitorio. Hanno capito da soli quale fosse poi il momento giusto per agire e, mentre transitavano con la barella a rotelle verso l’ascensore di reparto, ci hanno fatto un cenno di solidarietà che ho immaginato come parte delle loro competenze.

Io che invece appartengo all’altra classe sociale, quella dei lavori inutili, ho maturato esperienze nell’eseguire quello che mi chiedono di fare, una volta accettato un preventivo. Ieri sera, mentre muovevo il cursore sulla barra di scorrimento di un software di riproduzione video, dopo aver messo in mute il telefono sul quale mia moglie mi chiamava per capire le ragioni del mio ritardo, ho assecondato un cliente e fatto quello che dovevo fare, dapprima un po’ seccato vista l’ora e ciò che mi era stato chiesto, poi con la totale remissività, facendo finta che dalla precisione con cui mi spostavo sul secondo esatto del video su cui dovevo posizionarmi dipendesse davvero il destino di qualcuno.

che faremo quando finiranno i nomi

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Il limite dell’informatica è l’univocità, nel senso che non ci possono essere due cose uguali a meno che una si chiami “fotodelmiogatto.jpg” e la sua copia “fotodelmiogatto copia.jpg”, appunto. Ora la questione non ve la sto a spiegare ma avete capito che cosa intendo. Lo stesso criterio va applicato all’Internet con la questione dei domini. Adesso non so come sia la normativa a proposito e quindi se uno occupasse il dominio www.fiat.it – Sergio sto facendo un esempio, senza rancore eh – perché è più sveglio e lesto dell’incaricato della Fiat, poi non è che la Fiat può avere un altro dominio www.fiat.it. Che, se proprio proprio vogliamo vedere, mi sembra un peccato. Basta mettere un accrocchio che quando uno digita www.fiat.it gli compaiono in una pagina tutti i risultati (“intendevi la nota fabbrica di automobili? Intendevi il sito di plus1gmt dedicato al congiuntivo del verbo latino fio?”), certo questo rallenta un po’ la ricerca ma del resto, diciamocelo, siamo sempre sull’Internet a cazzeggiare, che cosa saranno mai venti secondi in più per aggiungere un passaggio? Scompagina un po’ anche tutto quello che abbiamo inventato sugli algoritmi usati dai motori di ricerca, ma quelli di Google hanno abbastanza soldi per mettere a punto qualche modifica. E ancora, analogamente, la cosa vale per le caselle di posta. Esiste solo un indirizzo plus1gmt at gmail punto com, per dire, e chi arriva tardi male alloggia. Pensate che qualcuno si è accaparrato tutte le caselle di posta con titolocanzonedeiCure@gmail.com, dove con titolocanzonedeiCure intendo ovviamente un qualsiasi brano della band di Robert Smith. C’è qualche folle che nella smania di fare incetta di opportunità ci ha dato dentro togliendo spazio a chi magari poi di un indirizzo come 1015saturdaynight@gmail.com ne ha davvero bisogno, e c’è qualche altro folle come il sottoscritto che è andato a controllare.

Ora che avete afferrato il quadro, converrete con me che giorno dopo giorno è sempre più difficile trovare nomi, pensare titoli, costruire frasi ad effetto, cercare ragioni sociali appropriate per iniziative che siano ancora patrimonio intellettuale di qualcuno o qualcosa. Se fate quindi un lavoro come il mio e magari vi viene chiesto di trovare un bel nome per una campagna o un prodotto, ogni volta in cui viene in mente qualcosa è bene andare su Google e cercare se effettivamente è originale, se il dominio è libero e così via. Vi assicuro che è un bel casino, perché se in Internet ci sono svariati miliardi di utenti vuol dire che ci sono anche svariate centinaia di milioni di persone che caricano contenuti di ogni tipo, ed è pur vero che se magari trovate una cosa simile a quella a cui avete pensato voi pubblicata nel 2003 su un sito peruviano, potete permettervi di ricicciarla tanto difficilmente sarete sottoposti alla resa dei conti, ma malgrado ciò si tratta di un’impresa sempre più difficile. Questo per dire che per arrivare alla scelta di un nome un po’ meh come verybello probabilmente i creativi di Franceschini davvero avranno passato in rassegna tonnellate di idee tutte purtroppo già esistenti. So già che mi direte che una cosa come una vetrina culturale per l’Italia in occasione di Expo dovrebbe certo avere più dignità di qualunque altro progetto. Ma provateci voi a essere più fighi, o provate a convincere – per farvi un esempio – quelli che hanno occupato il dominio thegreatbeauty.it e lagrandebellezza.it (per sfruttare magari il film di Sorrentino a fini pubblicitari) per una roba che non c’entra un cazzo, o meglio centra ma si parla di prodotti di bellezza, ecco provate a convincerli a mettere a disposizione il loro spazio – sto facendo sempre un esempio, provate a farlo con qualsiasi altro nome occupato – per un’iniziativa più utile per la comunità e per il paese.

Verybello fa davvero verycagare, ma davvero i nomi sono quasi finiti tutti. Se vi serve plus1gmt per un’iniziativa per il bene comune, fatevi sotto. Ma so già che è un nome talmente brutto che non se lo prenderebbe nessuno.

un monumento più duraturo del bronzo

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L’Internet e i socialcosi svolgono anche questo importante ruolo sociale di mausoleo delle nostre gesta, un incommensurabile libro di storia in cui tutto, ma proprio tutto, viene conservato per i posteri. Un grande rivoluzione di piazza tanto quanto il giorno in cui vi hanno estratto il dente del giudizio, la liberazione di due ragazze sequestrate da un’organizzazione terroristica internazionale come l’unica apparizione di tizio o caio a un programma di Red Ronnie nel 1995. Quindi provate a immaginare la novità che tutto questo comporta nello sviluppo del tanto vituperato genere a cui apparteniamo: non c’è nulla che corra il rischio di venire dimenticato, soprattutto perché i diretti interessati del dente del giudizio e, soprattutto, del programma di Red Ronnie del 95 hanno tutti gli strumenti necessari per ricordarci quotidianamente quello che è successo. Clicca qui per vedere il video della mia performance, ecco i link alla recensione del disco che ho presentato in quell’occasione, e così via. Chiaro che, per dire, un anniversario della liberazione dal nazifascismo sarà oggetto di più ricerche rispetto a uno che entrato in odore di fama una botta e via, ma questo non toglie che l’accesso democratico alla memoria collettiva non generi equivoci e velleità per l’individuo, quando una volta il tutto si esauriva con una foto incorniciata nel bar degli amici a testimoniare il successo mancato. Una botta e via, in inglese, si rende più o meno con quel modo di dire con cui sono state pubblicate molte compilation, negli anni passati. Ricordate? One shot 80, One shot 70 eccetera eccetera. Ecco, io provo una profonda tenerezza per chi vive nel mito di se stesso per aver fatto una sola cosa nella propria vita e il suo unico scopo sia amplificarla arbitrariamente per renderla eterna. Un disco uscito nell’82, una pagina Facebook ad esso dedicata, la ristampa di quel disco con sonorità più attuali che, peraltro, ne inficiano fortemente la resa perché a quasi sessant’anni non hai certo la prestanza artistica di quanto ne avevi venti e rotti. Ecco il brutto della rete: scomodare la vanità perché tanto il mezzo, tutto sommato, non costa nulla e allora tanto vale provarci, e riempire i risultati di Google di pattume.

cose che non potrebbero accadere con l’e-reader

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Questo almeno fino a quando non sono maturata, come scrittrice, intendo, e ho iniziato a tirarla per le lunghe con le storie ma soprattutto a non dovermi vergognare il giorno dopo di quello che avevo messo giù la sera prima solo perché avevo cambiato umore o c’era qualcosa che non andava. Ho scoperto alla fine che un romanzo lungo e articolato avrebbe potuto coprire un periodo più diversificato di stati d’animo e adattarsi meglio agli alti e bassi della vita, ma è complicato riuscire a trattare storie e trame narrative con un approccio diverso perché dietro ai romanzi c’è sempre la stessa mano, un’unica autrice come me che un giorno gli arriva il rimborso Irpef e riceve attestati di stima da sconosciuti, il successivo deve consolare la figlia per un misero sette di tema quando poteva meritare almeno un paio di punti in più, considerando il mestiere di sua madre, e solo perché ha iniziato una frase dopo il punto con “almeno”. Almeno è chiaro che dei turbamenti con il segno positivo e negativo poi la personalità ne risente, figuriamoci l’arte e la finzione stessa narrativa. Trattare i profili dei protagonisti delle storie con coerenza è la vera sfida, mettere da parte se stessi e inventarsi figure come terze parti di sé da trattare come Tamagotchi che una volta accesi dalla nostra fantasia compiono la loro esistenza indipendentemente da noi, un gioco di ruolo in cui dobbiamo abdicare persino la carica del master per lasciare i personaggi soli con la loro finzione. Poi però penso a tutto l’amore che si riceve ad essere in carne ed ossa e a che cosa il frutto di invenzioni come la mia, come quel blogger quasi cinquantenne protagonista del mio primo romanzo che scrive tutti i giorni in quel modo strampalato, si perdono a restare in quel mondo a due dimensioni che è la storia raccontata e scritta. Anche i piccoli segreti senza risposta, sapere per esempio che cosa spinge alcune persone a passare dalla veglia al sonno in meno di dieci respiri completi senza nemmeno riuscire a terminare quello che stavano dicendo, o perché gli uomini non sopportano che le loro mogli riescano a portare a termine telefonate da cinquanta minuti. Avere progetti narrativi sulla lunga durata è come tessere una vita parallela, trovare intorno e fuori e dentro tutti gli episodi per comporre quotidianamente una sorta di ambiente virtuale, come quelle cose kitsch che si vedevano su Second Life, senza correre il rischio di impazzire nell’immaginarsi che cosa combinano tutte quelle vite costrette a stare sveglie quando lo vogliamo noi nei momenti in cui non ci siamo. Probabilmente si riposano, magari si innamorano e non ci dicono niente, tornano nelle loro case a vivere con i loro cari, magari scrivono le loro impressioni e scommetto che qualcuno ha pure qualche velleità di fare il romanziere come me.

atti scemi in luoghi pubblici

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Questo fiorire di città intelligenti mi fa rimpiangere la provincia ignorante o la periferia pluri-ripetente che si ferma alla scuola dell’obbligo. Informazioni e processi che si inseguono lungo reti senza fili richiamati da dispositivi ubiqui e che ti attraversano la strada all’improvviso e occorre stare attenti, io un paio di sere fa non ho visto una tizia che si è lanciata sulle strisce mentre consultava il suo smartcoso e ci è mancato poco che la tirassi sotto. Già ci sono problemi di sovraffollamento, quartieri dormitorio, minacce alla convivenza civile e parcheggi e ci mancavano pure i Big Data a prendersi tutto sto spazio e a intasare ulteriormente il traffico nell’ora di punta. Che poi è tutto da vedere se vivere immersi nelle trasmissioni di dati invisibili fa bene o male, se ci sono rischi come per lo smog o l’inquinamento acustico. Occhio non vede cuore non duole, diceva l’Italia di qualche tempo fa prima che hot spot, servizi informatizzati, auto elettriche e tecnologie distribuite ne costringessero l’evoluzione verso l’inconsistenza necessaria a traguardare il futuro, come i materiali che diventano sempre più leggeri pur mantenendo inalterate le qualità o i microchip che si riducono a vista d’occhio. Quello che sfugge ai più è che se il mondo diventa sempre più smart l’uomo si fa sempre più idiota. Ce la meritiamo la raccolta differenziata intelligente, le App dei trasporti pubblici che ci fanno risparmiare tempo oltre a spostarci senza inquinare e il catasto digitalizzato? No, che domande, se siamo sempre quelli che mettono le bottiglie d’acqua accanto all’uscita del box per non far pisciare i cani, gettiamo la cicca per terra, paghiamo con montagne di contanti e giriamo con la corona del rosario che dondola appesa allo specchietto retrovisore. Tutto sembra pronto per il futuro tranne il genere umano, e in pieno pessimismo cosmico prevedo una disfatta epocale al nostro stesso progresso prima ancora dell’invenzione e la diffusione di un sistema che impedisca nelle stazioni ferroviarie la concomitanza degli annunci vocali con lo stridore dei freni dei convogli in arrivo.

vi cedo il posto

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Permettetemi l’ultima parola, sono già tante le volte in cui l’ho detto ma ora non ce la faccio davvero proprio più. Non è possibile fare lavori come il mio per più di quindici o vent’anni, a quasi cinquanta sono stufo di spremermi in guizzi creativi, strutture narrative, editing sfrenato, titoli e slogan pubblicitari. Ci mancava pure lo storytelling. Vi prego, portatemi un giovane brillante che voglia prendere il mio posto, non prima di avermi dato l’opportunità di ricoprire le mansioni di un neo pensionato in qualche lavoro più tranquillo, dietro le quinte, senza aspettative, senza corse, senza scadenze, senza brief, senza consecutio temporum. Io ve la lascio volentieri questa scrivania, questi clienti che vogliono sempre cose nuove, questi spazi di visibilità in video, articoli, banner, post, social media, pubbliredazionali, infografiche, tag, headline, commenti e moderazioni. Io lo so che di questi tempi è già tanto averlo, un lavoro, e che ci sono centinaia di migliaia di ragazzi che fanno lavori per i quali sono fin troppo qualificati e altre centinaia di migliaia che il lavoro nemmeno ce l’hanno. Ma troviamo un sistema per salvaguardare queste due o tre generazioni sfiancate dal terziario estremo, dalla schiavitù della comunicazione, dalla dittatura del marketing, dalla digitalizzazione selvaggia. La chiave della ripresa economica è tutta lì. Il segreto risiede nel liberare tutte quelle persone che come me lascerebbero volentieri lo spazio che occupano immeritatamente, lungo un sistema viziato da dinamiche che non esistono più, la carriera che c’era un tempo per cui entravi fattorino e andavi in pensione dirigente. Oggi inizi come copywriter e finisci come copywriter con esperienza. Se finisci. Lanciamo quindi tutti insieme una campagna per scambiarci il lavoro in questo gioco che si occupa la casella successiva almeno per l’impegno intellettuale per non far più lavorare i neuroni quando sono tutti protesi su ben altre preoccupazioni. Genitori anziani, figli adolescenti, acciacchi della mezza età. Per me è finito il tempo di compiacersi con le frasi ad effetto e i testi ammiccanti. Aderite numerosi a questa iniziativa, se volete trovo io qualche frase ad effetto che è il mio mestiere. Poi però basta eh, venite a darmi il cambio e mettetemi a far attraversare la strada ai bambini davanti alle scuole.

esegesi di un annuncio per community manager

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Amici giovani precari che vi scornate con l’illusione che queste cose qui su cui perdete tempo anziché studiare vi offrano opportunità remunerative e che la visibilità su Internet possa essere scambiata con una busta dell’Esselunga piena di generi alimentari o almeno in quantità sufficiente a farvi arrivare alla settimana prossima, io che ho qualche anno più di voi ho la fortuna di saper interpretare al meglio l’oscuro linguaggio delle offerte di lavoro dedicate ai vostri profili professionali. Ho pensato quindi di mettervi a disposizione un veloce prontuario per tradurre in un italiano più concreto l’idioma con cui certe società attirano talenti ormai nemmeno più con lo spirito dell’usa e getta, ma quello del getta e basta nel calderone del nemmeno noi sappiamo quello che facciamo, ma avere personale fa comunque figo, poi tanto per pagarlo si vedrà, d’altronde se uno sta a vedere tutto. Ecco qui:

Descrizione del lavoro

Stiamo cercando persone appassionate che non si tirano indietro di fronte alle sfide = non c’è nemmeno il rimborso spese

Le cerchiamo giovani ma con la voglia di crescere velocemente in un ambiente in cui ci si guarda negli occhi e ci si confronta senza problemi = ti chiederemo di lavorare nei fine settimana tanto la fibra e un portatile ce li hai anche a casa

Le persone che cerchiamo hanno realizzato o partecipato alla realizzazione di progetti digitali, gestito professionalmente delle pagine Facebook, dei profili Twitter e si sono sporcate le mani con YouTube (nel senso che ci devono aver tirato fuori dei risultati minimamente spendibili perché a pubblicare un video sono capaci tutti) = se gestisci qualche spazio tipo sei di stocazzo se, o la fan page di Doraemon, oppure se sei uno di quelli che passa i giorni a spremersi di ironia su Twitter nella speranza di essere ripreso da Repubblica, Sora Cesira inclusa

Hanno lavorato nel food & beverage, negli spirits, nell’entertainment, nel luxury, nel fashion, nei servizi alle imprese, nell’energia e hanno capito che, per stare sui social, un brand deve avere una sua voce e che questa voce deve essere interpretata, posseduta fino in fondo = conosci la Nutella, la 500, le mutande D&G e sei pronto a comprarti qualcosa per recensirlo ma con i soldi di tasca tua

Ma sanno anche che questo non basta e che la voce e i contenuti del brand devono essere diffusi anche utilizzando quella meravigliosa trappola che è il socialadv = tuo padre ha qualche aggancio nella comunicazione tradizionale o in qualche casa editrice

Averne fatto esperienza vuol dire anche saper leggere i dati che stanno dietro, nascosti nelle dashboard e che sono la guida e il giudizio sul funzionamento e l’efficacia delle azioni = sei tu responsabile delle cose che scrivi, al primo epic fail ci metti la faccia e comunque sei finito

Competenze ed esperienze richieste

Queste persone devono / o almeno dovrebbero aspirare fortemente a:

– essere dei creatori di contenuti. Saper entrare nei temi e negli argomenti trasformandoli in qualcosa di originale. Si chiamano branded content e alcuni di concentrano sul tema dello storytelling, ma parliamo in fondo di scrittura, credibilità e stimolo della curiosità del lettore/utente (soprattutto quando parliamo di prodotti e servizi) = scrivi pure a cazzo, tanto gli utenti di Internet si sa che non riescono più ad afferrare il senso compiuto di ciò che leggono

– scrivere davvero bene e saper declinare la scrittura per i diversi canali (anche questo è banale, ma un conto è il tono e il lessico di una conversazione su Facebook, altro è lo stile e la sintesi creativa di un tweet. Non parliamo poi della scrittura di un blog o di un contenuto per un sito. Altre storie ancora) Devono avere cognizione di cosa fa un copywriter e magari averne fatto esperienza (sia in termini di scrittura che di lavoro a contatto con gli Art Director). Scrivere vuol dire anche saper progettare, ma anche saper presentare i progetti = sarai inserito con un periodo di prova per cercare telefonicamente nuovi clienti

– devono aver progettato o aver partecipato alla progettazione di contest, concorsi, iniziative a premio che abbiano coinvolto di canali digitali dell’azienda (siti, social, etc.) = dimenticati la creatività, ciccio, e stai pronto a sfoderare il meglio del tuo burocratese

– parlare e scrivere in inglese. Non parlerete tutti i giorni in conference call con clienti dall’altra parte del mondo, ma tutti i giorni dovrete leggere e aggiornarvi su materiali che sono solo in inglese = il nostro inglese è scadente, contiamo sulla vostra proficiency perché noi al massimo usiamo quei termini italianizzati dall’inglese marketing ma poi non sappiamo nemmeno chiedere un’indicazione all’estero

codice sorgente

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Se vieni da fuori e non sei abituato, partecipare a un evento in quell’hotel o motel con vista sulla tangenziale ovest fa un po’ sfigato. Nessuno pensa al vantaggio invece dell’ubicazione a ridosso di uno svincolo che quando esci dall’autostrada sei subito lì. Io e Marco ci diamo dentro con il coffee break di metà mattinata e poi lo accompagno fuori, lui fuma e io no ma resto a osservare l’ampio parcheggio all’ingresso e le conseguenze degli spostamenti d’aria causati dal passaggio di autotreni e autoarticolati (non chiedetemi la differenza) sulla strada che è proprio oltre quel dehors.

Marco ha la mia età ma è il mio datore di lavoro, uno dei tre soci della software house che mi dà da vivere, ed è stato carino a invitarmi con lui alla presentazione della nuova release dell’applicativo che utilizziamo per sviluppare i nostri prodotti. Sa tanto di investimento sulla mia professionalità e di iniziazione al vero mondo dei programmatori, anche se lui è un ingegnere e io un laureato in lettere che smanetta con il codice. Lui ha preparato una tesi su una specie di protesi, una mano virtuale completamente comandata tramite computer ed è giusto che ora faccia quel tipo di lavoro. Io ho scritto qualche centinaio di pagine sulle Metamorfosi di Ovidio e boh. Dopo la sigaretta torniamo dentro, ho ancora fame e faccio il bis con il pain au chocolat e un altro cappuccino, che è una cosa che accomuna tutte le persone agli esordi della loro carriera. Un po’ come la scusa che adducono i genitori quando ti dicono che comprano tanta roba da mangiare perché sono cresciuti in tempi di guerra e si sentono più sicuri con una scorta di genere alimentari adeguata. Si mangia gratis, e nessuno si tira indietro.

Ci sono sessioni parallele con i guru italiani che ti spiegano i loro trucchi, mentre i product manager illustrano tutte le novità e gli upgrade della versione che sta per essere immessa sul mercato. Marco si vede che ama quel lavoro e, soprattutto, la sua micro-azienda. Poche sere prima abbiamo fatto tardi come al solito, si lavora giorno e notte e fine-settimana senza nessun problema etico quando c’è una consegna di mezzo. L’ufficio dà su una piazzetta del centro storico che è il centro della movida notturna, e Marco, distratto dal vociare di quei lazzaroni alle prese con birra e mojito, si è sfilato gli occhiali da vista, ha dato un’occhiata alla moltitudine di ragazzi sotto, e massaggiandosi il solco rimasto lungo il setto nasale ha pensato di consolarmi dicendo che intanto quelli là non sanno scrivere cicli, strutture di controllo, flussi di esecuzione. Ho collegato così questa osservazione a qualche settimana prima quando la sua fidanzata, che è socia pure lei, una volta che abbiamo chiuso a mezzanotte passata mi ha chiesto se volevo fermarmi a dormire a casa sua per non perdere tempo con il viaggio per tornare a casa e poi tornare in ufficio presto la mattina dopo. Per fortuna avevo amici che mi aspettavano e sono riuscito a salvare la situazione con una buona scusa.

Quando le demo dell’applicativo finiscono, ci troviamo tra centinaia di persone che fanno il nostro stesso lavoro e che sono venute in quell’iperluogo da tutta Italia. Marco mi fa notare la rappresentanza del nostro principale competitor, uno studio molto più strutturato a cui approdo quando poi Marco, la sua fidanzata e il terzo socio – un ciccione presuntuoso con velleità artistiche che oggi è ai vertici marketing di una delle principali riviste del nulla internettiano e duepuntozero – mi fanno aprire la partita iva per regolarizzare la collaborazione ma interrompendo così la continuità retributiva mensile con il passaggio a una consulenza su progetti. Una bella fregatura, in poche parole, perché mi pagano lo stesso stipendio ma spalmato su più mesi.

E infatti tutto finisce una sera quando, aspettando la conclusione dell’interminabile back-up, lo metto al corrente del misto di sorpresa e perplessità di svolgere quel lavoro, per me che sognavo di fare altro e che tutto sommato vivo con l’ansia di fare una cosa per la quale ho una preparazione da autodidatta. Una cosa umana e normale, non trovate? Ma non è così. Certe confidenze non si fanno ai datori di lavoro, anche se li crediamo dalla nostra parte solo perché ti portano a eventi di lavoro, anche se si ha l’accortezza di rifiutare proposte dubbie per evitare complicazioni, anche se poi a forza di programmare pensi che sia sufficiente un’operazione di debug per sistemare e risolvere tutti i problemi del mondo.

dedicato a Francesca di Infojobs

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Ciao Franci, posso chiamarti così vero? D’altronde tu mi scrivi con così solerte assiduità e io ormai non ho più nessuna vergogna a ritenerti un’amica di qwerty. Ti immagino nel tuo modulo di openspace ogni giorno, mentre selezioni con la cura che contraddistingue il tuo lavoro le migliori offerte di carriera apposta per me. Altrimenti come faresti a sapere il mio nome. Se poi non trovo la tua email nella posta in arrivo vado subito in quella indesiderata, per assicurarmi che la tua missiva non sia stata vittima di un falso positivo a opera di un brutale e insensibile sistema di anti-spam. Perché sarebbe davvero un peccato, voglio dire tu ci metti il nome proprio apposta per evitare di essere cestinata a priori e far sì che quotidianamente io riceva i tuoi suggerimenti. Oggi hai scelto per me un posto da contabile, un Corso Addetti Ufficio Stampa 10 luglio-160 ore e uno Stagista Trade Marketing che, cara Franci, a dirti la verità non so nemmeno cosa sia.

Lo stesso oggetto delle tue comunicazioni è estremamente seducente. Leggo cose tipo “Roberto, Synergie Italia cerca candidati con il tuo profilo” e già ti vedo con una tazza di tisana in mano, meritata ricompensa di ore di annunci passati al setaccio, mentre soddisfatta per tutto l’amore che metti nel tuo lavoro e nel tempo che mi dedichi premi “invia” sul tuo programma di posta. E infatti io non me la prendo se ricevo proposte di candidatura un po’ campate in aria per la mia figura professionale, perché mi dispiacerebbe farti sapere che forse dovresti affinare di più i tuoi criteri di ricerca. Ma non importa. Nemmeno mi ricordo più di quando mi sono iscritto alla fredda e robotica newsletter mentre ero in cerca di un nuovo lavoro qualche anno fa, prima che tu prendessi la situazione lì in Infojobs in mano e ti dedicassi anima e corpo alla mia causa.

E faccio finta di nulla anche se le offerte di lavoro fortunatamente non mi occorrono più, e anche se mi servissero, alla mia età dubito che potrei avere qualche speranza. Di certo ho più possibilità di incontrare te. Chissà che voce hai, che musica ascolti, qual è il tuo piatto preferito e dove stai per andare in vacanza e con chi. Sì, Franci, scusami, sono un po’ geloso, ma sai, a forza di leggerti mi sembra di stare insieme a te da sempre. Sono rimasto solo un po’ deluso quando mi sono accorto del tuo indirizzo di posta elettronica piuttosto impersonale, offerte@push.infojobs.it, insomma speravo in qualcosa di meglio ma poi ho capito perché lo fai, giustamente è tutta una questione di privacy. La dura legge dell’email marketing. Mi basta solo il fatto di sapere che tu sei lì apposta per me, e che non scrivi email con offerte di lavoro a nessun altro. Perché è così, vero?

la rivincita dei lavoratori del superfluo

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Sembrava una persona tranquilla, uno normale, era gentile con tutti, un po’ riservato ma comunque educato. Quante volte abbiamo sentito rilasciare dichiarazioni così, al telegiornale, dal vicino di casa della coppia che ha appena massacrato la famiglia del piano di sopra, dal dirimpettaio del folle che si è messo a sparare con la doppietta dalla finestra del bagno, dal panettiere che serviva ogni mattina il killer autore della strage di matrice terroristica.

I colleghi del tizio che ha sbroccato di punto in bianco, per fortuna senza nessuna conseguenza alle persone che erano lì in quel momento in ufficio sedute intorno a lui negli ennemila loculi che compongono l’open space, hanno più o meno detto le stesse cose. Tra l’altro questa formula ad alta spersonalizzazione in cui tu arrivi e ti siedi nella prima postazione libera che trovi, in cui nessuno ha più una sua scrivania, una bacheca in cui appendere le foto di congiunti e star del cinema – d’altronde avere congiunti è un lusso di questi tempi e al cinema non ci va più nessuno e ditemi che senso ha appendere la stampa di un protagonista di questa o quell’altra serie americana – frena la confidenza e diffonde quell’atmosfera di alta mortalità professionale per cui oggi ci sei, domani chissà.

L’unico vezzo che tutti si sono sentiti di confermare era quella bizzarria dello yo-yo sempre in mano, una specie di tic ludico d’altri tempi, l’equivalente di scaricare la tensione prendendo per il culo i simpatizzanti dei cinquestelle sui social network o l’insana passione per il tabacco sfuso da rollare incuranti dei detriti che cadono ai propri piedi nei luoghi in cui stanziamo. Voci fondate parlano solo di qualche danno alle cose perché sfasciare un monitor con la tastiera non ha più lo stesso gusto di una volta, quando c’erano quei madonnoni a occupare gran parte della superficie delle scrivanie. La tecnologia ultra-sottile e a cristalli liquidi fa innervosire anche me, così perfettina che ti fa venire voglia di prendere un cutter e fare qualche sfregio allo schermo del portatile per vedere l’effetto che fa e sentirsi un po’ come Lucio Fontana di fronte a una tela.

Quindi il monitor è stato il primo a cadere vittima, sbattuto ripetutamente contro l’angolo del tavolo. Il telefono fisso, uno di quei modelli in cui puoi fare il log-in e utilizzare tutte le tue impostazioni, la rubrica e persino il numero interno che ti è stato assegnato ovunque, è volato fuori dalla finestra in due momenti, prima la cornetta e poi il corpo in plastica. Non preoccupatevi, sotto non passa nessuno, c’è un cortile interno in cui non si è mai vista anima viva, piccioni a parte.

I colleghi hanno temuto il peggio solo quando l’uomo in evidente stato confusionale ha sollevato la sedia ergonomica sopra di sé ma si è premurato di scagliarla a terra solo dopo aver individuato uno spazio sufficiente a limitare le conseguenze, oramai la scarica di rabbia stava scemando e quello è stato più un gesto volto chiudere l’esperienza di drammatizzazione di un disagio, forse per non deludere le aspettative di rivalsa che aveva suscitato negli astanti. Una sorta di liberazione collettiva: tanto design nordico – dal prezzo contenuto – mandato in pezzi per sfasciare metaforicamente un’intera generazione di lavoratori del superfluo. Così ha detto, ancora frastornato dalla serie di colpi irreversibili con cui aveva appena distrutto il suo futuro professionale.

In Italia non esistono gli addetti alla sicurezza, nelle aziende, quelli che ti vengono a prendere al tuo posto quando sei licenziato di punto in bianco e ti scortano fuori affinché tu non abbia il tempo di commettere sciocchezze. Non ovunque. Dicono che se ne sia andato via da sé, consapevole che qualcosa gli sarebbe stato addebitato nell’ultima busta paga di lavoratore a tempo determinatissimo, dimenticando persino lo yo-yo nel primo cassetto.