la signora Anna ha avuto qualche problema con gli infissi

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Parlare delle cose è bello ma è difficile e bisogna essere capaci. Occorre trovare i più appropriati aggettivi qualificativi perché ce n’è sempre almeno uno perfetto per quello scopo ma difficilmente ti viene a supporto quando ti sforzi a cercarlo. Ho appena terminato un libro, per dire, in cui nella quarta di copertina qualcuno lo ha definito “sfacciato” e vi assicuro che non potrebbe esistere termine più adatto. Sfacciato rivolto al libro, non all’autore. Pensavo proprio a quel tipo di valutazione ma, nella mia pochezza lessicale, ero ancora in alto mare alle prese con locuzioni e giri di parole tanto inutilmente prolisse quanto poco efficaci. Pensare alla sfacciataggine di un romanzo non è da tutti e dovreste ammetterlo. Ma non è stato per caso che ne ho suggerito la lettura alla signora Anna che è una vedova di 89 anni lucida e consapevole della sua età così sfacciata. La signora Anna ha avuto qualche problema con gli infissi, questo è quello che mi sembra di aver capito. Le si è rotta una delle finestre della sua villetta a schiera. Il serramentista gli ha consigliato di sostituirla tanto oggi è possibile detrarre le spese sostenute per interventi finalizzati al risparmio energetico con una percentuale ripetuta lungo un periodo di dieci anni. Considerate come questo lasso di tempo abbia fatto riflettere la nostra amica così avanti con l’età.

“Giovanotto”, ce la immaginiamo rivolgersi così al serramentista, “giovanotto la vedo ottimista ma dubito che camperò abbastanza per godermi tutti i vantaggi di questa agevolazione”. Peccato non fossi stato lì perché avrei ricordato alla signora Anna il caso della sua conoscente e concittadina che ha stabilito un record di longevità mondiale. Da queste parti si tira per le lunghe, non so se rendo l’idea e se si tratti di una coincidenza o cosa, ma non vi nascondo che questa peculiarità spero si estenda anche a quelli che vivono qui da tempo, pur non essendoci nati, proprio come me. Stiamo parlando di fattori ambientali – siamo in una delle zone più industrializzate dell’Europa – oppure è una questione genetica? Magari entrambi, chissà. Comunque alla signora Anna è stato proposto di pagare in nero tutto e subito in cambio di un consistente sconto. Ha così riparato la finestra rotta e ha pure risparmiato, e tutto ciò non sarebbe mai stato possibile se il nostro amico serramentista non si fosse dimostrato così sfacciato come quel libro che spero la signora Anna legga, prima o poi.

le dimensioni contano, soprattutto quelle parallele

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È successo pochissime volte, non più di tre o quattro, per questo lo considero pari a un miracolo e ricordo di aver forzato più volte la possibilità che accadesse nuovamente. Ma gli eventi straordinari non si manifestano, giustamente, a richiesta, altrimenti non sarebbero tali. Mi mettevo al telefono e alzavo all’improvviso la cornetta sperando che si verificasse di nuovo. Piombare in conversazioni altrui per qualche combinazione fortuita che non sapevo spiegare se non come una deviazione della tecnologia, le macchine che impazziscono come nel mondo dei robot di Yul Brynner. Si tratta della cosa che più rappresenta il concetto di interferenza. Una coppia di anziani che chiacchiera e io che non posso fare a meno di fare qualche verso, lei che si domanda cosa possa essere e lui che non capisce ma c’è il nipote che guarda un cartone di Lupo de Lupis alla tv, forse è quello. Rientrano nella stessa categoria le voci nei dispositivi elettrici percepibili avvicinando l’orecchio per scoprire che forse si tratta di programmi radiofonici, e le Brigate Rosse che si sovrappongono al tg nazionale della RAI, roba da Orson Welles. Ma c’è un tipo di interferenza che, secondo me, le batte tutte. Verso le sei e qualcosa di sera, quando rientro dal lavoro sul passante ferroviario e lotto tra la veglia e il sonno scorrendo con fatica le pagine del libro in lettura. Un’ora critica nella mia giornata da sempre, potrei addormentarmi ovunque e indipendentemente da che cosa sto facendo. Quando la forza di volontà è più agguerrita e lotto con le palpebre e la testa che tende a cadere, in quella zona grigia tra la coscienza e l’incoscienza, attraverso quella patina di confine in cui le molecole di consapevolezza evaporano in oblio sotto i raggi del torpore, ecco galleggiare la superficie zuccherata di un bignè, le foglie di un albero di noce in estate, piccolissimi dettagli dal passato remoto come fotogrammi subliminali. Ma anche odori, gusti, suoni, voci di cui avevo smarrito il ricordo. Che non si capisce mai se siano veri, inventati, frutto delle fantasie, segnali di turbe, rumori di fondo. Di certo è la cosa che più si avvicina all’idea di vedere com’è dall’altra parte, dentro, dietro, tutto quello che è fuori dalla nostra portata. E non capita sempre, è una sensazione che non si può forzare, ma quando succede mi sembra di esser piombato in mezzo a una conversazione con qualcuno che non mi appartiene più. E un po’ mi spiace, quando poi mi sveglio del tutto, dover tornare indietro.

ma poi, questo Carrà, era un pittore famoso?

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Sarebbe meraviglioso non avere tutte queste lacune in materie come storia dell’arte, perché poi vai a ritroso e ti ricordi di quando se ne approfittavano tutti di quella che era la cenerentola delle materie, bistrattata quasi peggio che educazione civica o musica, con insegnanti sempre i più bohemienne che non ci voleva nulla per strappargli una sufficienza risicata. Che ignoranti. Noi, dico. Io per primo. Metti una classe di adolescenti in una visita guidata a un museo e ti rendi conto di quanto sia tempo perso. E se già allora ascoltare in piedi la guida era solo lo scotto da pagare per qualche giorno di emancipazione e di concessioni, posso immaginare ora con gli auricolari piantati nelle orecchie e gli status da aggiornare con adeguata costanza. In entrambi i casi poi solo chi sente una profonda inclinazione per la pittura ha la costanza di ripartire da capo, con le incisioni rupestri fino a Cattelan o giù di lì. Tutti gli altri, me in testa, si sono arrabattati con gli approfondimenti fai da te. Qualche personale, le mostre più blasonate, il sentito dire o le lezioni gratuite in tv di gente del calibro di Daverio. Ma nulla di tutto questo ci mette nella condizione di distinguere chi, sostando dinanzi a un’opera di arte moderna o contemporanea, commenta a cazzo oppure no ma comunque sempre a voce alta, impattando sull’esperienza del visitatore che magari ci capirà anche poco ma preferisce viversi la metafisica altrui in santa pace. E se al cinema il silenzio è un dovere, non vero perché no al cospetto di quest’arte altrettanto visiva. Perché che importa se non ne so nulla, ma di fronte a un’oggettiva scomposizione della realtà, la sua soggettiva ricomposizione ci sta tutta. Rimettere insieme pezzi dell’interpretazione di una giornata qualunque in Piazza del Duomo e farne un’istantanea a proprio consumo. Giocare con gli -ismi degli altri ti fa sentire un disegnatore cad che sposta vertici con il mouse e mette in pericolo la stabilità di progetti la cui efficacia è data per scontato. Così è facile irrompere con interventi definitivi, tipo “questo l’ho già visto al Mart” o “questo alla Galleria d’Arte Moderna di Roma” o, il poker d’assi, “questo era al Guggenheim di New York in una mostra sul Novecento europeo”. Perché il resto, tutto appartenente a collezioni private, lascia sbigottiti. Voglio dire, c’è qualcuno che ha “La stazione di Milano” in salotto. Si sveglia di notte per fare pipì, passa nel soggiorno, accende la luce e può dare un’occhiata a “Penelope“. Ecco, sapere che c’è chi ha nel suo conto corrente il settordicimila per cento della ricchezza mondiale non mi altera quanto chi custodisce entro una proprietà privata cose che dovrebbero essere di patrimonio comune e visibili liberamente a tutti, in qualunque momento. Evitando così di costringere la gente come me a mettersi in casa le riproduzioni di Magritte e Chagall perché già dentro alle cornici acquistate all’Ikea. Mi piacerebbe usare il corretto termine per questa figura retorica, che non è il paradosso ma non mi ricordo, probabilmente oltre alla Storia dell’Arte mi mancano anche dei pezzi di Italiano. Nel mio piccolo ho appeso in salotto un dipinto di un pittore sconosciuto se non per essere stato un disegnatore di Diabolik che ho ereditato da mia zia, che è stata l’unica in famiglia ad avere un po’ di gusto in questo senso. Era lei che mi ha raccontato di un artista genovese che in estate soggiornava nella casa di campagna in cui era cresciuta, e che ha ritratto molti soggetti prendendo ispirazione da quell’ambiente bucolico e rurale. Le mucche nella stalla. I contadini nei campi sotto il sole, e lui all’ombra a dipingere con tela e tavolozza sotto il grande noce. L’arte e la vita di tutti i giorni, l’artista e gli individui normali. Quelli che pongono domande come quella in evidenza nel titolo di questo post (giuro che l’ho percepita con queste mie smisurate orecchie) abituati a sentire parlare di Carrà e di Morandi solo per le loro partecipazioni a Canzonissima, e che quindi è meglio che i quadri se ne stiano nelle ville con i dobermann, quelle di chi ha gli strumenti per goderseli.

Comunque, la mostra di Carrà alla Fondazione Ferrero di Alba è davvero imperdibile, anzi sbrigatevi perché chiude il 27 gennaio. E, soprattutto, è gratis.

grazie per farmi sentire parte di tutto questo

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variazioni altimetriche urbane: un’infografica

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in erba

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Il pomeriggio trascorso al saggio di una scuola di musica nell’attesa della performance di mia nipote che se l’è cavata egregiamente al piano è servito per riconfermarmi il concetto che i genitori dovrebbero accorgersi in tempo quando la loro prole non ci azzecca per nulla con l’hobby che hanno designato per occupare il loro tempo libero. Violinisti fuori tono, batteristi fuori tempo si sono alternati nell’esecuzione dei loro compitini che è chiaro, a ragazzini delle medie non si può chiedere più di tanto. Ma se uno è portato lo si capisce già nei primi anni di studio, e gli insegnanti (come gli allenatori) dovrebbero mettere le famiglie di fronte ai limiti dei loro figli. Tutto così, fino a quando un tizio smilzo e dinoccolato di 12 anni si è seduto al pianoforte e ci ha lasciato di gesso suonando Maple Leaf Rag in versione integrale e non facilitata. Chapeau.

politiche familiari

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Ci sono i dialoghi che si fanno solo al sabato mattina tra moglie e marito quando l’atmosfera è perfetta per lasciarsi crogiolare nella sicurezza del primo giorno festivo, consapevoli che ce n’è ancora uno dopo. Che poi è il ragionamento che facciamo tutti, per illuderci che quei due giorni che l’economia ormai ci ha persuaso essere meri separatori della settimana lavorativa siano tre o quattro. Fuori è tutto grigio, sul piatto (per modo di dire) c’è l’ultimo dei Sigur Ros, la bambina si gode ancora il sonno del primo giorno di vacanza, e entrambi conveniamo che quando si parla di tutela della famiglia, al di là della sua composizione, quando si pensa alle agevolazioni economiche per ogni figlio, quando si dice che è bene incentivare i giovani a rendersi indipendenti e a creare la propria, si sposta il vero nocciolo della questione: uno sceglie con la massima accuratezza la persona con cui passare la propria vita e poi è costretto a trascorrere otto ore al giorno per cinque giorni alla settimana con gente di cui non gliene frega un cazzo. Per non parlare dei contratti del commercio e della babele di turni degli esercizi commerciali, quelli che il sabato e la domenica se la passano dietro una cassa con la pistola RFID in mano. Il fatto è, e credo di interpretare i desideri di molti, che non vogliamo più soldi, non vogliamo incentivi e non vogliamo agevolazioni, tantomeno recuperi. Vogliamo solo più tempo da trascorrere insieme, più mattine da dedicarci, più pomeriggi per giocare con i nostri figli, più serate per vedere film insieme senza l’assillo del doversi svegliare alle sei la mattina seguente per andare in ufficio. E fa sorridere l’enfasi delle iniziative istituzionali dedicate alla cura dei nuclei famigliari, quelli che si chiamano pure “family day” come se il giorno per noi e i nostri cari fosse una sorta di animale in via d’estinzione. Il giorno della famiglia, o della coppia in tutte le sue varianti, il giorno da trascorrere con chi amiamo dovrebbe essere ogni giorno in cui ne abbiamo bisogno. Che la sostenibilità parta da qui, da questo divano, dall’armonia tra noi e i nostri simili. Un programma così vincerebbe qualunque elezione.

da urlo

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Che bello i ragazzini che si chiamano a voce alta da una parte all’altra della strada, cose che poi cresci e non le fai più perché ci si deve dare un tono, non è buona educazione gridare così in pubblico e un po’ ci si imbarazza nel richiamare così l’attenzione. Mentre quando di anni ne hai pochi in buona sostanza nemmeno te ne sbatti, proprio non ti poni il problema. Vedi l’amico cinquanta o centro metri davanti a te che ha già attraversato la strada ma nel frattempo scatta il rosso e il traffico dell’ora di punta – tutti che vanno a scuola e al lavoro – e così sei costretto a stare fermo sulla punta dei piedi pronto a scattare alla prima possibilità di avere il passaggio pedonale sgombro che non arriva mai. Così stringi gli occhi come a mettere a fuoco meglio il destinatario del richiamo e gridi il suo nome a voce alta, mentre tutti ti guardano ma non vedi nessuno. Si forma un’onda sonora che travolge i passanti, le bici legate ai pali, i cani al guinzaglio e le cartacce già spinte dal vento, oltrepassi la barriera di auricolari e la musica che iniettano nella memoria dell’amico che si gira e si toglie le cuffie con un solo movimento. Da lì parte il feedback, il segnale di ritorno, un raggio lanciato dal sorriso dell’amicizia, la corsia preferenziale e sgombera che accelera al massimo la congiunzione tra palpiti, qualche secondo e i due sono vicini e da lì in poi la strada da fare sarà la stessa per entrambi. Dicevo che poi cresci e non chiami più gli amici ad alta voce da una parte all’altra della strada. Un po’ ti vergogni, un po’ perché il sentimento è stemperato e incontrarne uno per strada è davvero una coincidenza impossibile e poi di spalle sono tutti uguali, magari non è nemmeno lui.

lessico famigliare

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Non ho nulla da eccepire riguardo la tua famiglia. Solo, non comprendo questo tuo insopprimibile bisogno di contrapporla, ad ogni costo, alla mia.

cantargliene quattro, anzi quarantamila

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La vendetta corale della società democratica e civile nei confronti di Anders Breivik, il folle integralista autore della strage di Utoya, è una forma geniale di rappresaglia, perché è allo stesso tempo bizzarra, demenziale, infantile e titanica. Decine di migliaia di persone che gli recano fastidio a suon di decibel, una forma di violenza da Blues Brothers, mi verrebbe da dire, come lanciarsi il cibo in bocca a distanza per far inorridire il tavolo vicino. Qui ci si vuole prender gioco con una canzone che ha un significato di pace e di uguaglianza, ed è una moltitudine inimmaginabile che annienta un individuo con l’arma più diversa che c’è rispetto a quella con cui l’individuo ha annientato una moltitudine. È l’evoluzione della risata che vi seppellirà, ed è il mio sogno di rivalsa da sempre. Raccogliere altrettanta gente, anzi di più, e andare tutti insieme nei posti in cui c’è bisogno, nei luoghi in cui si combatte, dove regna l’ingiustizia, dove è palese l’intolleranza, e mettersi a cantare a squarciagola le parole che più possono mettere a disagio e vedere poi l’effetto che fa. E, chissà perché (ma lo so il perché) se dovessi scegliere una canzone da cantare insieme a un milione di persone contemporaneamente per causare un po’ di mal di testa da queste parti, non ho nessun dubbio su quale sceglierei.