partigiano tenta di scambiare un prigioniero con un compagno per farsi giustizia da sé: guarda come va a finire

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Oggi che è il 25 aprile vi invito a partecipare a una delle numerose celebrazioni della Resistenza, ma prima vi segnalo un’iniziativa che ho scoperto solo ieri e che trovo geniale. Si chiama “Clicca il classico”, se avete Facebook la trovate qui, ed è un’idea di Raffaele Alberto Ventura, alias Escathon, il blog di cultura e filosofia che spero seguiate anche voi. L’idea di “Clicca il classico” esemplifica perfettamente quello che è di noi e della nostra società digitale, dove il messaggio non è nemmeno più il mezzo ma è la piattaforma che attira l’interazione dell’utente allo scopo di generare traffico e, conseguentemente, guadagno. Non so se ve ne siete accorti ma c’è pure un moVimento politico che maschera queste dinamiche due punto zero sotto forma di partecipazione e militanza, ma oggi che il pensiero sembra essere più che unico guai a farvelo notare. I titoli dei classici della letteratura resi in forma di strillo da phishing di attenzione collettiva (Letteratura virale – GARANTITO SENZA SPOILER) fa sorridere amaramente perché questo è ciò a cui siamo destinati. Vi consiglio di sfogliarle tutte, quelle copertine tradotte in clicbait. Ci sono anche alcuni commenti che suggeriscono la traduzione virale di altri titoli, un po’ come il mio tentativo che leggete qui sopra. A proposito, avete capito di che romanzo si tratta?

ero in ansia perché avevo in programma una trasferta di lavoro. A Busto Arsizio.

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Ero in ansia perché avevo in programma una trasferta di lavoro. A Busto Arsizio. “Copriti”, si è levata una voce famigliare dai commenti di risposta del mio pubblico dei socialini. Ma non era quello l’unico dei segnali premonitori. Per adeguarmi a certi trend dell’hipsteria cosmica, avevo iniziato a seguire su Instagram un paio di pornostar perché riconosciute universalmente dal panorama underground come dei must-have, sapete come funziona. Certe cose sono talmente estreme per certi stereotipi da una parte che fanno il giro e diventano moda per quelli all’opposto, è successo per Bombolo, gli 883 e persino per i reality show solo perché c’è il vizio di commentarli in diretta su Twitter. Comunque stavo affrontando il lungo viaggio di trenta minuti in direzione di Busto Arsizio e sentivo i segnali a ripetizione sullo smartcoso, quegli effetti sonori che ti possono portare dalle stelle alle stalle avvisandoti che stai avendo successo o, agli antipodi, che c’è il tuo responsabile che ti deve cazziare per qualcosa. È il bello del calderone dell’Internet, in cui vita privata e professionale fanno comunella per metterti il più possibile nella bratta, come si dice a Genova per dire nella melma. Comunque tutta questa sequenza di segnali poi ho scoperto che erano pornostar di seconda o terza categoria, quelle che altrove chiameremmo in altro modo, che dichiaravano di volermi seguire su Instagram come se il fatto che fossi un intellettuale che apprezza l’approccio di gente come Valentina Nappi o Stoya ai socialcosi venisse frainteso come un desiderio di soddisfacimento del proprio autoerotismo qualunque. Ma il problema di consultare il telefono mentre guidi è all’ordine del giorno sulle pagine di cronaca dei quotidani, gente che spippola su Facebook e poi si stampa sui veicoli in coda al casello. Bene, in quel frangente io per poco non ho centrato un carro attrezzi con targa rumena che si inseriva – pur con un senso del codice della strada arbitrario – nella coda a cui ormai mi ero assuefatto e arreso, alle porte di Milano. Un carro attrezzi rumeno che trasportava una berlina incidentata e senza targa, ma quasi certamente rumena, con tanto di autista rumeno che mi ha guardato alquanto contrariato malgrado per tutti fosse venerdì pomeriggio. Rumeni o meno (stavo per scrivere rumeni che menano) di questi tempi in macchina è meglio starsene belli schisci e umili al proprio posto, dietro il volante. Sorridere e far passare, tanto, per qualche metro di strada in più o in meno, non cambia nulla, questo a prescindere dal fatto che la presenza di pornostar su Instagram distrae mentre sei al volante.

vuoi più bene alla Pasta Rummo o a Pasolini?

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Vuoi più bene alla Pasta Rummo o a Pasolini? Il mare magnum dell’informazione su Facebook, in cui l’ennesimo ricordo del quarantennale della sua uccisione sta una riga sotto alla gif animata di Venusia che spara le sue tette al nemico e una riga sopra di uno strascico di Halloween della notte prima, non è o almeno non dovrebbe essere la prima volta che ci fa riflettere. Se è informazione, ma davvero ci piace informarci così? O se invece di entertainment si tratta, ci diverte davvero? Se la risposta è sì, vai all’ultima riga. Se la risposta e no, c’è da chiedersi se sbagliamo noi a illuderci che Facebook sia una meta-blog in cui convergono le opinioni e contenuti di persone interessanti quando invece le persone in questione sono la vicina di casa, il collega scoreggione, l’amico delle elementari, la cugina di secondo grado che a malapena ti ricordi che faccia abbia e che quindi lo stream delle cose che leggiamo sono i loro punti di vista. O sbagliamo noi a credere che Facebook sia la vita, la realtà, in cui si convince il prossimo, gli si fa cambiare idea, lo si imbarca in battaglie ideologiche e lo si coinvolge in campagne che salveranno il mondo, daranno una svolta a questo paese, indurranno multinazionali a non vendere più carne rossa, leggeranno il nostro blog, faranno cambiare idea al papa, al presidente, al re o al sindaco? Possiamo osservarci già intorno per capire se ci sono gli effetti dell’acriticità con cui pensiamo, ci esprimiamo, leggiamo, condividiamo. Possiamo soprattutto osservarlo su Facebook e l’occasione di certo non manca. Non credo che ripetere mille volte le stesse cose consenta di produrre materiale utile a ergere, come castori dell’Internet, robuste dighe utili a contenere le piene di modernità liquida che – come abbiamo provato sulla nostra esperienza – basta un evento particolare a provocare esondazioni e annegare migliaia di persone al giorno. Succede con quella cazzo di carne cancerogena come con la medaglia d’oro del rugbista neozelandese che sembra aver lo stesso peso dei matrimoni gay e della pasta Rummo per non parlare degli ulivi, il compleanno di Bud Spencer, Ritorno al Futuro e Pasolini. Ma fino a ieri dov’erano tutte le vostre belle citazioni di Pasolini? E i marò? Pensate a tutti i contenuti e le considerazioni che si vedono passare in un numero di volte direttamente proporzionale alla quantità di contatti – magari anche quelli sinceri – che avete su Facebook sia nella loro versione originale, cioè lo stesso articolo che si ripropone come una peperonata mangiata a mezzanotte, sia nelle opinioni genuine e rispettabili la cui sovraesposizione però, come potete immaginare, alla lunga rompe il cazzo. Riusciamo persino a renderci invise cose come la commemorazione di uno dei più importanti intellettuali della seconda metà del novecento. Ma è rimasto qualcosa di sacro a parte l’osso? Il problema non è Facebook ma siamo noi. Andiamocene. (questa era l’ultima riga)

devono essere popolarissime a scuola, le vostre figlie

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C’era un libro che è transitato in casa dalla biblioteca tra gli ennemila che ho letto a mia figlia prima che cominciasse a trascorrere il tempo a dedicarcisi in autonomia che trattava proprio di questo. Di questo cosa, chiederete voi. Leggete tra le righe delle righe sopra. Detta così ho concentrato in un passaggio alcuni concetti che ci tenevo a trasferirvi, ovvero: ho portato spesso mia figlia in biblioteca, ho passato pomeriggi interi a raccontarle storie con i libri al contrario in modo che potesse vedere sia le illustrazioni che abituarsi a riconoscere le lettere e le parole, a mia figlia piace leggere e ha cominciato molto presto. Quindi alla fine quando si tratta di figli anche ai più moderati come me parte l’embolo della competizione e non ce n’è per nessuno, perché la competitività a cui ci induce la prole altro non è che compiacersi di quanto siamo stati bravi a passar loro i geni giusti e poi a instradarli verso le cose che danno più soddisfazioni per cui il merito è tutto nostro. E questo desiderio di redenzione che mi ha improvvisamente colpito, questa voglia di espiare il peccato che sto per raccontare è forse a sua volta una manifestazione di orgoglio paterno, e forse anticipare una fuoriuscita di orgoglio paterno è a sua volta un modo per mettere le mani avanti e dichiarare la consapevolezza delle potenzialità di mia figlia, e forse ammettere è a un livello superiore un modo per comunicare di sentirsi fortunati e se però vado ancora indietro arrivo nell’iperuranio quindi basta e procediamo con i nudi fatti. Secondo voi un padre ex musicista, oggettivamente competente e dagli ottimi gusti in materia che soddisfazione può trarre se la sua amata undicenne gli chiede di mettere i Nirvana? Il mio ego è tracimato fin su Facebook in cui ho raccontato con una battuta l’aneddoto in questione mettendola però su un piano auto-ironico. Ma sapete come sono i genitori. Al mio status “le parole più belle non sono ti amo ma papà metti i Nirvana” si è scatenata una gara tra padri a chi ha il figlio con i gusti più affini a quelli dei genitori, senza contare che avrei preferito se avesse chiesto un disco di David Bowie o dei Cure ma comunque con i Nirvana, considerando la musica di merda che ascolta, è tutto grasso che cola. Bene. Il primo è uscito commentando che sua figlia gli chiede i Kraftwerk (certo virgola certo) mentre l’altro ha tirato in ballo il solito Mozart che i luoghi più comunissimi sulla psicologia infantile vogliono come fondamentale per sviluppare l’intelligenza dei piccoli addirittura sin dalla pancia. Quindi a fare la gara con la mia piccola fan del grunge c’è una che ascolta un quartetto di ingegneri di Dusseldorf ormai in pensione che salgono sul palco con altrettanti laptop, schiacciano play e poi stanno lì davanti a migliaia di persone che hanno pagato fior di quattrini per sentire della musica registrata, e una che alle medie chiede un compositore di musica classica. Io volevo scrivere in calce a questo contest che la dice lunga sulla genitorialità alle nostre latitudini una cosa tipo “devono essere popolarissime a scuola, le vostre figlie”, ma mia moglie non ha voluto.

la sera, quando non riesco a dormire, leggo qualcuno dei vostri post su LinkedIn

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Scherzo eh, sia sul fatto che li leggo e non è vero che non ho rispetto per come vivete i socialcosi. Quelle citazioni internettiane tipo “se il lavoro è la tua vita è perché hai una vita di merda” sicuramente sono esagerate, sta di fatto che legare un ambiente così cialtronesco come il duepuntozero con il lavoro a me riesce ancora difficile, mi piace affacciarmi qui e là con l’uso disinvolto della lingua italiana, sfoggiare un italiano e una punteggiatura a cazzo e linkare i contenuti senza badare con un po’ di presunzione a come la sfera professionale della mia vita si infiltra nella mia privacy e, chi la abita, che cosa ne penserà. LinkedIn è fatto apposta per chi non riesce a staccare dall’ufficio e in certi ambienti si dice anche che consenta di fare affari, stringere accordi, aumentare profitti e cercare lavoro. Io non so voi, ma quando accendo l’Internet mi piace fare zapping con quel disimpegno di quando da ragazzini facevamo merenda davanti alla tv dopo i compiti, vi ricordate? Quando mi capita di affacciarmi su LinkedIn mi sembra di sentire l’odore dell’arredo color noce scuro delle scrivanie dei manager con le foto dei figli e della moglie, i badge degli eventi appesi con il nastro alle targhe ricordo, le lavagne con i numeri semi-cancellati, le macchinette del caffè con i maschi sposati che ci provano con le colleghe più giovani, i completi business e i garage gremiti di station wagon aziendali. Poi dò un’occhiata davvero alla home e vedo lì i vostri post pubblicati alle dieci di sera, e penso che io a quell’ora probabilmente stavo convincendo mia figlia a fare la cartella e coricarsi, ma proprio per il rispetto che ho nei vostri confronti cerco di farmeli piacere lo stesso perché forse, chissà, un giorno saperne di più sugli argomenti che mettete lì in modo che qualcuno possa interessarsi a quello che producono le società in cui lavorate potrebbe tornarmi utile. Non è che li trovo noiosi, eh, è che leggo una riga, due, ma poi improvvisamente mi addorm

in morte di FF

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Il conto alla rovescia è partito: il 9 aprile prossimo venturo una mano ingrata abbasserà la leva, spegnerà l’interruttore, manderà in esecuzione un bel format c o semplicemente staccherà la spina al FriendFeed, il migliore dei mondi sociali sull’Internet possibili. Se non siete tra i frequentatori, il FriendFeed – o confidenzialmente Frenfi – è (anzi, a breve “era”) un social network di quelli vecchio stile, austero e senza tanti optional, l’evoluzione dei primi centri di aggregazione per malati di rete che avevano spostato sul web sociopatici, cuori solitari, avventurieri, curiosi, nerd, timidi e superdotati di ego, proprio come nelle mailing list di fine secolo scorso, se siete della mia generazione. Nato come concentratore di contenuti provenienti da altre piattaforme, a seguito principalmente di un ammutinamento della comunità italiana il Frenfi si è autoproclamato libera comunità di pensatori e cazzari, più cazzari che pensatori, un coacervo anarcoide di personalità sempre pronte a far comunella, percularsi o litigherellare all’insegna dei più disparati argomenti di conversazione, dalla filosofia pura alla pasta alla carbonara, in un mix di boutade, quotidianità, pics di tette e membri maschili, autoritratti, politica, bestemmie e nonsense. Si erano già verificati malfunzionamenti e indisponibilità dei servizi, e il fatto stesso che nessuno – dall’acquisizione da parte di Facebook – si preoccupasse di aggiornarne l’interfaccia o aggiungere funzionalità aveva alimentato il sospetto che il socialino più coinvolgente sul mercato avesse i giorni contati. Fino alla doccia fredda di un paio di giorni fa, con il comunicato ufficiale dell’interruzione delle trasmissioni. Notificata la data di morte i più hanno gettato la maschera e la privacy di nomignoli astrusi – plus1gmt è forse uno dei meno ostici – e si sono precipitati allo scoperto, divulgando identità e contatti per non perdersi di vista con i sodali di tante battaglie contro la mancanza di gusto, il grillismo e le destre più o meno collaterali, l’omeopatia, l’ingenuità degli utenti dei socialcosi più blasonati e molto altro. Come un popolo vittima di una diaspora, gli utenti del Frenfi hanno già occupato spazi alternativi anche sull’odiato regno di Zuckerberg, e sono pronti a ricompattarsi per ricostituire un centro sociale con le stesse caratteristiche di quello dal quale stanno per essere sgomberati. Sul Frenfi ho conosciuto e imparato ad apprezzare persone – o presunte tali – che al di qua dello schermo davvero non mi era mai capitato di incontrare. Non so dirvi il perché, magari conta il fatto che a forza di omologare il linguaggio, le dinamiche di gruppo e le modalità relazionali alla fine si inizia a non poter fare a meno gli uni degli altri. O forse anche questa è amicizia, ma solo il fatto che si consumi tra le pagine dinamiche dell’Internet difficilmente ne riusciamo ad ammettere la veridicità. Vi direi di provare a iscrivervi per l’ultimo mese in cui il Frenfi sarà in vita, ma pare che il sistema sia già stato bloccato. Pazienza, sarà per la prossima vita, o per il prossimo socialcoso. Ciao o, anzi, come si diceva sul Frenfi, Giao. O, anche, ultimamente, Ciaone.

3 mesi di emozioni premium a soli €0,99. Goditi un’intera stagione di sensazioni offline e senza pubblicità

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Il vantaggio del sistema emotivo standard va quindi identificato nella possibilità di avere a disposizione una library condivisa alla quale attingere ogni volta in cui ne sentiamo il bisogno. Questo consente l’ottimizzazione delle risorse che, erogate via web, ci permettono di liberare spazio dentro di noi da dedicare a quello che ci pare. Per lo più ricordi e cose di tutti i giorni. Per i non addetti ai lavori, l’esempio da tenere in considerazione è quello della musica. Anziché occupare memoria di pc, tablet e smartphone con i file delle canzoni, è sufficiente richiamarli dal cloud ogni volta che vogliamo attraverso la nostra connessione wireless o telefonica di nuova generazione. La differenza è che, nel caso degli stati d’animo, al momento non è previsto un servizio a pagamento premium, pro o de luxe, quindi già nel contratto base c’è davvero ampia disponibilità di materiali. Ma i meno ottimisti – o quelli più soggetti al fascino dei complotti – già hanno fiutato l’ennesima truffa ai danni dei consumatori. Perché sprecare energie e tempo a gestire anche le emozioni più rare, quelle di nicchia, quelle meno commerciali, quelle che riguardano la minoranza ad alta sensibilità? Perché non lavorare solo sugli aggiornamenti delle emozioni mainstream, magari facendole anche più ampie in modo da accontentare una massa di individui sempre più corposa e da favorire il riconoscimento a questo o quel modo di sentire generalizzato con più facilità? Si finirà con avere un monopolio anche in questo settore così delicato? Facciamo un esempio. Riflettere su cosa saremo tra dieci anni, nel caso di un utente finale quasi cinquantenne, comporta vibrazioni abbastanza similari al ricordo di quello che si provava a distanza di uno stesso lasso di tempo in precedenza, trascorrendo un pomeriggio estivo sotto le frasche di ferragosto. In un futuro prossimo, l’emozione provata sarà la stessa, priva delle sfumature accessorie: l’abbandonare le membra a una proiezione futura del sé sempre più ridotta per ragioni anagrafiche, da una parte, la stessa cosa ma con l’errata consapevolezza che le cose non hanno una fine né uno scopo dall’altra.

hanno licenziato Francesca di Infojobs?

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Mi spiace rovinarvi la festa nel pieno del dibattito sul Jobs Act e proprio oggi in cui i primi due decreti attuativi della riforma del lavoro voluta dal governo Renzi entrano in vigore. Vi sarete accorti anche voi che, come me, siete iscritti alle ennemila newsletter dedicate alle offerte professionali, che le comunicazioni da Infojobs da qualche settimana non arrivano più a nome della nostra cara Francesca, la specialista in risorse umane che selezionava apposta per noi gli annunci più in linea con il nostro expertise. Il suo è stato un addio sottovoce in linea con il suo stile sobrio, io non me ne ero nemmeno accorto tale era il suo modo discreto di ricordarci con una cadenza ben precisa che là fuori c’è tutto un mondo di opportunità che sta solo a noi cogliere. Ora è evidente tutta la freddezza e l’acriticità di un sistema automatico che raccoglie manciate di segnalazioni e le getta a pioggia sulle tonnellate di iscritti che ogni giorno spera che sia la volta buona. Quando c’era Francesca invece, lo sapete meglio di me, era tutto diverso. Francesca di Infojobs per noi era un vero e proprio personal trainer per affrontare la solitudine della precarietà nell’ambiente virtuale dell’Internet, sordo e di gomma in risposta alle nostre preghiere di trovare uno straccio di occupazione più di una divinità qualunque. Francesca di Infojobs era la coscienza duepuntozero che ci ricordava, ogni giorno, ogni settimana, che è un nostro dovere migliorarci, non accontentarci, cambiare le nostre vite, dare il massimo. Mi sono anche chiesto se sia un problema solo mio, magari Francesca è ancora nel team di Infojobs ma ha smesso di scrivere solo a me, c’è un motivo personale che in questo momento mi sfugge. Ho cliccato su troppi annunci di Monster? Mi sono fatto ammaliare da qualcuno di CVEngine? Sono ormai entrato nel loop del sistema delle raccomandazioni a cazzo di Linkedin che danno l’illusione che basta che tizio dica che sai scrivere dei testi per spalancarti le porte del successo? No. Se è così, cara Francesca, ti prego di perdonarmi. E anche se è stata una tua decisione, quella di abbandonare Infojobs, ti prego di farci avere tue notizie. Qui dentro hai davvero decine di migliaia di sostenitori che sono pronti a seguirti ovunque. Anche se andassi su Experteer, che diciamocelo, è veramente un sito per ricerca lavoro di merda. Da questo blog, ancora una volta, lancio un appello solo per te, Francesca di Infojobs. Ti prego, Franci, ritorna.

qual è l’ultimo libro che hai letto

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“Qual è l’ultimo libro che hai letto” è una domanda che non dovete più porre ai candidati che si presentano ai colloqui per non rovinare tutto, avere brutte sorprese e diminuire ulteriormente la possibilità di trovare figure adatte al profilo ricercato. Facile che vi sentiate rispondere cose come “da qualche anno leggo Facebook, ho alcuni contatti che scrivono status davvero illuminanti”. Non si spiegherebbe l’assiduità con cui passiamo il tempo con gli occhi puntati sui nostri cosi intelligenti, forse perché ne invidiamo la superiorità. Per lo meno la memoria, no? E come si fa a spiegare che no, tra un romanzo di Tizio Caio e una jpeg sull’amicizia con cuori, gattini e bimbi in fasce che nemmeno un incrocio tra Anne Geddes, Baricco, Jovanotti e i disegni di Love is… c’è un discreto gap culturale, e anche se non sono io a decidere cos’è bello e cos’è brutto l’evidenza è sotto gli occhi di tutti. E attenzione, che poi vi trovate a lavorare con gente che non capisci cosa dice ma non perché sono stranieri ma semplicemente sono semi-analfabeti. Sono giunto alla conclusione che questa sia una delle principali difficoltà dell’imprenditoria, e cioè trovare personale che non dev’essere per forza Umberto Eco ma almeno gente in grado di spiegarsi. Altro che stabilire se e come fare investimenti, quanto riservare per sé e quanto concentrare sulla propria azienda, quando e se è il momento di dividere gli utili o mollare il colpo, che non vuol dire necessariamente suicidarsi per la crisi. Cari dirigenti d’azienda (così ha scritto sulla carta d’identità quel poco di buono di mio cognato) sappiate che io non farei mai il vostro mestiere, di contro voi cominciate a prendere un po’ di dimestichezza con la letteratura, così vi sarà anche più semplice familiarizzare con lo storytelling di cui vi riempite la bocca con i vostri clienti. Quando mi capita di vedere frasi sottolineate a cazzo nei libri che prendo in prestito in biblioteca, al di là del fatto che non bisognerebbe sottolineare testi che sono patrimonio comune ma vabbe’, dicevo che quando mi capita di leggere frasi sottolineate a cazzo nei libri che prendo in prestito in biblioteca penso che magari è uno di voi poco avvezzo con la narrativa che vede cose in certi passaggi che per noi sono del tutto ininfluenti ai fini della trama o dello stile dell’autore. Questo per dire che c’è sempre da imparare. Ma, amici miei, dai vostri contatti Facebook cosa pensate di apprendere? Che ne sarà del genere umano dopo un secolo di status e di tweet? Cosa penseranno i posteri di quelli che pubblicano le foto in cui sembra che reggano la torre di Pisa o stringano il sole tra le dita della mano? Quante cose mancano ancora all’appello prima che si esauriscano le citazioni e cali il silenzio sui nostri socialcosi? Ecco, per mettervi in pace con il mondo del duepuntozero provate solo a osservare le persone che usano i dispositivi portatili per scrivere mail che, sbirciandone il contenuto, sembrano incomprensibili perché magari invece sono semplici appunti e magari vi trovate a vostra insaputa proprio dietro a un blogger che, appena potrà, si burlerà di voi al mondo intero, o almeno ai suoi venticinque lettori, partendo da quella base rubata al vostro chiacchiericcio.

che faremo quando finiranno i nomi

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Il limite dell’informatica è l’univocità, nel senso che non ci possono essere due cose uguali a meno che una si chiami “fotodelmiogatto.jpg” e la sua copia “fotodelmiogatto copia.jpg”, appunto. Ora la questione non ve la sto a spiegare ma avete capito che cosa intendo. Lo stesso criterio va applicato all’Internet con la questione dei domini. Adesso non so come sia la normativa a proposito e quindi se uno occupasse il dominio www.fiat.it – Sergio sto facendo un esempio, senza rancore eh – perché è più sveglio e lesto dell’incaricato della Fiat, poi non è che la Fiat può avere un altro dominio www.fiat.it. Che, se proprio proprio vogliamo vedere, mi sembra un peccato. Basta mettere un accrocchio che quando uno digita www.fiat.it gli compaiono in una pagina tutti i risultati (“intendevi la nota fabbrica di automobili? Intendevi il sito di plus1gmt dedicato al congiuntivo del verbo latino fio?”), certo questo rallenta un po’ la ricerca ma del resto, diciamocelo, siamo sempre sull’Internet a cazzeggiare, che cosa saranno mai venti secondi in più per aggiungere un passaggio? Scompagina un po’ anche tutto quello che abbiamo inventato sugli algoritmi usati dai motori di ricerca, ma quelli di Google hanno abbastanza soldi per mettere a punto qualche modifica. E ancora, analogamente, la cosa vale per le caselle di posta. Esiste solo un indirizzo plus1gmt at gmail punto com, per dire, e chi arriva tardi male alloggia. Pensate che qualcuno si è accaparrato tutte le caselle di posta con titolocanzonedeiCure@gmail.com, dove con titolocanzonedeiCure intendo ovviamente un qualsiasi brano della band di Robert Smith. C’è qualche folle che nella smania di fare incetta di opportunità ci ha dato dentro togliendo spazio a chi magari poi di un indirizzo come 1015saturdaynight@gmail.com ne ha davvero bisogno, e c’è qualche altro folle come il sottoscritto che è andato a controllare.

Ora che avete afferrato il quadro, converrete con me che giorno dopo giorno è sempre più difficile trovare nomi, pensare titoli, costruire frasi ad effetto, cercare ragioni sociali appropriate per iniziative che siano ancora patrimonio intellettuale di qualcuno o qualcosa. Se fate quindi un lavoro come il mio e magari vi viene chiesto di trovare un bel nome per una campagna o un prodotto, ogni volta in cui viene in mente qualcosa è bene andare su Google e cercare se effettivamente è originale, se il dominio è libero e così via. Vi assicuro che è un bel casino, perché se in Internet ci sono svariati miliardi di utenti vuol dire che ci sono anche svariate centinaia di milioni di persone che caricano contenuti di ogni tipo, ed è pur vero che se magari trovate una cosa simile a quella a cui avete pensato voi pubblicata nel 2003 su un sito peruviano, potete permettervi di ricicciarla tanto difficilmente sarete sottoposti alla resa dei conti, ma malgrado ciò si tratta di un’impresa sempre più difficile. Questo per dire che per arrivare alla scelta di un nome un po’ meh come verybello probabilmente i creativi di Franceschini davvero avranno passato in rassegna tonnellate di idee tutte purtroppo già esistenti. So già che mi direte che una cosa come una vetrina culturale per l’Italia in occasione di Expo dovrebbe certo avere più dignità di qualunque altro progetto. Ma provateci voi a essere più fighi, o provate a convincere – per farvi un esempio – quelli che hanno occupato il dominio thegreatbeauty.it e lagrandebellezza.it (per sfruttare magari il film di Sorrentino a fini pubblicitari) per una roba che non c’entra un cazzo, o meglio centra ma si parla di prodotti di bellezza, ecco provate a convincerli a mettere a disposizione il loro spazio – sto facendo sempre un esempio, provate a farlo con qualsiasi altro nome occupato – per un’iniziativa più utile per la comunità e per il paese.

Verybello fa davvero verycagare, ma davvero i nomi sono quasi finiti tutti. Se vi serve plus1gmt per un’iniziativa per il bene comune, fatevi sotto. Ma so già che è un nome talmente brutto che non se lo prenderebbe nessuno.