o taccia per sempre

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Mi aveva raccontato che il suo ex fidanzato l’aveva lasciata perché non era più sicuro di amarla, e fin qui non c’è nulla di strano. Se non che aveva annunciato questo aggiornamento circa i suoi sentimenti poco dopo averle detto che si sentiva molto fiero del fatto che la sera prima aveva cenato con un noto presentatore televisivo e un altrettanto noto comico in voga, il quale gli aveva fatto tutta una tirata per via della sua folta capigliatura e il vello copioso che abbondava sulle sue guance e sul mento, sulle braccia e sulle gambe. Ancora prima di terminare gli antipasti questo che aveva raggiunto la celebrità facendo ridere con battute sul calcio e sulla figa aveva chiamato al cellulare sua moglie, dicendole di essere sbalordito per il fatto di trovarsi allo stesso tavolo con l’uomo più peloso che avesse mai visto. Che poi mica è vero, per esempio io a quel tempo avevo molti capelli più di lui, a dirla tutta. Molto più lunghi. E senza dubbio mi cresceva anche una barba molto più regolare della sua, che così bianco di carnagione sembrava una spazzola al contrario. Insomma che lui, il sedicente tipo pelosissimo, probabilmente si sentiva un po’ un fenomeno da baraccone ma sperava di rientrare in una delle gag che il comico avrebbe presentato alla puntata successiva, magari con il presentatore stesso come spalla. Lei, la mia amica, aveva sofferto questa sorta di dislogia in cui la sua vita amorosa era stata declassata a un link di secondo grado legato a una spolverata di celebrità di quelle che ci sono persone che farebbero di tutto per avere, detto tra noi. Molto più che l’essere stata scaricata così.

Passa qualche mese, e un nostro comune amico che faceva il cuoco ci mette al corrente che lui – il barbuto capellone – aveva prenotato un ricevimento di nozze in una location da cerimonie piuttosto alla moda, una villa della riviera di ponente famosa solo perché tempo prima aveva ospitato un calciatore cecoslovacco in forza a una squadra di serie A locale. Una vera forza della natura, se non altro con le bellezze del luogo. L’amico cuoco faceva parte della cooperativa che aveva in gestione la villa e che organizzava le feste di nozze, e quando aveva letto il nome degli sposi per i quali avrebbe cucinato ci aveva messo al corrente. E lei – la sua ex – così la mattina del matrimonio, che era un sabato di aprile, si era nascosta nei pressi di casa sua per sincerarsi che fosse davvero lui e vedere come si sarebbe conciato. Non certo per gelosia. Insomma che lo ha visto scendere a posare qualcosa in macchina, tutto bardato con il completo grigio scuro e la cravatta arancione, ma con i capelli corti, senza barba, tutto rasato e pulito. “Sono certa che mi abbia visto anche se ero nascosta nell’ingresso del negozio di abbigliamento che c’è a fianco di casa sua”, poi mi aveva detto. Ma era certa che dopo quella cena la cosa non aveva più avuto seguito, nel senso che è difficile che poi certa gente di spettacolo si ricordi di persone conosciute così superficialmente. Lei stessa si era messa a seguire quel programma di sketch da seconda serata, ma della scena dell’uomo lupo – come avevamo iniziato a chiamarlo quando ci riferivamo a lui, ora che non stavano più insieme – non c’era più stata traccia.

ma poi, questo Carrà, era un pittore famoso?

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Sarebbe meraviglioso non avere tutte queste lacune in materie come storia dell’arte, perché poi vai a ritroso e ti ricordi di quando se ne approfittavano tutti di quella che era la cenerentola delle materie, bistrattata quasi peggio che educazione civica o musica, con insegnanti sempre i più bohemienne che non ci voleva nulla per strappargli una sufficienza risicata. Che ignoranti. Noi, dico. Io per primo. Metti una classe di adolescenti in una visita guidata a un museo e ti rendi conto di quanto sia tempo perso. E se già allora ascoltare in piedi la guida era solo lo scotto da pagare per qualche giorno di emancipazione e di concessioni, posso immaginare ora con gli auricolari piantati nelle orecchie e gli status da aggiornare con adeguata costanza. In entrambi i casi poi solo chi sente una profonda inclinazione per la pittura ha la costanza di ripartire da capo, con le incisioni rupestri fino a Cattelan o giù di lì. Tutti gli altri, me in testa, si sono arrabattati con gli approfondimenti fai da te. Qualche personale, le mostre più blasonate, il sentito dire o le lezioni gratuite in tv di gente del calibro di Daverio. Ma nulla di tutto questo ci mette nella condizione di distinguere chi, sostando dinanzi a un’opera di arte moderna o contemporanea, commenta a cazzo oppure no ma comunque sempre a voce alta, impattando sull’esperienza del visitatore che magari ci capirà anche poco ma preferisce viversi la metafisica altrui in santa pace. E se al cinema il silenzio è un dovere, non vero perché no al cospetto di quest’arte altrettanto visiva. Perché che importa se non ne so nulla, ma di fronte a un’oggettiva scomposizione della realtà, la sua soggettiva ricomposizione ci sta tutta. Rimettere insieme pezzi dell’interpretazione di una giornata qualunque in Piazza del Duomo e farne un’istantanea a proprio consumo. Giocare con gli -ismi degli altri ti fa sentire un disegnatore cad che sposta vertici con il mouse e mette in pericolo la stabilità di progetti la cui efficacia è data per scontato. Così è facile irrompere con interventi definitivi, tipo “questo l’ho già visto al Mart” o “questo alla Galleria d’Arte Moderna di Roma” o, il poker d’assi, “questo era al Guggenheim di New York in una mostra sul Novecento europeo”. Perché il resto, tutto appartenente a collezioni private, lascia sbigottiti. Voglio dire, c’è qualcuno che ha “La stazione di Milano” in salotto. Si sveglia di notte per fare pipì, passa nel soggiorno, accende la luce e può dare un’occhiata a “Penelope“. Ecco, sapere che c’è chi ha nel suo conto corrente il settordicimila per cento della ricchezza mondiale non mi altera quanto chi custodisce entro una proprietà privata cose che dovrebbero essere di patrimonio comune e visibili liberamente a tutti, in qualunque momento. Evitando così di costringere la gente come me a mettersi in casa le riproduzioni di Magritte e Chagall perché già dentro alle cornici acquistate all’Ikea. Mi piacerebbe usare il corretto termine per questa figura retorica, che non è il paradosso ma non mi ricordo, probabilmente oltre alla Storia dell’Arte mi mancano anche dei pezzi di Italiano. Nel mio piccolo ho appeso in salotto un dipinto di un pittore sconosciuto se non per essere stato un disegnatore di Diabolik che ho ereditato da mia zia, che è stata l’unica in famiglia ad avere un po’ di gusto in questo senso. Era lei che mi ha raccontato di un artista genovese che in estate soggiornava nella casa di campagna in cui era cresciuta, e che ha ritratto molti soggetti prendendo ispirazione da quell’ambiente bucolico e rurale. Le mucche nella stalla. I contadini nei campi sotto il sole, e lui all’ombra a dipingere con tela e tavolozza sotto il grande noce. L’arte e la vita di tutti i giorni, l’artista e gli individui normali. Quelli che pongono domande come quella in evidenza nel titolo di questo post (giuro che l’ho percepita con queste mie smisurate orecchie) abituati a sentire parlare di Carrà e di Morandi solo per le loro partecipazioni a Canzonissima, e che quindi è meglio che i quadri se ne stiano nelle ville con i dobermann, quelle di chi ha gli strumenti per goderseli.

Comunque, la mostra di Carrà alla Fondazione Ferrero di Alba è davvero imperdibile, anzi sbrigatevi perché chiude il 27 gennaio. E, soprattutto, è gratis.

mettiti nei miei panni

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Lo scarto estetico tra la fine degli anni 70 e i primi 80 non ha avuto precedenti e, lasciatemelo dire, da un certo punto di vista ha fatto una strage. Le principali vittime di quel lustro sono stati i nostri coetanei di allora con fratelli maggiori di cinque o sei anni e una famiglia indigente alle spalle che riservava loro il peggior trattamento possibile, ovvero imporgli un abbigliamento ereditato dal passato e rispondente a canoni e forme agli antipodi del gusto allora corrente. Vestirsi con roba usata non era ancora cool, e soprattutto il divario creato tra uno dei più sentiti gap generazionali, quello tra gli impegnati e i disimpegnati, secondo solo a quello sussistente tra chi studiava e chi pretendeva il sei politico comunque, manifestatosi qualche anno prima, richiedeva posizioni chiare e scelte di campo decise.

D’altro canto le madri che tenevano d’occhio il budget famigliare – che ancora nessuno chiamava così e nemmeno c’era Excel che consentiva di verificare le soglie di rischio con le tabelle pivot – non si ponevano nemmeno il problema che l’ampiezza del fondo dei pantaloni, giusto per fare uno degli esempi più eclatanti, si era nel frattempo ridotta di un buon 80% e che certi materiali e certi colori, per esempio il fustagno marrone scuro, non erano previsti nei nuovi criteri stabiliti dalle tendenze più seguite. Così la vera spaccatura culturale che poneva i portatori di calzoni a zampa di elefante e dei modelli con pinces e stretti sulla caviglia al di qua e al di là di un muro, non consentiva indecisioni, vie di mezzo, compromessi. Anche gli indifferenti e chi popolava la zona grigia si stavano sempre più adattando al nuovo corso. Nessuno avrebbe ostentato consapevolmente un retaggio sociale e politico così impegnativo, tanto più che il lato edonista e proto-berlusconista della nostra società stava permeando ogni nostra abitudine e consumo. Dal cibo alle foto ritagliate dai settimanali pop e incollate sui diari scolastici, dai videogiochi da bar agli ascolti sempre più visivi perché dettati da programmi come Mister Fantasy.

Rimanevano fuori solo quelli che non si potevano permettere vestiti nuovi e alla moda ed erano costretti ad alternare i lasciti dei loro fratelli maggiori, un fenomeno che non era così raro, ai tempi. Per esempio io mi sono salvato, ma solo perché avevo davanti a me due sorelle. Ma ricordo nitidamente compagni di scuola, amici, sodali di attività estrascolastiche gestire con difficoltà il proprio look. La scampanatura sulle caviglie sottili che si dipanava sotto i banchi. Gli ampi colletti che a malapena golf dalle fantasie improbabili contenevano sotto il colletto. Cardigan a tre quarti con trecce verticali assicurati in vita con cinte in lana. Tutte cose che solo qualche stagione prima avevano percorso addosso a ribelli le strade della rivoluzione, si erano macchiate dell’erba dei concerti dopo l’ingresso con l’autoriduzione, si erano bruciacchiate per i lapilli caduti da sigarette rinforzate di oblio illegale ed erano state amorevolmente rammendate in casa in una tacita constatazione amichevole dovuta ai tempi che correvano. Erano stati sfilati in sacchi a pelo da partner occasionali durante notti di occupazione di massa al liceo. Ma poi la storia aveva voltato pagina per tutta una serie di fattori e un intero popolo – come è stato dimostrato poi – era riuscito ad allontanarsi il più possibile da quello stile di vita. Per questo chi era povero o aveva genitori poco propensi a investire nell’omologazione dei propri figli si trovava a convivere con quello che rimaneva di una gloriosa fase di lotta in un ambiente in cui bastava una puntata di Dallas o un gruppo new romantic a incutere un legittimo desiderio di rivalsa sociale.

Ed è facile, a questo punto, evidenziare uno dei vantaggi del pensiero unico che caratterizza finalmente il nostro tempo. Oggi nessuno potrebbe soffrire più così notando le differenze tra i propri stivaletti a punta color becco d’oca e le Amerigan Eagle rosse del proprio compagno di banco. Quello che indossiamo oggi, nel 2013, non è così diverso da ciò che si vedeva in giro nel 2006, per esempio. E il fatto che la qualità scadente di ciò che acquistiamo non permetta una sopravvivenza superiore a una stagione ai nostri capi di abbigliamento non lascia spazio a passaggi di proprietà. Meglio buttare e rifarsi il guardaroba daccapo, siamo più ricchi e possiamo permettercelo. Questo, almeno, è ciò che si dice in giro.

è ufficiale

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Qualche sera fa un amico – scherzando eh – sosteneva che in casa è bene comportarsi come si faceva a militare. Per chi avesse conseguito la maggior età dopo l’abolizione della leva obbligatoria, o a differenza mia non si è visto respingere la domanda per il servizio civile, è bene ricordare che la regola numero uno in caserma era quella di non farsi mai vedere inoperosi oppure statici. Il sistema-esercito, questo quando l’ho conosciuto io, si reggeva nell’assurda convenzione di trovare sempre qualcosa da fare a tutti come compensazione di un generale senso di colpa, facilmente identificabile nello sperpero di soldi pubblici, nella sottrazione di tempo alla giovinezza di milioni di ragazzi, nello spreco di risorse, materiale, cibo e chissà cos’altro per il mantenimento di un ente quasi più anacronistico della SIAE. Un organismo tutt’altro che intelligente e oltremodo miope, in cui l’equilibrio e il tacito consenso collettivo si reggevano sull’ordinarietà comportamentale che se vogliamo possiamo anche chiamare disciplina, ma che da vicino si riconosceva pieno di falle in ogni livello. Così, mentre per sottotenenti, marescialli e graduati vari era sufficiente risolvere cruciverba alla scrivania, per quelli come me gerarchicamente al fondo era fondamentale avere una missione da compiere. Se non era ufficialmente impartita dai comandi – piantonare questo o quello, lavare qui o là, eseguire l’una o l’altra corvè – diventava obiettivo basilare trovarsene una, tanto nel caos nessuno sarebbe riuscito a risalire all’emissario dell’ordine da portare a termine. Un soldato con le mani in mano sarebbe stato inamissibile. Così tutti ci davamo un gran daffare a correre su e giù per la caserma, a spostare scatoloni da un magazzino all’altro, a salutare i superiori al passo di marcia con lo zelo di chi non vede l’ora di arrivare a destinazione e dare un meta e un senso al percorso intrapreso.

Quindi per evitare di dover arrampicarsi verso il controsoffitto per ottimizzare la disposizione del contenuto, per non essere costretti a vestirsi per il consueto giro in discarica al freddo, per non venir coinvolti nell’ennesimo tentativo di spostamento dei mobili perché solo provando si vedono i volumi occupati, se uno ha un paio d’ore libere perché  il bimbo è di là che fa i compiti, è meglio farsi vedere impegnati in qualche attività fittizia. Magari uno avrebbe voglia scrivere due righe in posti come questo, o scambiare qualche facezia con gli amici su Internet, così tanto il pc è già acceso perché talvolta fa le veci dello stereo e, mentre si passa di lì con una scusa o l’altra, si butta un occhio, si schiacciano due tasti, alt-tab e uno passa da iTunes al socialino e poi minimizza la finestra aperta e riprende a camminare, ad aprire e chiudere cassetti cercando cose e riordinandone altre. Poi però è facile farsi sgamare perché a uno come me gli scapperebbe da ridere, una come mia moglie capirebbe il trucco e sono certo che le due ore di permesso nella mia di caserma – scherzando, eh – mi verrebbero alla fine amorevolmente concesse.

è tutta una questione di collegamenti

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Mi ricordo di essere un maschio anche perché capita che mi ritorni la passione che hanno tutti gli ometti, l’influsso che suscitano i mezzi di trasporto e il loro funzionamento, la rappresentazione su carta dei percorsi di metro e tram e, più in generale, le mappe geografiche. La maggior parte dei bimbi ci sballano, inutile negarlo, come quello grande e grosso ma un po’ spostato – per questo faceva paura a tutti alle medie – che un giorno lo hanno trovato al volante di un autobus fermo al capolinea, malgrado non avesse nemmeno la patente del Ciao. Riguardo a me, chiedetelo ai miei colleghi di quante volte ho ideato campagne di comunicazione utilizzando la metafora della piantina delle linee sotterranee di Milano, la rossa, la verde e la gialla con i pallozzi più grandi in corrispondenza delle stazioni che nella mappa concettuale sono le milestone di un percorso ramificato. Lo so, è banale, ma proprio perché siamo cresciuti sognando trenini elettrici e piste in cui le auto potessero viaggiare da sole, senza il nostro intervento, in un mondo di automazione da motore immobile che poi, i più furbi, hanno idealizzato in una laurea utile in discipline matematiche. I meno opportunisti hanno proiettato quei spostamenti fisici sulle rotte della rappresentazione della realtà che, in quanto tale, non è credibile e non dà diritto a uno stipendio a fine mese.

Anche oggi mi sono trovato a fantasticare sulle linee colorate del sottosuolo, soprattutto in prossimità di quelle nuove, quelle in costruzione che hanno colori inauditi per chi è uso alla mobilità sotterranea. Il lillà tratteggiato che porta verso l’estremo nord e che estende esponenzialmente le possibilità e le combinazioni di mezzi a disposizione per raggiungere i posti desiderati e quelli impossibili. Come quella volta in cui avevo sognato un lungo viaggio in pullman per andare a trovare mia mamma in ufficio. Avevo preso quella che dalle mie parti si chiama ancora la “corriera” ed ero arrivato alla scuola nella cui segreteria era impiegata. L’avevo trovata giovanissima con me nella pancia, e hai voglia a spiegarle in sogno e con un abbonamento 24 corse in mano scaduto che ero suo figlio, quello che doveva ancora nascere. Non so se mi avesse creduto, ricordo solo che da quella notte poi avevo deciso di espropriare la porzione di vita dei miei genitori prima della mia nascita come qualcosa anche di mio. Avevo preso di nascosto una loro foto in bianco e nero, quella in cui sono stretti e appoggiati al terrazzo di casa di mia mamma, quella dove viveva prima di sposarsi. Mio padre tiene una sigaretta in mano ed entrambi sorridono a mio nonno che sta per scattare la foto.

Ma l’avevo sottratta a fin di bene. Avevo scoperto una ceramista o artista dell’argilla o di altri materiali che ora non ricordo, che realizzava chiamiamole sculture partendo da fotografie. Avevo pensato di regalare una rappresentazione in 3D di quella foto a mamma e papà per Natale – vi parlo di più di dieci anni fa, almeno quindici -, mi sembrava un’idea carina e originale. Ma il preventivo era di oltre duecentomila lire e, sapete com’è, ci avevo ripensato. Non che mi sembrasse un pensiero poco nobile. Così anche se ai tempi mi girava qualche extra in tasca alla fine decisi per doni più ordinari. Libri, cd, quel genere di cose. E pensate quindi fino a dove è in grado di condurre con il pensiero una linea della metro in costruzione, al momento solo rappresentata con un colore pastello su un prospetto. E arrivo a destinazione solo accorgendomi del motivo che mi ha portato a voltare le spalle alla realtà e a seguire quella inconsistente teoria suburbana. Sono solo un maschio misantropo che cerca rifugio nelle piante geografiche per sfuggire alla gente in attesa. Come tra un paio di decenni mi potrete vedere fermo, in piedi con le mani dietro la schiena, a contemplare scavi di edilizia urbana e lavori stradali. Cose che peraltro, non me ne vergogno, ho già l’istinto di fare adesso.

a loro va il mio più caro augurio di buon anno nuovo

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Hanno la sede in un edificio a forma di parallelepipedo tutto specchi scuri e cemento, che occupano solo loro perché oltre agli uffici c’è anche una specie di magazzino dove tengono gli arredi vecchi e i computer in eccesso. Ci possono arrivare solo in macchina perché si trova in un’area industriale, una di quelle indicate persino da segnali stradali dedicati e se per sbaglio ci finisci e non conosci la zona puoi anche non uscirne più, perché le vie hanno nomi e numeri civici per modo di dire, a malapena registrati nei database dei sistemi satellitari. Figurati a chiedere indicazioni, in giro non trovi anima viva se non alla guida di Tir e autoarticolati con targhe di paesi dell’est che una volta non c’erano nemmeno. A dire la verità ci sono un paio di impiegate che si recano al lavoro con i mezzi, sono le uniche che scendono al capolinea che è comunque a poco meno di un chilometro dall’ingresso, si danno appuntamento la mattina e la sera e percorrono con i tacchi i marciapiedi costruiti solo per convenzione con le norme urbanistiche ma che nessuno ha mai più manutenuto, e in balìa di gelo, radici e incuria si sono involute in una sorta di superficie lunare asfaltata, tutta buche e crepe. Per chi lavora lì è più difficile ritrovarsi dopo le feste, quando gli unici motivi che li riporta a incontrarsi in quegli spazi angusti sono i ricordi dei successi professionali condivisi e la speranza di raggiungerne di nuovi, cose di cui a malapena ci si può vantare su quei social network grigi di cui si parla di nascosto come se contenessero formule segrete di successo ed espansione del business. Tutto questo malgrado il freddo ritrovato dopo giorni di riscaldamento spento, malgrado i neon accesi contro il grigiore fuori a illuminare le certificazioni qualità incorniciate in picoglass economici da zelanti centraliniste tuttofare. Arrivano uno a uno, si sfilano le loro giacche a vento sportive indossate su completi di scarsa qualità, scarpe fintamente eleganti che ricordano il design di calzature sportive per conferire l’impressione della gioventù e della dinamicità come componente essenziale del modo di lavorare e di vivere stesso. Nel bar più vicino, dove comunque occorre prendere l’auto anche per un caffè, si trovano solo le mamme del quartiere dormitorio limitrofo, vanno lì per fare colazione dopo aver accompagnato a scuola i figli e si divertono a chiacchierare con il ragazzo che sta dietro al banco, che fa l’estroverso in eccesso in modo che i clienti ritornino ricordandosi di lui come di uno troppo simpatico, davvero un tipo. Qualcuno poi ricorda che nell’edificio di fronte alla sede aziendale, che è un po’ meno stabilimento e un po’ più centro direzionale ma il management non se lo poteva permettere per via degli affitti, all’ultimo piano c’è un bar con terrazza che nella bella stagione fa persino gli aperitivi con la musica, c’è il gruppo che suona e le cameriere che sbagliavano a portarti il long drink per il volume innaturalmente elevato così hanno dato in dotazione dei tablet con cui è difficile commettere errori. Si può fare tutto il casino che si vuole tanto intorno sono solo aziende e fabbriche e concessionarie di veicoli industriali per cui chi se ne importa. Qualcuno si chiede anche chi abbia voglia di fermarsi lì a fine giornata per una birra, in primavera e in estate, ma è un pensiero che ciascuno trattiene per sé, si potrebbe ferire la sensibilità dei colleghi che poi invece contano di bere qualcosa tutti insieme.

filosofia della befana (paraponzi-ponzi-pò)

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La vita è una sequenza di tira fuori l’albero, metti via l’albero, tira fuori la roba da campeggio, metti via la roba da campeggio.

in caso di maltempo

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Camminavano insieme dandosi il braccio, sotto un ombrello. Per questo ho rallentato il passo in modo che non mi vedessero, per non metterli in imbarazzo. Perché l’ultima volta in cui avevo incontrato una donna e un uomo non ufficialmente e dichiaratamente legati da relazione sentimentale lui ha passato quei terribili – per tutti – cinque minuti a dirmi dov’era la fidanzata e che erano in quel bar per caso, giusto un aperitivo e stop. Un’altra volta invece altri due erano entrati in un pub dove stavo consumando un panino e una birra, anche lì ho fatto finta di non vederli e così, quando loro mi hanno riconosciuto, pur essendo già seduti, si sono alzati e se ne sono andati. Lei stava con un mio caro amico che faceva il sottufficiale di leva e non era corretto per nessuno. Così poi lei lo ha scaricato poco dopo, durante una licenza, spero non a causa mia che di certo avevo intenzione di farmi i fatti miei.

Ma quella volta, quella dell’ombrello, io nemmeno avevo pensato subito che il tenersi sottobraccio al riparo dalla pioggia potesse essere un gesto così intimo, un tetto mobile che induce allo stare a contatto così stretto ma solo perché si tratta di un modello da donna, quelli che si compattano per essere portati sempre nella borsetta. Lei stava da anni con un ragazzo del suo paese ma flirtava spesso con un collega di lui, che era uno di quegli informatici scapoloni poco aggraziati che raramente spezzano cuori sul posto di lavoro. Lui aveva una relazione da anni con una ragazza più grande e molto bella e mai avresti detto che qualcuno come lei, carina ma niente di che, sarebbe riuscita a distrarlo. A tutti gli effetti sembrava una cosa molto complicata da mettere in atto e con una serie di variabili che ne rendevano quasi nulle le possibilità di riuscita. Ed è stato questo che mia ha fatto riflettere. Ricordo di averne parlato con una amica comune che mi ha detto che poteva trattarsi di una cosa così, due che si lasciano cogliere all’improvviso da un rovescio d’acqua e si alleano per non tornare in ufficio fradici dopo il pranzo. Ma lei era stranamente rosa sulle guance ed era aggrappata a due mani al suo braccio, mentre lui non sembrava affatto a disagio della vicinanza della sua bocca mentre gli parlava. Ieri sera hanno festeggiato l’arrivo dell’anno nuovo in casa da soli, con il loro bimbo di dieci anni e qualche linea di febbre per cui era meglio non rischiare il freddo. Non gli ho mai detto di averli visti di nascosto, una vita fa, ho sempre considerato quel momento mio e molto personale e non so spiegare il perché.

ciao sono il duemilatredici

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duderò

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Mi chiedevo se esista una sorta di paradiso o aldilà in genere delle lampade da terra Ikea in carta di riso, perché se esiste ci dev’essere un dipartimento di quelle appartenute a me e distrutte dalla distrazione, scontri con oggetti acuminati, rabbia felina o momenti ludici infantili. O più semplicemente una discarica, in cui riposano gli scheletri ancora perfettamente funzionanti ma inutili nella loro oscena nudità da tredici euro e cinquanta. Ecco un buon proposito per l’anno a venire: mai più lampade da terra Ikea in carta di riso rotte.

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