bianco che più bianco non si può

Standard

Quest’anno ce l’abbiamo su un po’ con la maestra di inglese, che non è la stessa dell’anno scorso e se avete figli alle elementari purtroppo il turn over didattico a cui sono sottoposti converrete con me che non costituisce più il motivo principale per cui stare in pena, perché tanto va così e bisogna farsene una ragione. Cambiare gli insegnanti ogni classe è un dato di fatto, da cui la nuova preoccupazione maggiore che è la speranza che venga mantenuta una continuità e un livello omogeneo di qualità dell’insegnamento. Poi ci abitueremo anche a dare per scontato che non è così, quindi avremo di che angosciarci solo sperando che non crolli nulla in testa ai bimbi durante le lezioni, che non si apra la faglia di Sant’Andrea sotto la scuola, che non sbarchino gli extraterrestri nell’intervallo e così via. La maestra di inglese invece non ci sembra un granché perché, a differenza di quella che era di ruolo in terza, non dà compiti a casa e lezioni da studiare. Così ci è venuto il dubbio che i bambini non stiano imparando nulla di più di quel poco che era già stato fatto fino a qui, e qualche conferma l’abbiamo avuta chiedendo a nostra figlia se si ricorda le regole grammaticali, le parole e i verbi imparati. E per certi versi, i feedback sono state discontinui.

Poi è successo che, per la recita di Natale, le quarte – che condividono la stessa maestra – hanno imparato il canto “Happy Day”, eseguito live in occasione della festa-recita fatta prima dell’interruzione per le festività. E quanto intendo “Happy Day” ovviamente non mi riferisco alla sigla dell’omonimo telefilm (che poi è Happy Days) con Ralph Malph e la sua maglietta con su il nome e cognome stampato davanti e dietro, bensì al celebre inno alla gioia nella moderna natività, quel coro gospel un po’ hippy che tutti siamo abituati a sentire negli spot commerciali e in programmi trash come Buona Domenica cantato in playback da figuranti scosciate. Uno di quei brani di cui non conosco le parole e che da sempre canto con un inglese inventato alla Adriano Celentano. Per questo mentre mia figlia lo canticchiava in casa mi chiedevo perché proseguisse la strofa con “when Jesus washed”. E pensando alla maestra poco proattiva di cui sopra, subito mia moglie ed io ci siamo fatti una grossa risata. Cosa lava Gesù, le abbiamo detto, la macchina? No perché io ero convinto dicesse “when Jesus won”, quando Gesù ha vinto contro il male e bla bla bla. Mia figlia invece ci ha subito corretto, dicendo che Gesù lava i peccati. Ed è vero, diamine, la canzone dice proprio così. Ma il punto è che più cresce, mia figlia, e più comincia ad aver ragione su tutto, la sua mente fresca ed entusiasta ha già soverchiato più volte quella dei genitori, arrugginita dalle routine e dalla presunzione. Gesù lava i peccati, e forse la nuova maestra non è così male, anche se non dà i compiti a casa.

geografia umana

Standard

Quando mi lascio la casa alle spalle e mi avvio verso il parcheggio a un km in cui ho lasciato l’auto perché ormai tutto il centro è per metà riservato ai residenti e per metà a pagamento. Nel momento in cui passo davanti alla pizzeria aperta alle due del pomeriggio di un giorno feriale che tanto feriale non è perché è il giorno dopo Santo Stefano, tutti hanno avanzi da finire e la margherita a pranzo è già blasfema in condizioni normali figuriamoci nelle vacanze di Natale. Da quella pizzeria si ode il coretto che ha sancito il successo di Self Control di Raf e che lo ha tramandato nei secoli dei secoli fino a noi, fino a questa pizzeria con la radio accesa e dentro solo una donna sovrappeso nel locale deserto, seduta a un tavolo nei pressi del forno a legna mentre legge una rivista di gossip e aspetta che succeda qualcosa. Un’ordinazione, un cliente affamato e ritardatario, una scusa per chiudere per non riaprire fino a sera.

Quando leggo accanto a un citofono dell’isolato successivo, che è quello in cui sorge il palazzo messo peggio in quanto a facciata scrostata dall’aria di mare, il cartello “affittasi casa vacanze” e mi chiedo a chi potrebbe venire l’idea di trascorrere anche solo un giorno di passaggio in un posto così. Quando faccio spazio lungo il marciapiede sconnesso alla signora con il bastone quadripode e il carrello a traino su cui ha montato la bombola e il respiratore, che ha deciso di fermarsi proprio lì per una pausa sigaretta e la fuma con tutta la sofferenza di chi è indeciso se si tratta di un piacere o di una schiavitù o che entrambe le cose sono interdipendenti. Quando noto l’ennesimo anziano con i jeans di sottomarca sbiaditi di taglia abbondante che gli cascano malissimo sulle gambe magre e sulle scarpe da tennis made in China.

In ciascuno di questi piccoli episodi che si succedono nel giro di una manciata di minuti, mi convinco che il vero dono soprannaturale a cui l’uomo dovrebbe avere diritto come ricompensa per sopportare le peggio cose che accadono lungo un’esistenza che ha sì dei momenti irripetibili ma che ha un epilogo scontato e uguale per tutti, non è né il terno al lotto o il dono dell’invisibilità o il potere di fermare il tempo a piacimento o la forza di leggere nel pensiero altrui. Il solo fattore che potrebbe consentire all’umanità un balzo in avanti verso la conquista dello status di semidivinità è il poter scegliere, prima di venire al mondo, il luogo dove nascere. Perché il grande inganno della vita è che ci sono posti che offrono ogni possibilità come gli altri, ma che invece non è vero.

unchained melody

Standard

Vedevo che non teneva gli occhi né sullo strumento tantomeno sullo spartito che avrebbe dovuto seguire per portare a termine la sua parte in quel brano complesso, e mi ero preoccupato non tanto per la struttura in sé quanto perché ci avevano chiesto la musica di “Ghost” e né io né lui la conoscevamo. Allora la titolare del negozio di moda del centro, che era l’organizzatrice di quella specie di sfilata per presentare la nuova collezione autunno-inverno, durante i preparativi ci aveva canticchiato la melodia e così ci era venuto in mente di che brano si trattasse. I musicisti con esperienza non hanno particolari problemi a riprodurre una canzone. Al momento del sound check avevamo deciso la tonalità e l’accompagnamento tra i preset della mia tastiera con il quale eseguirne la riduzione strumentale.

D’altronde quello era l’unico requisito specifico che ci era stato imposto, per il resto c’era la massima libertà. Potevamo eseguire a nostra discrezione qualunque brano ritmato dance conosciuto e il più in voga possibile, uno diverso per ogni abito presentato in passerella. Il solo vincolo era su quel vestito da cerimonia, ci voleva qualcosa di contestualizzato. Pur essendo entrambi espertissimi in musiche da matrimoni, l’organizzatrice ci aveva battuto sul tempo proponendo quella colonna sonora. Farsi sorprendere, in questi casi, costituisce un’insidia perché si corre il rischio di non conoscere il pezzo proposto. Lì più o meno era andata così, ma io avevo bluffato accennando in risposta l’omonimo brano dei Japan per far vedere che comunque non eravamo un duo musicale di sprovveduti, lei si era mostrata propositiva e con una punta di presunzione ci aveva suggerito l’aria corretta, che oggettivamente era impossibile non conoscere ma noi, che non eravamo avvezzi a quel tipo di cinema, non sapevamo che un pezzo così banale potesse essere persino la musica di un film.

Comunque durante la serata il mio socio in affari non sembrava per nulla concentrato, ed era facile capire il motivo. Ci avevano disposto a elle, l’uno perpendicolare all’altro, per motivi di spazio e in un punto strategico per poter supportare tempestivamente con i cambi e gli stacchi musicali le due indossatrici che si avvicendavano dentro e fuori dal salone Vip dell’albergo del centro, quello sotto i portici, di fronte ai chioschetti dove si pratica lo spaccio di sostanze stupefacenti più redditizio della città. Oltre la reception dell’hotel, però, vigeva un contrastante livello di sfarzo dedicato ai turisti che non entravano più ormai da mezzo secolo. Le camere erano meta di puttanieri e relative clienti, qualche russo in viaggio di affari – e chissà che affari – e rare comitive di passaggio, come i cliclisti in pellegrinaggio da Milano a Lourdes che avevano fatto tappa lì.

La sera della sfilata, io che facevo partire e mixavo le basi ero di fronte al pubblico e potevo passare da un pezzo all’altro quando vedevo le ragazze rientrare. Il rimanente cinquanta per cento del duo che suonava e cantava, e non doveva preoccuparsi di altro che fare il suo mestiere, era proprio in faccia ai camerini. Per questo dopo un po’ di gomitate e altri modi di attirare la mia attenzione ho capito che cosa lo mandasse in tilt. Dalla sua postazione si potevano vedere le due indossatrici spogliarsi e cambiarsi d’abito, volta per volta.

Qualcosa mi diceva che non era giusto approfittare di quella fuga di intimità, anche se forse in un contesto professionale è lecito valutare l’efficacia del workplace comune. Voglio dire: stiamo lavorando, devo essere pronto a dare il ritmo a qualcuno e quindi posso essere giustificato nell’attendere che il corpo di una che in quel momento è una collega sia regolarmente coperto, per partire con la mia parte che dev’essere perfetta per il corretto raggiungimento dell’obiettivo. Devo sincerarmi che la collega non sia ancora in mutande e nient’altro, altrimenti sbaglierei la tempistica e manderei all’aria lo sforzo di più persone.

E nell’unico istante in cui ho voluto sincerarmi che fosse davvero così, una delle indossatrici, quella che sembrava meno convinta di quello che stava facendo, mi ha beccato in pieno fulminandomi con il suo sguardo ed è lì che ho visto molto di più che una donna in mutande e nient’altro, seminuda per lavoro. Ho visto dove arrivava il mio diritto, che cosa mi era lecito fare, il confine della dignità altrui. Da quell’istante mi sono impegnato a non dare più nemmeno un’occhiata dietro le quinte di quel palco improvvisato, sperando che la ragazza che aveva colto in flagrante il mio essere fuori luogo potesse notare il mio pentimento celato da concentrazione sul mio ruolo, e nient’altro. Il mio socio musicista, dalla sua posizione privilegiata in cui non era nemmeno necessaria una rotazioni del collo ma bastava guardare solo davanti, non si è fatto invece molti problemi e ha continuato a godersi lo spettacolo.

Con la musica di “Ghost” di cui nessuno sembrava conoscerne il vero titolo ce la siamo cavata alla grande. Non so se è stato per quello, ma l’organizzatrice mentre ci pagava ci ha proposto un nuovo ingaggio. Poco dopo chiacchieravo con il presentatore, che era il dj di una radio locale, e lì ho visto con la coda dell’occhio il mio socio trattenersi con una delle ragazze, non quella con cui avevo fatto la figura di merda, ma l’altra. Li sentivo ridere, ho capito che stavano giocando a ricordarsi il colore delle mutande di entrambe. Credo che lui e lei siano anche usciti insieme per un po’ di tempo, ma potrei confondermi con qualcun altro.

senilità

Standard

Uno pensa di apparire agli altri così

414FiYMcXIL


























e invece gli altri lo vedono così


muppet-1

momenti di gloria

Standard

Speravamo di arrivarci ma un po’ speravamo di non arrivarci così in fretta perché c’era chi sosteneva che non ci saremmo arrivati proprio. Perché questa settimana che ci separa dal trentuno e che, casualmente, contiene anche il venticinque non doveva nemmeno esserci, nevvero? Ma non vi dico quello che è accaduto prima, anzi se avete avuto la costanza di leggermi fino a qui negli ultimi dodici mesi lo sapete e lo avete letto tra le righe, se non addirittura dentro. Questo post, pubblicato alle zero e zero uno di Natale, fa il rumore di un sospiro di sollievo. Se siete frequentatori di Facebook, avrete notato quella funzionalità con su scritto duemiladodici, un pulsantone che ci schiacci sopra e ti fa una specie di the best of. Del meglio del vostro meglio dell’anno in chiusura, che a dirla tutta, in taluni casi come in parte il mio, ha più la parvenza di una galleria degli orrori. Per questo tentativo di fare delle mie débâcle un rotocalco, all’invito a ripercorrere i venti migliori momenti prima di voltare pagina, a Zuckerberg e alla sua pletora di programmatori va il mio più sentito mavaffanculova.

Schermata 2012-12-20 a 17.08.18

siamo aperti a tutte le famiglie

Standard

Il mio consiglio, se vi accingete a inoltrarvi nel percorso di architetture d’interni nordiche tra gli ambienti da sogno dell’economico immaginario giallo e blu che riconduce al brand Ikea, prima di tutto accertatevi delle famigliole e degli altri clienti in genere che stanno per partire come voi con il tour espositivo. Perché quelli saranno i vostri compagni di viaggio dal punto in cui ci si può dotare della borsa da spalla da colmare con ogni ben di dio fino alle scale per scendere al piano inferiore, dove ci si rende conto che la spesa potrebbe sforare il budget quindi si inizia a lasciare giù il superfluo. Tutto il tragitto però lo farete più o meno con le stesse persone, come quelle avventure nel mondo organizzate che ti mischiano senza possibilità di scelta e se ti va male ti rovini la vacanza. Quindi occhio. Guardatevi intorno, osservate chi sta entrando e poi via. Perché le persone sbagliate rischiano di rovinarvi la permanenza, mi riferisco a bambini i cui genitori non si fidano a lasciarli alla Småland quindi è tutto un salta e corri e apri i cassetti e gioca a nascondino nei bagni finti, e mi chiedo se non sia mai successo che qualcuno abbia equivocato l’eccesso di realismo abitativo nella finzione dell’allestimento. Così mentre cerchi di concentrarti su misure, essenze, ingombri, colori, ecco che la mamma richiama la bimba dispettosa. Rebecca, comportati bene! Rebecca, attenta a non perderti. Rebecca dove sei? Rebecca lascia giù il carrello, nel tormentone che può guastare la customer experience. Ed è lecito auspicare in un selezionatore all’ingresso che aggreghi gruppi con affinità di intenti, quelli caciaroni con gli altri che son lì per cazzeggiare, e quelli seriamente interessati all’arredamento con chi è lì per prendere ispirazione e farsi un’idea. Quanto a me, da solo, grazie.

secondo round

Standard

Spero sarete d’accordo con me quando dico che la modernità ci ispira molte volte condotte disdicevoli e ci induce a posture che sì, trasmettono il nostro tentativo di adattare il nostro corpo alle nuove invenzioni pensate per migliorare il modo in cui viviamo, ma introducono consuetudini che talvolta fanno fatica a passare inosservate. E sono certo che un briciolo di auto-ironia nell’ammettere questa sorta di deriva comportamentale ci consentirebbe di moderare almeno le gestualità più evidenti. Si tratta di una tesi che sostengo – e ne ho già discusso altrove – sin da quando gli individui non si vergognano più di parlare da soli al telefono in pubblico con elementi protesici bluetooth conficcati nelle orecchie, piccoli spettacoli estemporanei che tuttavia toccano spesso vette di alta drammaturgia di strada. Poi è subentrata la variante da smartcoso, che consiste nell’aggiungere all’uso dell’auricolare il dispositivo tenuto perpendicolarmente alla bocca, vista l’ubicazione del microfono, come una tartina pronta all’assaggio. Anche quello ormai è un classico della clownerie involontaria. Per non parlare dell’avvento dei tablet – della cui utilità sono sempre meno convinto, ma questa è una opinione personale, e lo sapete quanto io sia schiavo della tecnologia – che ha generato un ulteriore passo evolutivo che consiste nel tenere sollevata la piastrellona touch-screen dinanzi a noi per scattare le foto o riprendere una scena in video. L’effetto è quello del cartellone mostrato in manifestazione, che uno si aspetta di leggere slogan tipo “senza se e senza ma” ma digitalizzati per qualche forma di protesta o, come suggerisce il titolo di questo post, le signorine che durante gli incontri di pugilato informano il pubblico sulla durata del match e invece no, si tratta della nuova fase del genere umano che si ferma a immortalare paesaggi e persone con la prima cosa che ha a disposizione. Perché oggi il tablet ce l’hanno tutti in mano con un livello di diffusione che non si vedeva dai tempi dell’autoradio con maniglia che si lasciava al guardaroba in discoteca, o lo si poggiava sul tavolo del ristorante cinese la domenica sera, quando si portava fuori a cena la fidanzata. Sorridi cara, che ti faccio una foto col vestito elegante mentre impari a mangiare le nuvole di drago intrise di salsa di soia con le bacchette. Clic.

minori e maggiori di

Standard

Cari genitori, questo post è per ricordarvi che quando decidete di partecipare a una qualsiasi iniziativa dedicata ai bambini ci sono alcune regole fondamentali che è importante osservare. E non mi riferisco a cose banali come spegnere il cellulare prima che vi parta la zumba che avete come suoneria o evitare di chiacchierare con gli altri papà e mamme durante lo spettacolo. La prima è controllare nelle informazioni a corredo dell’esperienza che siete in procinto di far trascorrere ai vostri figli l’età per la quale tale rappresentazione, concerto, laboratorio, lettura o film che sia, è stato pensato. La seconda è sincerarsi che l’età del vostro bambino o bambina sia compresa nel range di cui sopra, il che potrebbe sembrare una ripetizione della prima norma e invece, purtroppo, sappiamo tutti che non è così scontato. Perché il genitore di oggi ha raramente la percezione della effettiva maturità intellettuale ed emotiva dei propri figli, di conseguenza che uno spettacolo che va da sei a dieci anni, così sta scritto sul depliant, sia comunque adatto alla propria creatura che ne ha quattro ma è già così avanti, sa già leggere e scrivere un alfabeto tutto suo. Già. Poi sono gli stessi bambini che si piazzano sotto gli attori o i musicisti, toccano tutto, iniziano a spaccare la minchia agli altri che invece gli anni li hanno il giusto, per quell’occasione. Senza contare quelli che portano i figli piccolissimi che poi piangono o sono da cambiare, scorrazzano su e giù per la sala e la colpa è dei genitori che il mondo è una ludoteca gratuita o da scroccare, non riescono a contenerli e gli lasciano fare tutto perché sono più avanti, sanno già leggere e comunque se il contenuto è difficile gli fa comunque bene.

Un’altra buona norma da rispettare è quella di lasciare i posti davanti ai piccoli, qualora la sala sia provvista di sedie o poltrone nella classica disposizione a platea. Perché capisco sia piacevole accompagnare il pargolo nella comprensione della piece rappresentata, supportarlo in caso di sete, fame, pipì e pupù, o semplicemente godersi la sua vicinanza almeno un giorno alla settimana che fa sempre bene. Però poi i nanerottoli dietro non vedono più, specie se siete papà grandi e grossi. Non è un bell’esempio per i vostri figli. Che poi sono spesso i papà che durante i weekend approfittano delle iniziative organizzate per far trascorrere qualche ora senza la tv ai loro figli, nei pomeriggi allestiti alla perfezione dalle mamme durante la settimana apposta per poter dedicare un po’ di tempo a sé stesse e prendendo tre piccioni con una fava. Il bambino si diverte e tiene la mente occupata, loro possono impiegare il pomeriggio portando a termine quello che gli è stato impossibile in settimana, i papà possono sonnecchiare almeno un’ora in santa pace, al buio e al tepore di una sala teatro accogliente, stando attenti a non russare e a non farsi sorprendere da nessuno nel gesto inconfondibile della testa che cade addormentata sul petto. Perché se c’è lo schienale alto è finita, la testa va all’indietro e ci si sveglia solo con gli applausi alla fine.

quel post che si chiama come un pezzo degli U2

Standard

Sono stato in uno di quei locali dove i ragazzi arrivano in gruppetti da quattro o sei, si siedono intorno a un tavolo dopo aver tolto la giacca e averla appoggiata sullo schienale della sedia, normalmente lasciandosi la sciarpa che non fa mai tutto ‘sto caldo. Quindi, come primo gesto tirano fuori lo smartcoso, lo mettono davanti a sé e cominciano a pigiare sul touchscreen. Sotto sotto c’è il log-in su foursquare, c’è da rispondere a qualcuno su whatsapp, leggere gli ultimi commenti su Facebook, controllare tutti gli altri socialini. Lo spartiacque è il cameriere che viene a prendere le ordinazioni, una distoglie gli occhi dall’iPhone e nota le All Star con il pelo che per lavorare e portare bicchieri e tazze tante ore al chiuso sembra una scelta discutibile. Dopo, ognuno dice la sua, questo serve un po’ da diversivo così i ragazzi si scambiano pareri incrociati sulle cose scelte, questo mi piace questo no, perché altrimenti il massimo dell’interazione sarebbe un consiglio su cosa scaricare, come configurare, quando utilizzare, fammi vedere come hai fatto tu, guarda cosa ha scritto tizio. Stanno così qualche minuto, poi passano a raccontarsi qualcosa sul film che hanno appena visto insieme, poco dopo arrivano le tisane e i caffè, fuori continua a vedersi poco perché al buio si è unita la nebbia. Passa una che conosco, la saluto e il suo accompagnatore si presenta dicendo prima il cognome e poi il nome come si faceva a naja, tra l’altro ha l’accento veneto e mi sembra una delle reclute che ho conosciuto al c.a.r. In una manciata di minuti ho assistito a una cosa modernissima e un’altra che poteva accadere ai tempi di mio nonno, e se voi la leggete vuol dire che ieri, in fondo, è andato tutto bene. Nel mio piccolo mi sono sforzato di non citare Wim Wenders da nessuna parte, negli ultimi giorni, perché va bene “Fino alla fine del mondo”, ma su Paris Texas mi ero quasi addormentato. Ottimo, si è concluso un ciclo, speriamo che quei popoli che abbiamo sterminato nella loro terra fossero dei discutibili calcolatori in eccesso.

la terra promessa vs il mondo diverso

Standard

Vi ricordate la prima cosa che avete fatto con “Internet acceso” davanti, come molti “diventati digitali” dicono ancora? Ok, abbiamo cercato tutti foto di donne nude, quindi ri-formulo la domanda e va bene, come risposta, anche la seconda cosa fatta con il web a disposizione. Io sì. Ho aperto una pagina del motore di ricerca che era più in voga ai tempi e che si chiamava Altavista e ho scritto il mio cognome. Il mio obiettivo non era certo di guglare me stesso medesimo, intanto perché il futuro algoritmo monopolista era per i profani come me uno come tanti altri e dal successo tutt’altro che scontato.

Come molti miei connazionali, anche io ho parenti nel continente americano, parenti per modo di dire perché oggi saranno trisnipoti ormai di antenati emigrati come molti italiani, verso i primi del novecento. Mia nonna mi raccontava di una sua cugina stabilitasi in Uruguay. E questa cosa mi aveva sempre affascinato, così non appena la tecnologia lo ha permesso mi sono messo sulle tracce dei protagonisti di questa diaspora per modo dire, ormai remota. E per confermarvi che si tratta di una fissazione, è stata la stessa prima ricerca che ho eseguito quando ho attivato il mio account Facebook, nel 2007.

Ma agli albori della rete, quando si chiamava ancora villaggio globale, i risultati avevano un sapore ancora più pionieristico, il fascino del 56k e le voci che apparivano con la lentezza giusta per assaporare anche il piacere stesso della suspence. Per farla breve, rintracciai solo un ingegnere elettronico argentino che con mia somma delusione conosceva poco o nulla delle sue origini, del piccolo borgo da cui provengono tutti quelli che si chiamano come me, dei suoi bis o trisnonni che erano sbarcati nel nuovo mondo chissà quando e chissà dove. Io invece mi ero immaginato scene come quella volta in cui, in un supermercato di Genova, un amico mi aveva chiamato per cognome suscitando la curiosità di una inserviente, una donna che mi mise al corrente dell’omonimia tanto si era stupita della casualità di quell’incontro, rivelandomi di essere da poco giunta in Italia da Montevideo per una bizzara emigrazione di ritorno. La cosa mi avrebbe consentito in teoria di chiudere il cerchio aperto da mia nonna e dai suoi racconti.

L’attività di compilazione di un albero genealogico universale dei plus1gmtini di tutto il mondo ha invece iniziato a dare maggiori soddisfazioni qualche tempo dopo, quando Internet ha cominciato ad essere più friendly per l’uomo comune e non solo per periti informatici. Era più facile trovare fotografie di persone vestite e in contesti normali, avete capito cosa intendo. La curiosità è salita di qualche grado perché oltre a trovare le tracce dei discendenti del ramo americano della mia stirpe potevo anche vederne le facce. Questo per la teoria secondo cui c’è un istinto latente in ognuno di noi di trovare il suo sosia, il suo alter ego, un essere umano in carne ed ossa tale e quale a noi che vive ignaro del suo gemello a distanza, che abita e lavora dall’altra parte del mondo. Questo solo perché abbiamo visto un film di fantascienza, ma anche un episodio di “Ai confini della realtà” con materia e antimateria che si incontrano e bang, altro che maya.

Non che chi viva in sudamerica sia di segno opposto al nostro, non vorrei sembrarvi razzista. Dico che anche questo, come chi cerca nuove forme di vita dello spazio, è un modo per sincerarci del fatto che non siamo soli. Ma così, con un altro plus1gmt da qualche parte, significa che non siamo nemmeno unici. Come se non lo sapessi già. Nel mio lavoro, che consiste nel trovare modi intelligenti, simpatici, creativi e originali di dire le cose, è superfluo che ogni volta che mi viene in mente una cosa la cerchi in Internet, perché è sicuro che qualcuno ci è già arrivato prima. Che disdetta essere in così tanti.

Invece trovare il fenotipo tale e quale a te anche solo a due passi da casa tua, non necessariamente in una seconda terra come il film Another Earth (che se non lo avete visto ve lo straconsiglio) è molto più interessante perché intanto la ricerca è sempre nulla, così se ravvisate qualche vostro particolare in altri può essere davvero la svolta della vita, la forte emozione che stavate rincorrendo. Perché in quel borgo in cui una volta tutti avevano il mio stesso cognome, capita di vedere volti con gli stessi lineamenti che potreste trovare in me. Tutti particolari molto attraenti, inutile sottolinearlo. Una volta una mia amica mi aveva ritagliato un trafiletto di cronaca locale  in cui l’uomo fotografato poteva essere un mio zio, tanto mi somigliava.

Poi un giorno, qualche anno dopo Altavista ma secoli più in là dal punto di vista del progresso tecnologico, ho trovato su Facebook una con il mio stesso cognome che vive negli USA e che ha così tanti tratti somatici in comune che potrei spacciare per mia figlia segreta, se un giorno la diaspora dei plus1gmtini terminerà e ci sarà il loro rientro nella terra promessa, che è quel borgo in cui peraltro non ho più nemmeno la casa di famiglia, a causa di una truffa che parenti molto più stretti di quella tris-tris-tris-cugina hanno ordito alle mie spalle. Ecco, di quelli lì, con cui non solo condivido lo stesso cognome ma addirittura gli stessi genitori, ne farei anche a meno, li scambierei volentieri con quelli americani, e sono certo che di loro non cercherò traccia nemmeno nel Google che ci sarà tra vent’anni.