due nuove canzoni dei blur

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e

una delle cime più alte dell’Islanda

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Ma a voi non vi irritano alcune scelte nelle canzoni, per esempio suoni che non ci azzeccano e che vi rovinano l’atmosfera, o la batteria che non entra mai e non fa decollare il pezzo oppure entra a sproposito e lo appiattisce, o ancora strutture discutibili con parti asimmetriche che sbilanciano l’ascolto, o simmetriche che invece gli danno la forma del cremino, uno strato in un modo poi quello in un altro poi torna il primo strato eccetera eccetera? Si tratta di una percezione totalmente soggettiva, lo ammetto, e anche piuttosto nerd. Ma ci sono casi che mi urtano perché riguardano brani a cui sono molto legato e che ascolto sempre con enorme piacere, ma poi arrivo in quel punto in cui avrei fatto diversamente e mi rammarico del fatto che il gruppo non mi abbia consultato, in fase di produzione, per sfruttare il mio fiuto in ambito musicale. E che fiuto, direte voi.

Prendete “Svefn G Englar” dei Sigur Ros, per esempio, un brano la cui fruizione è fortemente condizionata dall’attesa del cambio che, nel video qui sotto, trovate a 6:15 circa, un’apertura che ogni volta mi ribalta ma che dura pochissimo, il tempo di un solo giro di accordi, e che mi lascia quella sensazione di inappagamento perché vorrei che si ripetesse almeno altre sette volte a completare una voglia che definirei di geometria emotiva e completezza armonica. Ma l’unicità di quel frammento, direte voi, è proprio il bello del pezzo, un climax che si erge per pochi secondi proprio per farci beare di tutto il resto. Per lasciarci ammirare una vetta da lontano, che si scala e si scende solo per la vertigine dell’altezza. Sarà davvero così?

anche se non piove

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Uno di quei dischi che sconvolgono la vita per una serie di motivi che non riesci a descrivere, magari sono davvero dei capolavori o invece sono semplicemente album usciti al momento giusto che per qualche motivo diventano colonna sonora di un qualcosa, anche di negativo, uno di quei dischi lì che nel mio caso è anche realmente una pietra miliare è uscito dieci anni fa, nel 2002 mese più mese meno (è stato pubblicato il 14 gennaio). In realtà ricordavo male, ero convinto fosse uscito a fine 2001. Ma non ero molto presente, in quel periodo di grandi cambiamenti. E oggi l’ho riascoltato in perfetto mood domenicale e ho appurato che Neon Golden conserva inalterato il suo potere di sconvolgere le cose. D’improvviso diventa tutto velato ma non è che speri torni sereno, scopri che è meglio così. Tutto nuvoloso.

more blur, come in photoshop

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E per celebrare l’evento, che chissà se avrà un seguito, stamattina sono uscito così, in pieno clima 90’s. Uno dei tre cd è “artificiale”, dai uno su tre è una buona media, indovinate quale.

brit post

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Toh, i Blur, ai Brit Awards 2012.

ma io lo so chi è mark lanegan, quello che fa i pezzi con gli unkle

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prova questi

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Solo due righe per mettervi al corrente del fatto che negli ultimi cinque o sei anni ho consigliato i The National a un po’ di persone, amici e conoscenti di ogni tipo, e ho sempre fatto una gran bella figura. In almeno tre casi documentabili la band è schizzata direttamente al primo posto delle classifiche individuali di costoro. Ti piace vincere facile, mi direte. Ma non ne sono mica convinto, cioè comunque non sono proprio così immediati da assimilare; malgrado il sound molto rassicurante, l’impressione che ho è che il loro modo di scavare dentro metta a disagio chi è disposto solo a un ascolto superficiale. Li ritengo piuttosto ingombranti, ecco, lasciano poco spazio in un momento in cui siamo più inclini alla quantità di ascolti a causa della sovraproduzione musicale a cui ci esponiamo. E la gente pensa: ma cosa vogliono questi americani che cercano di scendere così a fondo? Non c’è tempo per questo genere di emozioni. Mi fermo qui, per risparmiarvi anche l’ennesimo tributo ai dischi in vinile in onore degli antichi e della loro tecnologia antidiluviana. In attesa che esca il nuovo album presto, magari proprio nel corso di quest’anno, metto sul piatto un disco a caso e ascolto questa.

il centouno modello

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Come tutti voi saprete già, la rivista Rolling Stone per festeggiare i 100 numeri ha pubblicato la classifica dei 100 migliori album di musica italiana dalla nascita del rock ad oggi, un’impresa di per sé estremamente complessa, se non impossibile, come tutte le altre liste simili e le top metteteilnumerochevolete di ogni sorta. In questo caso, poi, la classifica non è stata stilata dai giornalisti che vi scrivono, bensì da un gruppo di giurati trasversale. Quindi non si tratta nemmeno dell’espressione di una redazione, piuttosto vorrebbe essere il più vicino possibile a un ipotetico suffragio nazionale.

Per prima cosa, lasciatemi dire, sono rimasto allibito dal non essere stato interpellato tra i giurati, pur avendone pieno diritto in quanto persona più informata in ambito musicale che io conosca. A parte questo, voglio dire, potrebbe anche essere l’ennesimo malfunzionamento delle Poste italiane, la top one hundred in questione presenta due vergognose lacune, che gli organizzatori dell’iniziativa fanno addirittura rientrare nei criteri di base. Intanto, la scelta dei giurati. Ad alcuni di questi individui non chiederei nemmeno che ore sono, figuriamoci considerarli opinion leader in ambito musicale. In secondo luogo, il veto a indicare più di un album per artista o gruppo, stesso criterio utilizzato per stilare l’elenco finale. Potete immaginare il motivo del mio disappunto, ma vi dico lo stesso che solo la discografia di gente del calibro dei CCCP o dello stesso De Andrè, tanto per esercitare la mia consueta volontà di raccogliere consensi e clic ubiquamente, occuperebbe una larga percentuale delle prime 30 posizioni.

Ma, considerando il coraggio con cui la rivista si è esposta, e l’intelligente idea di creare addirittura una e-mail manonavetemesso@eccetera per tenere viva la discussione, malgrado i grandi assenti e i monotoni bamboccioni sfigati e raccomandati che occupano immeritatamente alte posizioni, tutto sommato possiamo anche promuovere l’iniziativa solo a condizione che mi sia concesso non (badate bene) di preparare la mia personale lista anche solo in un moderatissimo ordine alfabetico dei nonsoancoraachenumeroarrivo dischi italiani di cui non si può fare a meno, perché mi ci vorrebbero mesi, magari inizio ora e ci vediamo questa primavera. No, semplicemente lasciatemi postare qui sotto una canzone molto interessante di un gruppo da cui mi aspettavo tanto ma che in realtà, pubblicato l’ep che conteneva il brano in questione, puff, è sparito nel nulla. Alla posizione centouno ecco a voi i Petrol, che, se ci sono, che battano un colpo.

questione di genere

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Tenete conto che mentre impazzava il grunge, noi addetti alle macchine elettroniche dotate di tasti bianchi e neri eravamo i meno richiesti, anzi sembrava che nessuno sentisse la nostra mancanza. Giusto qualche esagitato metallaro con tendenze industrial o i punk dal rumorismo incontrollato ci consentivano di amplificare sampler e tastiere. I primi solamente se in grado di riprodurre trapani, trivelle e noise delle peggiori nefandezze, i secondi solo se intercettati da un distorsore. Un gran bordello insomma. Così, dalla nostra lontana colonia di esilio, salutammo con un anelito di speranza l’uscita di Blue Lines dei Massive Attack, ancora molto acerbo e troppo in anticipo sui tempi tanto da essere considerato né più né meno di un album di pop dance raffinato. Unfinished Sympathy, pensata per i club, passava alla grande in discoteca, non in tutte, ma la voce soul e il loop breakbeat non sembravano certo il primo passo verso uno dei generi più caratterizzanti degli anni 90 passato alla storia come trip hop, di cui di questi tempi si celebra il ventennale. Da Bristol questo mix di un po’ di tutto si svilupperà in molteplici sottogeneri ed evoluzioni, si unirà ad altri sound, percorrerà strade e spopolerà ovunque. Lo troveremo dall’India al Brasile, dal Belgio al Canada sino all’Africa e all’Italia, addirittura cantato in dialetto. Insomma, per chiudere come farebbe un vero giornalista musicale, venti anni e non li dimostra. Lunga vita al trip hop, abbiamo detto qualche anno dopo quanto è stato coniato il termine. Oggettivamente, noi addetti alle macchine non ci siamo mai divertiti così tanto.

ops, volevo dire:

wilco the sailor man

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Il nuovo video di Wilco con Braccio di Ferro e tutto il suo entourage è carino, il pezzo lo conoscete, immagino, per cui su Dawned On Me non mi pronuncio, tanto non riuscirei a essere oggettivo.