tv on the radio in a movie

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“If you grow up in a DIY culture you can get it together and make something. If you have a pen and a piece of paper and a stapler you can make a book. If you have a copying machine you can be a publisher.

Un video fatto in casa per ogni traccia del nuovo album Nine types of light, in uscita domani: in un’intervista sul NYT il making of del nuovo lavoro, qui sotto, da youtube, il film.

alle 00.05 circa

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Due veloci battute musicali, direttamente da Pitchfork (e perdonate la audioschizofrenia). La precedenza la mio lato mistico: i Sigur Ros hanno pubblicato un po’ di materiale inedito su Soundcloud, tra cui questa versione demo dell’incantevole “svefn-g-englar”

Niente male, vero? Nove minuti di viaggio. Ma ora sveglia, tornate sulla terra. Il mio lato tamarro mi spinge a segnalare l’imminente ritorno dei Beastie Boys, e dal momento che il singolo che anticipa l’album è stato cancellato da youtube, accontentiamoci di questa versione di “So what’cha want”, eseguita live con i Roots. Notate il basso tuba, da quando lo visto lo voglio anch’io nel mio prossimo gruppo. Yo!

una vipera sarò

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Parliamo di punti deboli, i talloni d’achille, quei lati sconosciuti e tenuti ben nascosti che dimostrano che nessuno è inespugnabile. Ogni fortezza ha una sua entrata di (in)sicurezza mal presidiata, una backdoor da cui non è difficile penetrare con un cavallo di troia e fare piazza pulita. Basta con le metafore. Conoscete qualche persona davvero cool, alternativa, tosta, tutta d’un pezzo al 100%? Io no. E spero che siate concordi. Vi faccio un paio di esempi per arrivare al punto, cioè il mio, anzi, uno dei miei punti deboli, un lato sul quale potrete attaccarmi quando accuserò questo e quello di essere commerciale, di ascoltare musica di m****, di riempirsi l’ipod di fuffa. Lo trovate in fondo a questo post. Ma non andate subito a scoprire la soluzione, non rovinate tutto con la vostra curiosità.

Prendiamo M.L, mia cara amica ex collega, che so ogni tanto sfogliare queste pagine xhtml, che anzi colgo l’occasione per salutare. Una tipa intelligentissima, anticipatrice di trend di Internet e web marketing, così di nicchia che quasi non si vede, web copy e creatività da vendere, esperta di SEO e SEM, sta leggendo Franzen in inglese, segue da vicino gruppi musicali molto cerebrali come eildentroeilfuorieilbox84, roba da palati altro che fini. Bene, l’ho vista con questi miei occhi cadere su ben 3 punti, il primo dei quali ha un nome e cognome, Fabio Volo, il secondo un nick che si porta dietro da 25 anni circa, Jovanotti, e il terzo descrivibile tramite una locuzione, ovvero quel cinema italiano un po’ malinconico e romantico con attori del calibro, della drammaticità e della forza interpretativa di Accorsi e Scamarcio. Gasp.

O prendiamo M., un grafico dall’aspetto cattivissimo e gotico, vestito spesso in borchie e pelle nera, che ai tempi in cui lo frequentavo si riempiva la bocca di amenità industrial, che ti stordiva a suon di Ministry, Nine Inch Nails, Cop Shoot Cop, Carcass eccetera, l’electro-metal-punk più estremo e distruttivo. Beh, tempo dopo scoprii che aveva una side molto più dark. Era anche un sorcino sfegatato, un isterico fan di Renato Zero. Tutta la discografia, poster, articoli, vuaccaesse delle sue apparizioni televisive, comprese le imbarazzanti performance in qualità di conduttore da prime time di rete ammiraglia al sabato sera. Viva la rai. Provate a toccargli Renato Zero, e vedrete la riga di eyeliner nero con cui si contorna gli occhi anche per andare in ufficio assumere l’inclinazione parallela al più cattivo sguardo di minaccia.

Ed eccoci arrivati al punto. Quello debole e mio. Nulla di che, di certo non rivelo qui le mie più sconcertanti perversioni melodiche, come il tempo dedicato ad ascoltare senza interruzione “Il mare immenso” di Giusy Ferreri, ma solo perché prodotto da Marco Trentacoste, mica mi metto ad ascoltare quella roba lì da Sanremo, sia chiaro. Mi riferisco alla chicca da mangiadischi che trovate qui sotto e che considero un capolavoro. Fase 1: decontestualizzatela e provate a non pensare al nome di chi la canta, chiudete gli occhi e concentratevi su:
– il tempo di batteria, che potrebbe essere tranquillamente un loop campionato da Fat Boy Slim, tanto da rendere il pezzo in questione degno di una selecta big beat delle più danzerecce
– l’arrangiamento della sezione fiati, ricco e perfettamente in risposta con il cantato
– il cantato stesso, la potenza vocale di questa esecuzione

Fase 2: ora contestualizzatela e prestate attenzione alle liriche, passaggi quali “Quel prato di periferia ti ha visto tante volte mia, è troppo tempo che non sa dov’è la mia felicità”, ingenua poesia in rima a cavallo tra la presa d’atto dell’industralizzazione, l’urbanizzazione seguita al boom economico, il tessuto sociale in forte cambiamento, la tensione politica dei tempi, i sentimenti di una volta, le età della vita che si susseguono in bianco e nero. Una sorta di via Gluck dove però non si gioca a pallone, bensì si va in camporella e si sta al sicuro, perché si tratta di banlieue semi-rurali che non esistono più, spinte chilometri lontano dalle nostre case fino a fondersi con i sobborghi delle città limitrofe, tanto da costituire una unica immensa area metropolitana.

Ora aprite gli occhi e gustatevi con me, direttamente da Canzonissima 69, questa spettacolare interpretazione di Massimo Ranieri, uno dei miei pezzi preferiti di sempre. Signore e signori, “Se bruciasse la città”.

mi viene voglia di cambiare il cognome

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Scusa Francesco, sono ancora in tempo per gli auguri? Allora te li faccio con il pezzo di De Gregori che preferisco. Non è certo uno dei più celebri, raramente si trovava nei karaoke e nelle scalette dei pianisti di pianobar, il motivo per cui, dopo anni di servizio, ancora oggi le pagine chiare e le pagine scure mi fanno venire in mente le coppiette imbellettate nei sabati sera al bar di provincia, laddove la musica è solo un ingrediente in più del cocktail da finire prima di andare in disco. E, ti dirò, io che a voi cantautori non vi ascoltavo molto, quando eravate sulla cresta dell’onda, perché obnubilato (a volte a ragione) di lacca e di esterofilia post-punk, ho iniziato la fase di riconciliazione con l’italianità del songwriting quando eravate già in declino, un po’ demodè. E ho fatto mio al primo ascolto questo pezzo, per la sua atmosfera di spalle rivolte al mondo, una mattina pochi mesi prima della laurea, in totale confusione sulla mia vita e su quella che si muoveva intorno a me, un groviglio di individui indistinti. Un grande pezzo con un grande assolo di chitarra, almeno in questa versione live, di un De Gregori un po’ rocker.

same as it ever was

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Prendete me, per esempio. Da una parte compulsivamente e ossessivamente addicted alla musica pop-rock, dall’altra strenuamente legato al secolo breve, quello scorso, magari concedendo le attenuanti al decennio successivo al 91, prolungando i limiti cronologici stabiliti, una sorta di interregno, una fase di passaggio di consegne al secolo attuale, che sembra essere fin troppo duraturo. E in tutto questo tempo mi sono sentito orgogliosamente (poi la pianto lì con gli avverbi) beato di essere cresciuto in una fase che, pur povera politicamente e socialmente (ops), in piena curva di riflusso, già pregna di presagi di quanto sarebbe potuto accadere oggi, ha avuto molto da dare.

Avete capito a cosa mi riferisco, vero? Da circa 10 anni è un piacere poter cogliere echi, citazioni, plagi e cover di materiale sonoro dei bei tempi andati. Un’attività fine a se stessa? Sì, diamine, ma allo stesso tempo è una discreta soddisfazione poter pensare (magari senza ostentare troppo, per non sembrare antipatico) che nulla di quanto ci riempie la bocca e gli ipod oggi sia così originale quanto, in maniera oggettiva – e non ci sono ca**i – ciò che è stato prodotto in musica dal 77 in poi, almeno fino alla moda del remake di quanto prodotto in musica dal 77 in poi. Ma, in generale, è bello aver ragione.

E, dal 2001 ad oggi, ne abbiamo viste di tutti i colori, anche se l’estetica di riferimento è più che altro in bianco e nero. Ed è tutta roba da cui non mi dissocio, anzi. Almeno tre o quattro che cantano come Ian Curtis, o almeno che hanno iniziato citando indiscutibilmente i Joy Division giusto per farsi notare, per poi magari elaborare qualcosa di originale. Per non parlare degli Smiths, un riferimento oggi molto diffuso sia nello stile che nel songwriting. Anche i Cure, provate a sentire questi. C’è stato pure un mica tanto velato omaggio ai Police, o band che addirittura ci ricordano episodi meno conosciuti, che so, Lloyd Cole and the Commotions e gli Heaven 17. O i recentissimi The Mirror, impossibile non cogliere il riferimento a Architecture & Morality degli OMD. Infine, anche se non finisce qui, i gruppi in cui c’è un po’ di tutto questo mescolato e personalizzato, su tutti i casi più eclatanti: Interpol, Editors, Bloc Party, Killers. Che magari, nelle interviste, si scherniscono anche, e con la scusa dei dati anagrafici ti dicono che è impossibile, che negli ottanta non erano ancori nati o se lo erano ascoltavano musica per bambini. Ma che c’entra, suvvia.

C’è però un gruppo che è stato talmente avanti, ai tempi, che nessuno ha dimostrato di saper copiare così spudoratamente. Perché in realtà, un po’ l’inconfondibile timbro del loro cantante, un po’ i suoni in genere, hanno un tratto talmente definito che non puoi assomigliare superficialmente a loro. Ci sono tracce ovunque, punto e basta. Sono stati piuttosto eclettici. Sono stati i più innovativi, diventando immediatamente, con il loro primo LP uscito nel 77 e che così si intitola, una delle band di maggior culto di tutti i tempi. Li ritrovate presenti in molti booklet, tra i ringraziamenti, come i principali ispiratori. Sono nominati spesso nelle categorie di riferimento utilizzate nelle recensioni. Compaiono come guest nelle nuove produzioni discografiche. È stata una delle più importanti band sotto tutti i punti di vista. Avrete capito che the name of this band is Talking Heads.

Su tutti, c’è un documento, la testimonianza di un concerto, un evento alla memoria del quale, ad aver la fortuna di avervi partecipato, si potrebbe attingere, per ricavare materiale da raccontare e mettere a disposizione di figli e nipoti, per anni e anni. Lo si trova facilmente su youtube e ci riguarda da vicino, perché si tratta di un loro live registrato al Palaeur di Roma nel 1980 e trasmesso dalla RAI (quanto ci manca il servizio pubblico inteso in quel modo). Sentite la musica, guardateli suonare, guardate le loro espressioni mentre eseguono i pezzi, e  provate anche ad osservare le facce del pubblico, volti tipici dell’epoca, umanità che non esiste più. Ma, soprattutto, pensate un po’: un gruppo che può permettersi di aprire un concerto con un brano come Psycho Killer.

un po’ di cose a casacci

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Avere un gruppo rock, in Italia, è quasi più complicato che organizzarsi in un partito politico. (Apro una parentesi: rock in senso lato, diciamo dai Negramaro – esclusi – in giù. Focalizziamoci più sul termine “gruppo” che sul genere. Chiudo la parentesi). Non mi credete? Ah no? La prima similitudine che mi viene in mente, a proposito, riguarda la fatica con cui si dilapidano energie nel trovare leader carismatici per riportare i cittadini alle urne, quando sarebbe molto più semplice e immediato (nonché intellettualmente onesto) proporre un programma, tot punti e obiettivi da raggiungere, e poi chi se ne importa di chi c’è in parlamento a seguirne il compimento. Invece no. Dobbiamo fare primarie, trovare quello che sa comunicare bene, quello che piace tanto alla casalinga di Voghera quanto al cassaintegrato di Pomigliano eccetera eccetera. Un ticket, come si dice, o un un team di attuazione sarebbe difficile da sintetizzare per essere portato efficacemente al pubblico elettorale italiano.

Nel rock non avviene la stessa cosa? Chi siede da almeno due decenni sugli scranni più alti dell’olimpo del rock nazionale, se non due uomini forti – mi riferisco a Vasco e Ligabue -, mentre ai gruppi rimangono solo le briciole? Che poi, detto tra noi, altro non sono che due tradizionalissimi cantautori, ora attempati, che hanno condito i loro brani con riff di chitarra elettrica. Voglio dire, non è che ci siamo così tanto evoluti dal songwriting specifico nostro, ammesso di considerare l’evoluzione un processo positivo. E quando parlo di gruppo rock non è che mi riferisco ai Pooh, per carità. Ora, non dico i Beatles, ma almeno un omologo di band come, che so, i REM, giusto i primi che mi vengono in mente. Niente. I gruppi rock, in Italia, si formano, magari iniziano ad avere successo e poi il cantante lascia la band per la più fruttuosa carriera solista, magari infilandoci – per arrotondare – l’attività di giudice nei reality musicali. Oppure, vedi che fai tutto tu, testi e musica e arrangiamenti, e allora che senso ha tenerti zavorre di strumentisti fissi quando, a chiamata, puoi risparmiare con i turnisti che più si addicono al momento, liberandoti così anche dai vincoli compositivi. Anche i duo si separano perché litigano, figuriamoci band di quattro o più elementi.

Non solo. I gruppi rock devono fare i conti anche il forte handicap linguistico. L’italiano sta al rock come il tedesco sta alle ninne-nanne. Ecco, forse da questo punto di vista solo i tedeschi stanno messi peggio di noi. Perché gli inglesi hanno quella bella lingua sintetica, verbi monosillabici e una marea di preposizioni per significati all’infinito, parole tronche contro i nostri mostri bisdruccioli. Questo costituisce un annoso problema per i gruppi di base, quelli underground. Cantare in inglese o in italiano? Usare la logica del “the cat is on the table” così nessuno riesce a capire che non ho nulla da comunicare, o azzardare la stesura di liriche quindi mettendo me stesso in gioco sotto due punti di vista, quello di musicista e quello di paroliere? Ragazzi, il rock è anche questo. E poi, c’è bisogno di cambiare accordo ogni battuta? E di pronunciare le consonanti per forza come Bowie? No, non ci siamo. Fare rock è davvero difficile, e farlo in gruppo, anche se divertente, alla lunga è frustrante.

Arrivo al punto (era ora!), il pippotto che avete letto fin qui non è fine a se stesso. C’è un ma. Che è un gruppo, italiano, di cinque elementi, in attività dal 1996 o giù di lì. Una band alla quale sono affezionato, li ho visti nascere, crescere, ho assistito a uno dei loro primi concerti (se non il primo in assoluto, almeno fuori dalla loro città di origine). Si sono formati dallo spin off di uno dei principali collettivi reggae italiani, oserei dire l’unico: il chitarrista, che è poi la mente della band in questione, decise di voltare pagina. Un istrionico cantante con cui suonavo, ai tempi, si stava facendo produrre alcuni brani dal chitarrista di cui sopra, affiancato in studio da un geniale tastierista malato di synth e di macchine automatiche. Oltreché di idee e creatività. L’istrionico cantante mi mise al corrente del nuovo progetto del chitarrista di cui sopra con il geniale tastierista, e già il nome mi incuriosì. Da allora, da quando ho iniziato a seguirli, hanno pubblicato 6 dischi e hanno fatto una marea di concerti: pur avendo un sound ricercato con un intensivo quanto appropriato uso dell’elettronica, il live resta la loro dimensione più immediata, grazie al frontman, simpatico-carino-intelligente-piùomenointonato, e all’impatto sul pubblico. Il pubblico è un altro elemento fondamentale della loro storia, e non solo perché comprano o scaricano la loro musica. Il rapporto coi fan, nato sotto il palco, è stato per tutti questi anni coltivato sul web, un diario di bordo curato con una costanza encomiabile, roba che nemmeno Beppe Grillo. Si tratta di uno spazio dove poi, alla fine e come su tutti i blog (tranne questo) si interviene a parlare di tutto. Non mancano le critiche, e se avete ascoltato l’ultimo loro CD, uscito qualche giorno fa, ai malumori di un pubblico abituato ad essere sempre servito e riverito hanno dedicato pure un brano. Il pubblico, dicevo. Mi ha sempre colpito la trasversalità degli ascoltatori che hanno, un obiettivo raggiunto grazie alla potenziale ubiquità delle loro canzoni, che possono passare a Sanremo come su Radio Popolare, a radio Italia come su radio Deejay. Un po’ rock, un po’ club culture, un pizzico di reggae, canzone d’autore, echi degli anni ’80, big beat, pop, insomma, un po’ di tutto. I ruoli stessi nella formazione, poi, sono uno spaccato di eterogeneità: c’è il figo, l’intellettuale, il leader, quello un po’ tamarro e il nerd. E i testi, pur non immediati come quelli di Vasco e Liga, sono accessibili e fluidi, diretti ma poetici, un mix di linguaggio di strada e citazioni colte.

Ma, lo sapete meglio di me, il mercato del rock, in Italia è quello che è, e le due presenze ingombranti a cui ho fatto riferimento lo occupano ormai da troppo. I numeri della band in questione, in termini di vendita di dischi e biglietti, non sono paragonabili a quelli di Vasco e Liga. Fino ad oggi sono stati ampiamente sottovalutati, considerati di nicchia (una nicchia da un sold-out e mezzo al Forum di Assago), osteggiati dai duri e puri perché commerciali e allo stesso tempo bollati come alternativi e scomodi dai giovani assuefatti dal morbo veltroniano, altre volte identificati nei gruppi demagorock da concertone del Primo Maggio, più comunemente ritenuti troppo difficili da associare ad una categoria di itunes da chi mastica il pop più melenso. In un paese di loquaci critici musicali e recensori iconoclasti secondo quantità e convenienza, i Subsonica avranno una vera e meritata fama solo intorno ai 55/60 anni. Ma non c’è da preoccuparsi: guardate Little Tony, è ancora il ragazzo col ciuffo di una volta.

p.s. non credete a chi sostiene che Eden non vale una cicca: è un gran bel disco, fidatevi.
Rock’n’Roll è partecipazione” (G.Gaber).

postumi di una serata malincognac

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buongiorno tristezza

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La massa del nostro pianeta potrebbe essere tranquillamente riempita da tutta la discografia in mp3, in formato anche dignitoso, che so, 160 kbps, di tutti i gruppi deprimenti della storia della musica deprimente. E, badate bene, io potrei essere il presidente onorario del club della depressione sonora. Fin dai tempi dell’infanzia, quando la mia ipersensibilità mi faceva piangere sulla melodia a 45 giri di Gianni Morandi, mentre prometteva ai suoi figli di riempire la roulotte di animali di pelouche, piuttosto che far loro sopportare la solitudine di una casa vuota. Quello sì che era un papà forte. Anche il mio lo era, anche se mi costringeva a curvare la schiena sul pianoforte condannandomi a una scogliosi da cui non mi sarei mai più ripreso.

Dicevamo? Ah, sì, i gruppi deprimenti per depressi cronici. Li ho passati tutti, dai Joy Division a roba tipo questa qui. Immaginiamo ora una rappresentazione grafica della depressione sonora. Una piramide, il vertice della quale è occupato dal gruppo più cult di tutti i gruppi cult: i Radiohead. Ecco. Io ascolto tutto, in quella piramide, tranne il vertice. Io i Radiohead li ho amati, fino a Ok Computer. Da lì in poi, non me ne vogliate, mi hanno sempre fatto c****e. Non so spiegarvi il perché. Non li trovo nemmeno particolarmente difficili, e non lo faccio neppure perché sono snob e non voglio mescolarmi alla massa di depressi. N-o-n l-i-r-e-g-g-o. Punto e basta. E così, mentre ovunque si parla e si scrive del nuovo disco dei Radiohead, celebro l’avvenimento del decennio in corso con il nuovo disco di Caparezza. Tamarro e sboccato quanto intelligente e divertente. Tiè.

suonate la marsigliese. SUONATELA!

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Ispirato da questo post de il Post, ecco uno dei rari casi di mash-up in bianco e nero. Qui ho capito quale fosse l’inno nazionale più emozionante.

Sanremo 2011, ecco chi vincerà il Festival

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La mia amica S. deve scrivere un pezzo su Sanremo, qualcosa che metta insieme, come è ovvio, musica, costume, gossip e così via. S. è la stessa fan di Morrissey che nel 1987 o giù di lì, ora controllo meglio (1), partì alla volta della cittadina rivierasca per intercettare il suo idolo, ospite straniero di quella edizione del Festival. E di episodi di quel genere me ne ricordo diversi. F. che sosteneva di aver soccorso David Gahan fattissimo o in preda a una sbornia colossale mentre vomitava per i caruggi di Sanremo (2), qualche anno prima. Ricordo anche M., un tizio buffissimo che era convinto di somigliare a John Taylor, che conciato in perfetto stile duraniano faceva incuriosire giornalisti e ragazzine isteriche sul lungomare durante i giorni del festival (3). Sui Duran Duran a Sanremo qualcuno scrisse pure un libro, faccio finta di non ricordare titolo e autrice per non essere accusato di dedicare la mia memoria solo ai ricordi più futili. Al diavolo il dovere di cronaca. Metto solo un link e la cosa finisce qui.

Ma torniamo a S. e al suo articolo. Le ho consigliato, in alternativa, di puntare più alla sostanza, se sostanza e Festival di Sanremo possono coesistere nella stessa frase, raccogliendo in una sorta di superclassifica (roba da supertelegattone) i prodotti più più originali che sono stati lanciati da quel palcoscenico. S., che dagli Smiths è passata nel corso del tempo a fenomeni sempre più estremi di musica alternativa, per darvi in pasto alcune perle di competenza vi butto lì gli Einsturzende Neubauten o roba alla Sigur Ros, mi guarda e storce la bocca. Ma sì, le ho detto, poi metti un lancio tipo “Sanremo 2011, ecco chi vincerà il Festival” (già, proprio come il mio), aggiungi un po’ di tag accattivanti (come quelle qui sotto), magari posti il link sulla pagina Facebook della tua testata, e il gioco è fatto. “Sì, ma non ho ancora capito a quali contenuti ti riferisci“. Già, S. è un animale da nicchie. Con calma, procediamo con ordine.

Pur lasciando perdere conduttori – a cui e di cui non si deve parlare – e coordinatrici di palco (per non usare il termine vallette), a memoria d’uomo (la mia, siete in una botte di ferro) ci sono decine di casi da riesumare. Mi riferisco a brani eliminati dopo la prima serata, ultimi posti, o anche brani e artisti di successo che è ingiusto snobbare solo perché presentati in quel calderone obsoleto e completamente avulso dalla realtà artistica e musicale italiana che è Sanremo. S. ha così scommesso che non ce l’avrei fatta a mettere insieme almeno 10 esempi, canzoni che lei potrà raccogliere nel suo articolo. “Tsk“, le ho detto. “Sei pronta? Accendi il registratore, andrò in ordine sparso“. Si va in scena. Visto il mio background (e la mia età), il periodo preso in rassegna va dal 1975, prima edizione di cui mi ricordi, al 2001, ultima edizione che ho seguito, più qualche eccezione vissuta di riflesso. “Considera però l’anno di uscita e il contesto, naturalmente“. L’innovazione è sempre relativa.

1. di Ruggeri – Muzio: Contessa. Cantano: i Decibel (1980)


Lo so. Ho iniziato con un brano classico e scontato. Ma non si era mai sentito un pezzo così e mai visto un look simile, in Italia. Da leggere, sul sito dei Decibel, la genesi del pezzo.

2. di Cocciante – Santandrea: La fenice. Canta: Santandrea (1984)


Una sorta di Giovanni Lindo Ferretti (chissà perché mi viene sempre da scrivere Giuliano Lindo Ferrara, mah.. sarò tratto d’inganno dalle iniziali?) in versione operetta, su base plasticosa italo-disco-wave anni ’80. Dimenticato presto, non da me, ricettacolo di pochezze. Ritornerà alla ribalta qualche anno dopo con il nome completo di battesimo (Rodolfo), autore e interprete della celebre “ho un’arancia nella pancia”.

3. di Abate: Cose Veloci. Canta: Garbo (1985)


Lo so (ancora). Su guggol digiti Garbo e Sanremo e ti viene fuori come risultato Radioclima, binomio certificato anche dai cultori e puristi. Una pietra miliare, certo, ma io preferisco questo brano dal piglio alla LLoyd Cole, più evoluto e maturo anche se meno wave e berlinese (nel senso del periodo di Bowie). Come per Radioclima, la critica gli ha riservato il fondo della classifica. Tsk.

4. di Fossati – Guglielminetti: Un’emozione da poco. Canta: Anna Oxa (1978)


“Anna Oxa conciata come una punk londinese”, dice un noto motivetto degli Offlaga Disco Pax. E chi non se la ricorda? Peccato l’involuzione e la discesa verso i meandri dello specifico sanremese, unico palco che l’ha vista davvero protagonista. Qui, era il 78, ci si aveva l’abitudine di bucarsi le guance con le spille da balia e di bucarsi le vene con altro. Il punk, quello estetico e modaiolo di Malcolm Mc Laren viene sdoganato anche nella più tradizionalista della tradizione canora italiana, in prima serata, sul Primo Canale. Ricordo di aver aspettato l’esibizione di Anna Oxa a Disco Ring la domenica successiva, e di essere stato premiato con lo stesso inizio di esibizione, spalle al pubblico. Questa sì che è trasgressione.

5. di Bissi – Battiato – Pio: Per elisa. Canta: Alice (1981)


Battiato in versione femminile. Fu amore a prima vista, soprattutto perché, studiando pianoforte, colsi la citazione colta. Non trovo il video di tratto da Sanremo, spero vi accontentiate di questo.

6. di Romano – Casacci – Di Leo: Tutti i miei sbagli. Cantano: i Subsonica (2000)


6 bis. di Castoldi – Urbani: L’assenzio. Cantano: i Bluvertigo (2001)

Il meglio dell’indie-rock anni ’90 sbarca al Festival, un’operazione di mercato riuscita che ha permesso a entrambe le band di proporsi a un pubblico diverso (e più ampio). L’innovazione non è tanto nelle due canzoni, piuttosto tendenti alla grande distribuzione rispetto agli standard dei momenti artistici migliori di entrambi i gruppi, quanto nell’accostamento con il resto della manifestazione. Samuel che balla come se fosse in un club, Morgan che indossa il basso con la dovuta calma. Momenti irripetibili, merito degli Amici e di altri Fattori (X) oggi più affini al gusto imperante tra i giovani.

7. di Marrale – Golzi, Vacanze romane. Cantano: i Matia Bazar (1983)


La svolta di uno dei gruppi più interessanti della canzone italiana culmina con questa esibizione. Un pezzo su cui si è già detto tutto e, tentando qualcosa, correrei il rischio di plagiare altri scritti. Lascio solo il link a una pagina dedicata a Mauro Sabbione, il tastierista che prese il posto di Piero Cassano e che contribuì in assoluto al periodo migliore della band. Questo, appunto. Mauro Sabbione (che peraltro sei mio amico su Facebook), se per caso leggi questo post, sappi che sei stato il mio principale tastierista ispiratore, insieme a Mick MacNeil e a Carlo Speranza.

8 di Gaetano: Gianna. Canta: Rino Gaetano (1978)


La popolarità di Rino Gaetano e di questo pezzo si è manifestata con un crescendo continuo, complici il periodo in cui venne composta, la perpetua attualità delle liriche di Gaetano, la sua riscoperta in pieno revival dei ’70, il karaoke, la nostalgia per la tv in bianco e nero (anche se le trasmissioni erano già a colori, ma solo per i più ricchi), la sua tragica scomparsa. La sua esibizione resta uno degli episodi migliori in assoluto nella storia del Festival.

9. di Avogadro, Borghetti, Fanigliulo, Pace: A me mi piace vivere alla grande. Canta: Franco Fanigliulo (1979)


Non vorrei passare per radical chic (di questi tempi, poi) ma questa è una chicca, a cui sono molto affezionato, nonché brano vincitore morale dell’edizione 1979. Tacciato anche di vilipendio alla religione, con un bell’errore voluto di grammatica nel titolo, il brano, apparentemente un tripudio di fricchettonaggine all’italiana dell’epoca, risulta essere una piacevole eccezione nel piattume con cui si riempiva il Festival in un periodo in cui la musica e la canzone erano davvero altrove (leggi nelle piazze. Forse il periodo, quello che ho appena scritto, era troppo lungo?). Come anomalo era Franco Fanigliulo, scomparso purtroppo prematuramente.

10. di Rossi: Vado al massimo. Canta: Vasco Rossi (1982)


Non mi è simpatico Vasco, per nulla. Ma vi assicuro che la sua esibizione, quella che avete appena visto, è stata una bella botta.

(1) Gli Smiths parteciparono come ospiti a Sanremo Rock, una manifestazione collaterale al festival, proprio nel 1987. Suonarono, in un ostentato playback, 4 brani tra cui Ask (gli altri 3 facilmente reperibili nei suggerimenti su youtube)
(2) I Depeche Mode furono ospiti nel 1986 con Stripped (e se non erro anche nel 1990 con Enjoy the silence, ma l’edizione a cui si riferisce l’autore è la prima)
(3) Era il 1985, non aggiungo altro. Qualcuno sa il perché.
(4) Se invece cercate qualche melodia più mainstream, il Post ha raccolto le 10 migliori canzoni di Roberto Vecchioni. Vado a sentirle.