fenomeno di costume

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– Maestro, presto corra! C’è bisogno di lei!

La bidella Esmeralda viene da qualche parte dell’America latina e non saprei dire altro perché è un tipo di geolocalizzazione antropologica che mi riesce sempre difficile. Per me dalla California in giù sono tutti uguali. Era quasi l’ora di scendere in mensa e in classe stavamo ammazzando il tempo in attesa del nostro turno con le solite richieste di ascolto dei miei bambini. Questo per dire che è inutile che mi scervelli a tentare di ricordare quale video di musica di merda stavamo seguendo alla LIM, anche se questa è stata la mia principale preoccupazione non appena mi sono lanciato fuori dall’aula per vedere che cosa stesse succedendo. Al momento la lista delle priorità vedeva al primo posto il rischio che, concluso il brano in questione, su Youtube partisse automaticamente il pezzo correlato e che le immagini contenute fossero sconvenienti per una scolaresca della primaria. Già me li vedevo i genitori a scambiarsi lamentele contro di me sulla chat di classe perché alimento l’immaginario erotico di quei mocciosi alle soglie della pubertà. Il punto è che la richiesta di aiuto sembrava così urgente che l’ultima cosa che mi è passata per la testa è stata quella di mettere in pausa la riproduzione.

Ho chiesto a Esmeralda di badare ai miei alunni e mi sono precipitato seguendo l’istinto. Ora, non ho un ricordo lucido di ciò che è successo ma l’impressione che ho a posteriori è di essermi trovato nel mezzo di un corridoio umano di gente che invocava il mio intervento e, a dirla tutta, io correvo in quello spazio lasciato dalla folla già vestito del costume da Superman. Mi è bastato quindi seguire il percorso per giungere a destinazione, e in quella manciata di metri ho appreso dalle parole di sgomento di bambini e colleghi tutti i dettagli della missione che mi era stato chiesto di compiere. Nessun insegnante aveva versato il caffè sulla tastiera del portatile di classe. Non c’erano fogli rimasti inceppati nella stampante. Non si trattava dell’ennesima telefonata della segreteria per informarmi di qualche genitore che aveva smarrito la password. Al contrario, questa era roba grossa: Fabio della seconda A è rimasto chiuso nel bagno.

E mentre raggiungevo le bidelle – in servizio con Esmeralda – che mi attendevano all’ingresso dei servizi maschili, già pregustavo la mail che avrei mandato a valle di quell’intervento di salvataggio, indipendentemente dall’esito. L’elenco delle richieste di manutenzione inevase dal Comune ha raggiunto le due cartelle di Word, anzi, di Google Documenti. Oltre ai neon da sostituire e le protezioni dei termosifoni che vanno in pezzi ci sono anche diverse porte difettose, tra cui quella che probabilmente Fabio della seconda A non riesce più ad aprire dall’interno.

Intorno al bagno bloccato c’era già un capannello di curiosi, forse anche i giornalisti e gli inviati della RAI. Le avevano già provate tutte, ma per scrupolo ho tentato come prima cosa anche io con la forza, invano. L’intuizione è arrivata però in modo così tempestivo che, ancora oggi, non me ne capacito, di solito trovo sempre la soluzione sbagliata ma fuori tempo massimo. Ho percorso il corridoio a ritroso verso lo sgabuzzino delle bidelle per recuperare la scala in alluminio, fedele compagna di mille interventi alle lampade delle LIM e al router che più in alto di così non poteva essere posizionato, che ho calato dall’alto nel bagno dando istruzioni a Fabio della seconda A di metterla a terra in modo corretto evitando che scivolasse nel buco della turca.

Quando il bambino è salito, l’ho guidato a sedersi sul muretto che separa il bagno da quello ha fianco, ho riportato la scala dalla mia parte, sono tornato in quota, l’ho aiutato a scavalcare la porta e ho assicurato che fosse con i piedi ben in sicurezza sulla scala dalla mia parte per accompagnarlo a terra. Nel mentre, le bidelle che assistevano all’operazione lo hanno tranquillizzato in tutti modi anche se non ce n’era bisogno perché Fabio della seconda A non si è minimamente scomposto.

Anzi, forse quello da rincuorare ero io perché, proprio nella fase conclusiva del salvataggio, mi sono risvegliato dalla trance in cui ero piombato al momento in cui Esmeralda si era rivolta a me in classe. Fabio della seconda A scendeva con cautela da un gradino a quello inferiore e io pensavo a perché mi trovassi lì, a cosa era successo, al perché indossassi quella stupida tuta blu attillata con una esse sul petto.

apparizione

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Sollevai gli occhi dal libro avvertendo un presagio, e mossi lo sguardo verso la porta che si spalancò in perfetto tempismo un istante dopo. La sua figura si delineò in controluce sulla soglia e tutti tacemmo. Giravano diverse leggende su di lui. Dicevano che bastasse il suo avvicinarsi e tutto tornava in vita, altri giuravano di aver assistito a veri e propri miracoli, solo con un suo tocco. Si sapeva quanto fosse sfuggente anche se bastava invocarlo e si manifestava dove c’era bisogno. Il suo compito era proprio quello: essere presente sempre, ovunque e simultaneamente, anche se era uno solo, anche se era solo lui. Si mosse, e in pochi passi raggiunse la postazione. Il silenzio era totale così, quando si sporse leggermente in avanti, si sentì distintamente il rumore dei tasti. Control, alt, canc, invio. Il pc di classe si riavviò, la LIM si riaccese, la lezione della maestra era salva, e l’animatore digitale svanì nel nulla, proprio come era apparso.

arriva la bomba

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Ordine scolastico che vai, puzza che trovi. Nelle classi medio alte della secondaria le ragazze ci danno già dentro con i profumi da profumeria, cosa che manda fuori di testa non pochi compagni di classe, e si gioca un campionato a sé. Nel biennio dicono si stabilizzi l’odore degli ormoni, lo stesso che alla secondaria di primo grado impesta le aule insieme alla puzza di piedi e agli effluvi dei post-bambini la cui igiene non è ancora delle più accurate, con picchi da paura dopo le ore di motoria in quelle scuole all’antica in cui non è prevista la doccia a coronamento delle attività sportive. Le finestre restavano spalancate anche con temperature sotto allo zero già in tempi non sospetti, molto prima che qualcuno in Cina decidesse di mordere senza ritorno un pipistrello e l’aerazione della classe si prefigurasse come una procedura obbligatoria.

Alla primaria, al netto di qualche studente precoce, che è molto più frequentemente una studentessa precoce, il monopolio è ancora di tutte quelle creme da bambini che, a noi romanticoni, ci inducono alla malinconia di quando i nostri figli erano in quella fascia evolutiva. Unguenti, balsami protettivi contro questa o quella allergia, ammorbidenti scaccia-pidocchi per i capelli più ingrovigliati, prime essenze dalle fragranze naturali volte all’affermazione della femminilità in erba. Un paradiso olfattivo per un tripudio dei sensi, almeno fino a quando qualcuno tira la bomba.

Alla primaria tirare le bombe in classe è ancora ammesso. La bomba alla primaria è un fenomeno che si può manifestare per svariati fattori e, a differenza degli studenti più grandi, nessuno lo fa per mettersi in mostra. Dare aria al corpo è considerato ancora un atto liberatorio che, a differenza degli stimoli che portano alla produzione di materia solida o liquida, non comporta l’impiego di un ambiente dedicato. Già in terza si studia lo stato aeriforme che non ha colore né forma, quindi i colpevoli non sono da biasimare, soprattutto perché è molto frequente che la causa sia un disagio fisico, il preludio a qualcosa di grave o di più impegnativo. E poi non tutti ancora si sanno controllare come gli adulti, almeno questa è la lezione che ho imparato perché, da me, ogni tanto capita. Qualcuno tira la bomba e nessuno dice niente, come se quell’atmosfera letale fosse la normalità.

Ma la scuola, almeno la mia, è esposta al rischio di un ordigno ancora più devastante, micidiale il doppio di quella bomba lì. Ho un’alunna che va a casa a pranzare tutti i giorni e, al rientro, bastano pochi minuti che l’aula si saturi di miasmi di aglio misto a odore di fritto. Io non so quale sia la dieta che seguono tra le mura domestiche, e che praticano con così meticolosità da osservarne le linee guida ogni giorno, almeno in quei tre in cui sono di servizio io in mensa e, al rientro, vengo accolto da tutta la tradizione gastronomica della sua famiglia che sublima nell’ambiente didattico, l’anima di un popolo che fuoriesce attraverso i respiri dei suoi rampolli. Le ore pomeridiane ormai hanno un marchio di fabbrica che si riversa tra i banchi e i libri e la LIM, i lavori di gruppo, le tecniche di flipped classroom, la pedagogia di ultima generazione. Una forza invisibile che si deposita su tutte le superfici reali e virtuali ma di cui, e non smetterò mai di sorprendermi, nessuno dei compagni si accorge. Anni di frequentazione dei fast food e di tutto quello schifo che resta appiccicato ai vestiti probabilmente hanno incartapecorito le loro superfici olfattive, o magari stare alla larga dagli olezzi sconvenienti – indipendentemente da quale bomba si tratti – non costituisce ancora una convenzione sociale da rispettare. Ci vivono in mezzo ancora con naturalezza come piccole bestiole per le quali gli odori corporei più forti altrui rimandano in modo innato alla sicurezza del branco. Una sorta di protezione animale, un tratto utile a far fuggire a gambe levate i più feroci predatori. Da questo punto di vista, anzi di odorato, non sono pochi i colleghi che rimpiangono la FFP2 obbligatoria.

compagni di scuola

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Quando ho cambiato lavoro per fare l’insegnante pensavo che mi sarei trovato in un ambiente composto da persone di sinistra e comunistoni. Vivevo nel mito dei docenti ipersindacalizzati, dell’Unità letta in classe, degli scioperi e delle manifestazioni sotto la sede del Provveditorato e del Parlamento. Non so se invece sia capitato solo a me ma nel mio istituto comprensivo, nel migliore dei casi, c’è gente che si fa gli auguri per gli onomastici e bazzica gli oratori mentre, nel peggiore, ho colleghe che vanno in pellegrinaggio a Medjugorje, partecipano alle veglie di preghiera per Formigoni e postano le news dalla convention di Rimini. In occasione delle festività cattoliche le chat sono tutto un batti e ribatti di gif sacre con citazioni del vangelo annesse e, nei momenti più cupi, è facile che ci si rivolga direttamente al padreterno bypassando le funzioni strumentali, lo staff a supporto della dirigente, il vicepreside, la dirigente stessa, il provveditorato, il ministro dell’istruzione e persino sua santità. C’erano persino i novax, quelli contrari al greenpass e tutto quell’underground della disinformazione lì. Il reggente nominato prima dell’attuale preside era un militante ciellino e, quando era nata l’esigenza di attribuire il nome a un plesso della scuola dell’infanzia che ne era ancora privo, aveva proposto al consiglio d’istituto nientepopodimeno che un cardinale locale. Un prelato che poi, a cercare informazioni in rete, non ne usciva proprio uno stinco di santo. Nella mia scuola non stento a credere che la percentuale che supporta il governo in carica – e che sposa in toto i venti di restaurazione che spirano da qualche tempo – sia elevata, e spero che da voi non sia così. Ma basta leggere gli esiti delle recenti politiche e fare due calcoli per capire che, comunque, un sacco della gente che incontriamo per strada –  e che quindi ci ritroviamo al nostro fianco sul posto di lavoro – sta dall’altra parte. Questo vale anche per le famiglie dei miei bambini. A parte i musulmani e il mio dva cinese, gli altri non sono esonerati da religione e frequentano il catechismo con l’obiettivo di smarcare tutte le tappe dei sacramenti. Lavoro in un piccolo paese di provincia con un elevato tasso di immigrazione dal sud, forse il motivo è quello. Magari chi insegna in città beneficia di più della secolarizzazione.

zucche e meloni

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Oramai il culto del travestimento all’americana, quello della festa di Halloween, per intenderci, in questi tempi di stretta alleanza atlantica si è fortemente radicato e finalmente nessuno più si lamenta della meticolosa stravaganza che si sfoggia in giro e del contrasto con la sobrietà che una celebrazione di morti e santi – secondo le linee guida della religione che va per la maggiore – imporrebbe. Oserei dire che Halloween fa parte della nostra tradizione tanto che i più piccini, che non hanno mai vissuto che cosa si celebrava durante il regime comunista spazzato via dalle ultime elezioni, ben se ne guardano da mettere l’osservanza del rito in discussione né più né meno di un natale o una pasqua qualsiasi. La maestra Fiorella l’ho vista uscire da scuola venerdì con tutti i suoi nanetti di prima con il volto coperto da una maschera a forma di zucca, o meglio jack o’lantern, come si insegna nell’ora di inglese, costruita durante le lezioni di arte insieme alla riproduzione di disegni di pipistrelli, ossa di morto e altri amabili resti macabri a tema. Ma da quello che mi è passato in rassegna sui social non ci si concia più solo da rampolli degli Addams. Negli USA si emulano personaggi di ogni tipo, per questo da noi la kermesse dei cosplayer di Lucca, che si tiene simultaneamente in questo ponte che, pur essendo decadente, per fortuna non crolla, è la più appropriata. Ho visto foto nelle mie timeline di amici, conoscenti e celebrità che seguo truccati e travestiti in modo sorprendentemente realistico, e che ci siano persone che dedichino così tanto tempo e cura per celebrare un culto pagano mi riempie di ammirazione e invidia. Io non saprei da che parte iniziare: sono ignorantissimo in fantascienza, fantasy e supereroi, gli unici fumetti che ho letto sono quelli di Topolino e in più mi trovo già grottesco a sufficienza nella mia versione naturale. Ma non è certo per questo che in classe io, di Halloween, me ne stavo quasi dimenticando. La settimana a ridosso del ponte era agli sgoccioli e mi restavano poche ore a disposizione, così ho pensato di leggere una riduzione di “The Canterville Ghost” in lingua originale, una storia che trasmette un po’ di goticità, in modo che nessuno poi, a casa, potesse avere qualcosa da recriminare sul fatto che, in piena restaurazione, non santifico le feste.

medio

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La regola per ascoltare canzoni in classe proposte da loro è che nei testi non debbano esserci parolacce. Ognuno deve studiarsi bene le liriche del brano che intende condividere con i compagni e con il maestro per sincerarsi che non ci siano passaggi poco adatti al contesto, pena il divieto di scegliere musiche per due settimane. Poi succede che qualche parolaccia salta sempre fuori perché ci sono termini che alcuni – e probabilmente di conseguenza anche le famiglie che hanno alle spalle – non considerano inappropriati. Fottere, per esempio. Abbiamo ascoltato insieme “Soldi” di Mahmood almeno una decina di volte e quando si ripresenta quel passaggio lì la classe si divide tra quelli che si sorprendono che la didattica ammetta espressioni così colorite e quelli che invece non se ne sono mai accorti o, addirittura, non sanno cosa significhi. Anche nella versione non censurata di “Zitti e buoni”, altro tormentone degli scorsi anni, c’è una parolaccia grossa come una casa. Il punto è che toccarsi i coglioni e fottere, nel senso di fregare, sono vocaboli sconci ma per modo di dire. Ai miei alunni, esposti ai peggio turpiloqui in famiglia, tra gli amichetti del parco e sui social, dico sempre che le parolacce fanno parte della nostra vita e che sta a noi capire il contesto in cui si possono o non si possono dire e si possono o non si possono ascoltare. Nell’arte sono all’ordine del giorno. Ricordo loro che quando è il mio turno di proporre canzoni scelgo sempre un brano diverso di Caparezza e anche lui, ogni tanto, qualche parolaccia ce la mette, e quando succede ribadisco quello che penso.

La cosa che mi fa sorridere è che, al netto della loro infima conoscenza della lingua inglese che risente del fatto che – a differenza delle passate generazioni – ascoltano pochissima musica angloamericana, quando qualcuno propone successi non in italiano fanno a gara a segnalarmi che, nel brano trap o rap in questione, ci sono parolacce in inglese. A ogni selezione chiedo anche se il video si può vedere o no, per lo stesso motivo di contesto, e quando mi indicano l’alternativa alla clip ufficiale che quasi sempre è il lyric video, ecco stagliarsi ben visibile un fuck ogni tre o quattro parole.

Fuck è una parola che tutti riconoscono come scurrile ma, se poi chiedi il significato, nessuno ha assolutamente le idee chiare. Sono quindi giunto alla consapevolezza che il modo più efficace di insegnare le lingue straniere sia insultare il prossimo o imprecare tutto il tempo. Proprio per questo dovremmo dare meno importanza alle parole e non condannarle ingiustamente. Non è vero che le parole sono importanti. Quando le scriviamo sono segni che lasciano il tempo che trovano, anche se si dice che restano. Quanto le diciamo durano un millesimo di secondo e, se siete un po’ sordi come me, è facile anche che ve le perdiate, le sconcezze altrui. Qualche giorno fa Nicolò ha mostrato il dito medio ai compagni che non lo volevano in squadra. Mi sono arrabbiato moltissimo perché invece il gesto si impone come espressione della ragione o dell’istinto ma in ogni caso si fissa per sempre nell’idea che gli altri hanno di te. Ho detto a Nicolò, la prossima volta che succede, di mandare tutti affanculo. La parolaccia è un petardo che esplode, ronzano le orecchie ma tutto torna come prima, pochi attimi sono sufficienti.

economia di scala

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Zhai è il mio alunno cinese campione mondiale di induzione a stereotipi. Il papà ha un nome italiano così improbabile per un italiano da fare il giro e attestarsi tra i nomi di cinesi in Italia più diffusi. Fa l’imprenditore e lui e la moglie hanno due auto che, insieme, fanno cinque anni di stipendi del maestro del loro figlio. Zhai parla così male la nostra lingua che si esprime a frasi che sembrano una trasposizione automatica in una versione inglesizzata dell’italiano, senza maschili e femminili, coniugazioni e declinazioni. Anche per questo, Zhai sembra un bambino digitalizzato da sovraesposizione ai dispositivi elettronici e poi convertito in testo dall’OCR di un algoritmo cheap. Però ormai siamo in quarta e la DAD non c’entra nulla se non è migliorato di un centimetro dalla prima, così abbiamo gettato la spugna e imparato a capirci lo stesso, una convenzione tra di noi che vige per salvare il salvabile.

Con una di quelle fuoriserie, con la mamma al volante vestita come una cosplayer della fashion week, me lo ritrovo spesso dietro nel pezzo di strada che percorriamo insieme all’uscita da scuola. Me lo fa notare Zhai stesso, il giorno dopo. “Maestro, ieri noi dietro seguire te strada casa”. C’è stato però un passo in avanti. Fino allo scorso anno sembrava quasi vergognarsi delle proprie origini, fingeva persino di conoscere gli involtini primavera. Quest’anno la mamma gli impone di imparare a memoria un verso di una poesia in mandarino al giorno e mi scrive persino qualche parola nei suoi ideogrammi sui fazzoletti di carta che poi appendo in classe. Sta sempre da solo, in mensa tiene le distanze e siede nel punto del tavolone in cui può mangiare il più lontano possibile dai compagni, detesta lavorare in coppia o in gruppo e il massimo della socializzazione – non dimentichiamo che anche se cinese è di base un maschio – è giocare a palla nell’intervallo lungo con gli altri. A casa, i fine settimana li trascorre da solo con i fratelli e un paio di cuginetti cinesi che hanno due nomi nelle due lingue proprio come lui.

I suoi parenti sono un cliché di quello che pensiamo facciano i cinesi in Italia. La zia gestisce un ristorante, lo zio con la moglie (cinese) lavora in una rivendita di articoli di telefonia e cover, ci sono anche dei cugini del padre che vendono vestiti al dettaglio e i nonni hanno quello che lui chiama un magazzino, che poi ho scoperto essere uno di quei giganteschi bazar di roba cinese dove si trova di tutto. La mamma lo porta spesso al magazzino, da dove torna pieno di giochi cinesi che poi, immagino, si rompano dopo qualche settimana ed è per questo che l’esperienza si ripete in modo periodico. Ieri mi ha detto di esser stato al magazzino a prendere per sé e per il fratellino il monopattino. La prima volta in cui mi ha parlato del magazzino ho pensato fosse una storpiatura di grande magazzino, la locuzione con cui negli anni ottanta definivamo i centri commerciali sull’onda dall’archetipo costituito dalla Rinascente che, comunque, resta un’altra cosa. Invece no. Se chiediamo di portare lo scottex Zhai arriva con una sottomarca da discount, stesso discorso per calcolatrici, compasso e altro materiale scolastico. Poi, parliamoci chiaro: che anche i proprietari della cartoleria si riforniscano al magazzino della famiglia di Zhai è un dato di fatto, quindi non è che gli altri in classe abbiano in dotazione materiale da boutique.

Questa dinamica trova poi la chiusura del cerchio nel modo in cui lo vestono, se pensiamo che abbigliamento cinese oggi è diventato un vero e proprio stile. Se mettiamo insieme le possibilità economiche della famiglia con la disponibilità di indumenti a cui hanno accesso unita alla velocità con cui i mocciosi crescono e al ciclo di vita irrisorio – dovuto alla qualità – di quel vestiario, ogni mattina faccio caso al suo look e vederlo più di un paio di settimane con le stesse cose addosso è impossibile.

Eppure, nonostante tutti questi stereotipi che ho sviluppato nei suoi confronti, Zhai me lo ritrovo sempre appresso con la sua voglia di raccontare, sempre nella sua lingua inventata. Viene alla cattedra in continuazione, o dal banco mi fa quella richiesta di avvicinarmi che usa solo lui, con tutta la mano e non solo con l’indice, perché è un bambino e scoppia dal desiderio di farmi sapere, di mettermi al corrente, di chiedere il perché, di farmi vedere quanto è bravo e intelligente. A casa l’italiano, anche se è la lingua ufficiale del business cinese in Italia, lo praticano poco e questo è un peccato. Ho addirittura pensato che qualcuno gli abbia insegnato a non mescolarsi troppo, proprio come ci insegnano gli stereotipi più crudeli, ma anche se fosse sarebbe un comportamento di cui non ho ancora compreso l’esigenza e le finalità.

male di stagione

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Passati in silenzio i quattro mesi della vacanza dei docenti, l’impatto con il palco della scuola è quasi sempre letale. A metà ottobre gli insegnanti sono afoni o lamentano il mal di gola oppure calibrano il proprio tono di voce sulle frequenze di Barry White che è perfetto per certe tecniche di seduzione anni 70 ma se devi spiegare le proprietà dell’addizione corri il rischio che sia controproducente. Un paio d’anni fa qualcuno aveva organizzato, presso la mia scuola, un efficace corso sull’uso della voce e da allora non passa occasione in cui manifesti il mio rimpianto per non essermi iscritto in tempo.

La voce è il nostro principale strumento di lavoro e un suo impiego scorretto ci mette in condizione di consumarla molto prima del periodo di tempo in cui è business critical averla funzionante. Io non pretendo tanto, diciamo che mi piacerebbe tirare almeno fino a Natale per poi avere quella quindicina di giorni per mettere a riposo l’apparato fonatorio. Invece va a finire sempre così. A ottobre non sai come vestirti, le finestre aperte dell’aula danno il colpo di grazia specie quando rientri sudato dopo l’intervallo lungo trascorso sotto il sole, e via con i primi starnuti.

Da questo punto di vista, noi insegnanti siamo come gli attori. Anche la gestualità è importante e aiuta a potenziare il significato della parola. Quando osservo i divulgatori alla tele cerco di lasciarmi trasmettere il modo in cui tengono le mani e accompagnano con i loro movimenti le cose che dicono. C’è una consonanza – a volte sin troppo impostata – e si vede che è frutto di un genere di studi la cui matrice può essere ricondotta a quella stessa tradizione teatrale italiana che fa sì che i nostri attori siano dei cani, la nostra fiction una merda e i dialoghi una sequenza di banalità difficili da cogliere, peraltro, complice quell’inqualificabile stile di dizione inutilmente sospirata e dialettale che si tramanda di generazione in generazione.

Per fortuna, quando sono in classe e Carmen mi interrompe in continuazione perché le sanguina un dentino, difficilmente riesco a concentrarmi sulla performance, così nel bene e nel male torno a essere me stesso, un ciarlatano prestato alla didattica. Qualcuno mi ha suggerito di riprendermi con una telecamera, mentre spiego, ma non ha mai visto come è fatta una classe. I guru della comunicazione dicono addirittura di non farsi vedere troppo dinoccolati perché si trasmette insicurezza di sé. Se è così, ho capito perché appena mi giro verso la LIM scoppia il finimondo. Torno a voltarmi verso di loro, alzo i toni per ricatturare l’attenzione ed è a quel punto che la mia ugola si ribella. Sento pizzicare dentro al collo e capisco che, anche per quest’anno, ottobre mi vedrà baritono.

fino all’osso

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La mia collega Maria si ricorda benissimo di me mentre mi rammarico, lo scorso anno e più o meno di questi tempi, di non aver ancora imparato a far fruttare i mesi estivi, quando cioè le scuole sono chiuse e noi insegnanti ci godiamo i quattro mesi di ferie o forse più che immeritatamente ci spettano. «È vero», sostiene Maria, «lo avevi detto anche l’anno scorso».

Probabilmente quindi mi ero già lamentato della stessa cosa un mattino dell’ottobre passato e posso scommetterci che ero vestito proprio come oggi. D’altronde il ricambio del guardaroba della mezza stagione occupa sempre la posizione più bassa tra le priorità. Si tratta di pochi indumenti che indossiamo per una manciata di giorni, tra il caldo e il freddo, che non si sgualciscono mai proprio perché li mettiamo poco e prima di comprarne nuovi ci pensiamo due volte. E sicuramente, quando l’ho detto, eravamo nella stessa posizione: io seduto sulle gradinate del campetto di basket, a godermi il sole, e lei con gli occhiali scuri in piedi pronta a tornare all’ombra archiviata la pratica della conversazione del più e del meno dell’intervallo post-mensa, a malincuore esposta a quel calore illusorio, malcelato solo in parte dagli aliti della brezza autunnale, pronta a rifugiarsi in un punto più omogeneo sotto il profilo delle condizioni meteo percepite. Tutti e due, insieme al maestro della 4C, a parlarci messi di profilo, con gli occhi rivolti ai bambini che sono tornati a mescolarsi tra classi e che hanno ripreso a contagiarsi anche al di fuori della propria bolla di sicurezza. Intorno a noi il foliage, le castagne matte in terra, gli scoiattoli che sfuggono alla furia esploratrice dei nostri alunni, i battibecchi tra quelli che giocano con la palla di spugna sul fatto che sia fallo o no. Alla mia collega Maria d’ora in poi rimarrà impresso tutto questo, come la scena di un film, nemmeno fosse il finale di Casablanca.

E vedrete che verrà fuori che devo aver condiviso quella considerazione anche alla ripresa dell’anno scolastico precedente allo scorso, e non va per nulla bene perché non solo non mi piace passare per un vecchio rincoglionito che ripete le cose e mi offendo se qualcuno tiene a mente certi particolari che io ho già categorizzato come errori grossolani e che eviterei che fossero oggetto di conversazione, ma significa che quello di non essere in grado di organizzarmi durante i mesi estivi è un problema che si ripresenta – e so benissimo che si ripresenterà – e non ho ancora preso provvedimenti per trovare una soluzione, con l’aggravante che rimane impresso tra i colleghi in quanto, evidentemente, quello della pausa tra un anno scolastico e quello successivo costituisce un tema centrale nella vita di un docente, il vero core business, quasi come i sindacati o pretendere di ridurre al massimo le ore buche quando gli incaricati a preparare l’orario si mettono al lavoro o considerare i PDF sacri e inviolabili, pena il licenziamento e conseguente ricorso al TAR.

E se ne parlo qui è solo perché ho la coscienza sporca, so perfettamente di essere in torto. E tra gli svariati modi di buttare il via il tempo facendo cose senza fare nulla, un paradosso tipico dell’Internet, quest’estate ho aumentato a dismisura il mio interesse per l’archeologia. Una passione che, se siete di genere maschile come me e conseguentemente a rischio ossessività nella pratica degli hobby, è meglio lasciar stare perché soffermarsi su troppe foto di scheletri umani dell’antichità, alla lunga, porta alla depressione. Riflettere su ossa e teschi ricomposti o lasciati in mostra nella posizione in cui sono stati sepolti a suo tempo o addirittura colti nell’ultimo sforzo con cui il corpo che sorreggevano ha tentato un’estrema difesa dal cataclisma che lo ha inghiottito o incenerito ci permette di calcolare di quanti miliardi di persone di cui ci resta solo un mucchio di spoglie anonime non si sappia nulla. Niente. Nemmeno un ricordo, un’epigrafe, un nome, un’iniziale, un ciondolo al collo o un corredo funebre o un attrezzo rinvenuto in prossimità. D’altronde, se ci pensate bene, quanti esseri viventi animali e vegetali ci hanno già lasciato le penne dai tempi del big bang? La terra è una palla ultra-millenaria abitata e percorsa da entità semoventi e autonome tutte soggette a un meccanismo a tempo e il senso di questa cosa non si è ancora capito, sempre che ci sia qualcosa da capire. Voglio dire, perché ci interessa il fatto che oltre a noi c’è stato un prima e ci sarà un dopo?

Così mi permetto di mostrarvi questa foto. Vedete? Questo sono io a metà luglio, seduto alla scrivania con il pc acceso, solo in casa. Mia moglie è al lavoro. Mia figlia è in giro per l’Europa con le sue compagne di classe, tutte munite di interrail, a godersi le vacanze tra la maturità e l’università, le ultime in cui ci si può permettere di non fare un tubo. Anzi no, se sceglierà di fare l’insegnante avrà tutta una vita davanti di mesi estivi da buttare via. Dicevo, nella foto mi vedete al computer senza aria condizionata nella stagione più torrida dai tempi del neolitico, con il condominio impacchettato per i lavori del 110% e i teli esterni che faranno anche ombra ma impediscono a qualsiasi materia allo stato aeriforme – a partire da ciò che respiriamo – di circolare liberamente. Se ingrandite il monitor noterete una pagina Facebook con una foto scattata negli scavi di Ercolano e, allargando ancora, degli scheletri che, a loro modo, chiedono di essere risparmiati. Evidentemente nessuno li ha ascoltati.

Il fatto è che ci sono cose ben più gratificanti che pensare a cosa siamo e da dove veniamo ispirati da un mix di osteociti e calcio di duemila anni fa, per di più sporchi di terra.

Qui ci sono parchi, vie con negozi, musei e chiese da visitare. Biciclette da lanciare lungo corsie pensate ad hoc per i temperamenti più ecologisti e opportunità di ogni tipo per il turista a km zero. Basta saper cercare le informazioni giuste e organizzarsi. Trovare in rete orari e occasioni da cogliere e imbastire cronoprogrammi e organizzarsi. Scovare eventi, iniziative, incontri e qualunque tipo di happening a cui presenziare e organizzarsi. Individuare cinema e teatri e persino mostre all’aperto, mercatini e bancarelle di quartiere, conferenze e festival e fiere e organizzarsi. Setacciare il territorio in cerca di scorci, attrazioni, street art, archeologia industriale, riqualificazioni di quartiere e organizzarsi. E al limite anche amici che non si vedono da mesi, parenti quasi dimenticati, colleghi ed ex colleghi e semplici conoscenti con altrettanto tempo libero e organizzarsi. Per non parlare dei concerti: acquistare i biglietti, pianificare la trasferta e organizzarsi.

Ecco. Solo una efficace organizzazione del proprio tempo ci tiene alla larga da Internet, da cercare immagini di scavi archeologici con gli scheletri di gente morta secoli fa e da pensare che tra mille anni qualcuno troverà il mio di scheletro, intento a guardare foto di resti umani mentre gli altri insegnanti cucinano peperonate in roulotte parcheggiate dodici mesi l’anno in camping sul lago, o sonnecchiano sotto l’ombrellone di una spiaggia del sud, o ancora meglio visitano luoghi esotici o spingono carrelli tra i saldi del centro commerciale di Arese. Qualcuno, dicevo, troverà il mio, di scheletro, senza sapere che è il mio. Pazienza.

in balia della tv

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A così tanti anni di distanza nessuno ricorda più i dettagli sul primo e unico sorteggio in cui ha avuto luogo l’abbinamento tra le numerose comunità di fedeli del territorio al relativo santo patrono. Chi sia stato l’ente organizzatore dell’evento, chi fosse la madrina e come fosse vestita, quale emittente televisiva abbia curato in esclusiva la diretta, se c’era Cristiano Malgioglio tra gli ospiti, per non parlare dei particolari più chiacchierati come eventuali sospetti brogli nella procedura, ormai all’ordine del giorno. Per questo fa bene chi propone che, come qualunque cosa ricorrente che si rispetti, l’estrazione debba ripetersi ogni anno in modo che nessuna di queste concessioni secolari possa dare adito a conflitti di interessi o comunque per evitare di istituzionalizzare consuetudini poco trasparenti.

Per esempio ci sono paesi che festeggiano il loro intercessore con il divino in estate e a cui, a differenza di chi lo celebra in inverno, viene negato un diritto e si ritrovano una festività in meno nel calendario scolastico. Ma ci sono altri fenomeni ampiamente discutibili e che rendono urgente provvedimenti come quello, per esempio, di scegliere un giorno dell’anno, lo stesso per tutti i santi come festa nazionale, e morta lì. Non credo che nessuno di questa sorta di demiurghi mentori si offenda e, a onor del vero, il giorno in cui si celebrano tutti i santi c’è già da un pezzo ma ha perso il suo fascino da quando è stato messo in secondo piano dal più accattivante Halloween.

Il fatto è che quella della festa del santo patrono è una convenzione che fa acqua da tutte le parti. Sant’Ambrogio, che come Beppe Sala è una specie di super amministratore nazionale nel suo campo, ha un potere tale da fermare ogni attività non solo nel comune di sua pertinenza ma anche in quelli dell’hinterland, con il risultato che qui dove vivo io ci sono due santi patroni che si contendono le 25mila anime, mie concittadine. Anzi, la zona se l’erano già spartita in due fratelli, Gervasio e Protasio, e per questo possiamo vantare un vero e proprio triumvirato e forse va ricondotta a tale polverizzazione del potere temporale la scarsa cura con cui, qui, sono gestiti il territorio e la cosa pubblica in generale.

Ma basta spostarsi nel rhodense e oltre che l’influsso del vescovo teologo non si percepisce più. Il comune in cui si trova la scuola dove insegno – sarà anche per l’elevata percentuale di nuclei famigliari trapiantati dal sud per provvedimenti di confino – non riconosce alcuna autorità al patrono di Milano. C’è un santo, anzi anche lì una coppia di martiri che si dovrebbero celebrare durante l’estate così, per non scontentare i fedeli, il primo lunedì di ottobre – qualunque esso sia, un po’ come succede per la pasqua che si designa a tavolino – scuole e negozi osservano un giorno meritato di chiusura. Il fatto che molti dei genitori lavorino invece in area ambrosiana guasta la festa perché poi madri e padri che non hanno nonni a supporto non sanno dove mollare i mocciosi mentre sono in ufficio.

Senza contare che la cosa scontenta anche me. Mia moglie avrà un bel ponte da mercoledì 7 a domenica 11 dicembre, mentre io giovedì 8 sarò in classe a fare lezione, e lo scorso lunedì 3 ottobre – il giorno di finta festa patronale – sono rimasto inutilmente a casa da solo, che poi è finita che ho lavorato tutto il giorno, la scuola per gli insegnanti non si esaurisce al suono della campanella ma questo è un altro discorso.

Qualche genitore però si è lamentato del fatto che io non abbia dato compiti di matematica. Il punto è che i compiti alla primaria sono inutili, li eseguono genitori e sorelle e fratelli maggiori mentre i bambini si sparano su Fortnite o giocano alla ps. L’abilità sta nell’assegnare attività da sbrigare a casa pensate in un modo che ogni supporto altrui sia inutile o, almeno, riconoscibile dall’insegnante in fase di check. Io cerco di strutturarli così durante l’anno, ma in queste prime settimane di scuola – chi si occupa anche della parte organizzativa del proprio istituto sa bene cosa succede a settembre e ottobre – mi è stato impossibile. E piuttosto che caricare i miei alunni di paginate di operazioni o problemi a cazzo (i libri di testo sono arrivati solo ieri) ho preferito lasciarli liberi.

E durante il weekend finto-patronale la rappresentante dei genitori ha pensato di inoltrarmi un messaggio di una mamma, che più o meno, anzi, copio e incollo da whatsapp, diceva

«Buongiorno a tutti. Scusate, ma di matematica non ci sono compiti da fare?? Mi chiedo come mai visto che hanno anche un giorno in più a casa. Scusate se chiedo, ma sinceramente qualche esercizio di matematica alla mia non gli farebbe male, piuttosto che lasciarla in balia della tv mentre sono al lavoro😅 »

Ho replicato alla mia rappresentante chiedendo di rispondere che – una verità parziale – abbiamo lavorato sodo in classe ripassando, per iniziare, alcuni argomenti dello scorso anno in attesa dei testi. Ho consigliato però di far leggere ai bambini un buon libro. Non rientra nell’ambito delle STEAM – l’isteria collettiva per le discipline scientifiche sta oltrepassando ogni limite – ma comunque costituisce un efficace diversivo alla tele.

Una risposta che, se me la sentite dare a voce, risulta un pacato e saggio suggerimento ma che, con il potere distorto dell’asetticità della parola scritta, trasmette tutto il disprezzo nei confronti di una mentalità all’opposto della mia. Ho comunque verificato con la rappresentante che non ci fossero stati fraintendimenti, e la cosa è finita lì.

Ho dovuto però faticare a trattenermi dal caricare la classe, in questo primo fine settimana successivo al santo patrono, assegnando una caterva di esercizi tratti dai libri appena ritirati. Ho deciso di non farlo perché adoro i miei bambini e spero che trascorrano questo soleggiato weekend autunnale a bearsi del foliage nei parchi e della raccolta delle castagne piuttosto che a fare matematica, sempre che i genitori abbiano intenzione di organizzare qualcosa di bello per loro.

Ma se pensate che abbia sposato la vision di quel collega divenuto celebre per aver divulgato la sua lista di compiti delle vacanze new age, sbagliate di grosso. Ho voluto mandare un messaggio di buon senso a me stesso, prima che alle famiglie dei miei alunni.

Poi è successo che mi ha scritto la mia collega che ha un figlio DSA alle medie, un ragazzone che passa ogni santo giorno a fare in modo che la sua autostima non si esaurisca del tutto dietro a decine di verbi da coniugare, fogli A4 da squadrare e espressioni da risolvere. Mi ha mandato le foto delle svariate pagine di grammatica che gli hanno assegnato per lunedì, in aggiunta a tutto il resto delle materie. Le ho risposto che non riconosce la fortuna che ha avuto: almeno suo figlio non passerà il tempo davanti alla tv.