lei che bacia lui

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Qualche settimana fa ho interrotto il mio sciopero dei concerti per partecipare all’esibizione live di Colapesce Dimartino all’Alcatraz di Milano. Non so se avete notato la grave crisi economica che sta attraversando il settore della musica dal vivo. Bene, avrete allora letto su tutti i giornali che la causa di tutto ciò va ricondotta alla mia astensione dalla partecipazione ai concerti che ho proclamato – manifestando un segnale forte di insofferenza – tre anni or sono.

Non mi reco ai concerti – e più accesa è la passione che provo per una band o un’artista e più efficace è la mia rimostranza – ormai dal 2018 principalmente per due motivi, anzi tre: non posso sopportare di condividere la conoscenza di un gruppo con qualcun altro e di pensare che ci sia gente che apprezza le band di nicchia che seguo. Non sopporto chi va ai concerti, mi si piazza vicino e canta le canzoni, soprattutto dimostrando di conoscere i testi meglio di me. Non sopporto chi si reca ai concerti solo per presenziare all’evento e senza conoscere a fondo la band e poi passa il tempo a chiacchierare o a fare la spola con il bar. E vi dirò che non sopporto nemmeno quelli che tengono lo smartphone in alto per scattare foto o riprendere video del concerto che poi non vedranno mai. Ecco, in realtà i motivi sono quattro e sono certo che se mi lasciate continuare ne trovo altri mille.

Comunque ho interrotto il mio sciopero dei concerti per andare a vedere Colapesce Dimartino all’Alcatraz di Milano un paio di settimane fa e l’ho fatto per due motivi: li adoro e li adora anche mia moglie. Abbiamo preso due biglietti ma poi mia moglie si è accorta che, proprio quella sera, sarebbe stata coinvolta in una trasferta per lavoro, quindi poi alla fine non ci siamo andati insieme ma ho venduto il biglietto a una coppia di amici e sono andato lo stesso da solo e vi posso confermare che era pieno di gente che amava Colapesce Dimartino come me, che tutti cantavano le canzoni e che addirittura accompagnavano certi passaggi particolari con la gestualità tipica della nostra cultura, che c’era chi chiacchierava durante i brani e faceva la spola con il bar e che quasi tutti hanno scattato foto e ripreso video con lo smartphone per tutto il concerto che poi non vedranno mai. Il concerto, comunque, è stato davvero molto bello. Loro sono bravissimi, io conoscevo tutti i pezzi e dal vivo non mi aspettavo una resa così coinvolgente.

Oltre alla faccenda dell’interruzione dello sciopero, avrete anche letto sui giornali che di Colapesce e Dimartino, oltre alla musica, mi piacciono molto proprio i testi ed è un dettaglio che ha dell’incredibile. Amo molto anche la loro sicilianità ed è un aspetto che si è consolidato quest’anno proprio durante le vacanze estive che ho trascorso in Sicilia. Il primo disco di Colapesce Dimartino (il nuovo è uscito solo a novembre) è stata la colonna sonora del viaggio e si è prestato molto perché i richiami alla Sicilia sono assai frequenti. Se lo conoscete, per esempio c’è una delle tracce più famose – si intitola “Luna araba” – e vede il featuring di Carmen Consoli. Il testo è centrato proprio sul fascino che esercita la Sicilia sui turisti, sui suoi abitanti alle prese con i turisti (che sono sempre di più) e anche sulle contraddizioni di quella meravigliosa terra. C’è poi un passaggio che trovo molto toccante. C’è un verso che dice

Dove sei rimasta ad aspettarmi tu
Sicuro c’era il mare

Non so quale immagine volessero trasmetterci i due autori ma l’idea che mi sono fatto io è che quei versi cantati con quella specifica melodia siano stati scritti pensando ai numerosissimi giovanissimi siciliani che vengono a lavorare al nord – ce ne sono svariati tra i miei colleghi a scuola – e che lasciano nella loro terra i loro affetti e devono attendere per tutto l’inverno le vacanze estive per riabbracciarli, magari proprio in un posto di mare come quello della canzone.

Questo mi fa riflettere sul legame indissolubile che abbiamo con la terra in cui siamo nati e il ritorno alla quale, se ce ne priviamo, aneliamo per tutta la vita. Anch’io, nel mio piccolo, sono emigrato anche se solo di 150 km. Potrei tornare in Liguria ogni fine settimana, se volessi e se non lo facessero simultaneamente milioni di milanesi, che poi tornano simultaneamente a casa il giorno successivo. Per anni addirittura tornavo ogni sera pur lavorando a Milano. Con una manciata di altri folli come me praticavo il pendolarismo estremo e quotidiano sparandomi Genova – Milano andata e ritorno in giornata in treno tutti i santi giorni, pur di non trasferirmi quassù e rientrare nella mia casetta di Castelletto.

Che poi in realtà io sono nato a Savona, città che da qui ci si mette qualcosa di più per raggiungerla e alla quale invece mi sento un po’ meno legato perché è piuttosto deprivata e deprimente. Nonostante il rapporto amore-odio che mi lega a lei, ne seguo comunque le vicende sui social in quei gruppi che vanno per la maggiore in cui si parla di parcheggi, merde dei cani, microcriminalità locale, dileggio del PD e foto amatoriali a scorci discutibili con suv in primo piano. È proprio da una di queste pagine che ho appreso che Savona, seguendo un trend piuttosto diffuso in Italia, ha addobbato le proprie vie in occasione del Natale con quella tecnica di creare luminarie contenenti versi tratti dai testi di brani di cittadini illustri divenuti pop star nazionali grazie alle loro canzoni. A Savona le luminarie riprendono frasi delle canzoni di Annalisa, a dimostrazione che è proprio vero che ogni città ha il Lucio Dalla che si merita.

che palle

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L’essenza del Natale, nella sua accezione laica – ammesso che ne abbia una – è che gli sforzi dell’umanità, almeno di chi può festeggiarlo, si concentrano intorno a un palinsesto dedicato ad alcuni temi che negli altri periodi dell’anno non ci è possibile seguire per svariati motivi: la nostra natura, il lavoro che facciamo, il clima stesso, i fatti di attualità e il solito tran tran. Fino quando poi sopraggiunge dicembre – che, non so se avete notato, è lì che ci aspetta puntuale sin dal giorno in cui rientriamo dalle ferie estive – e tutti ci sintonizziamo più o meno sullo stesso canale e ci impegniamo a favorire le condizioni per cui l’unico scopo e il solo pensiero siano finalizzati a un motivo conduttore condiviso che, banalizzando, è riconducibile a far di tutto per fare stare bene il prossimo e, di riflesso, esporci in modo tale che il prossimo faccia stare bene noi, una versione con renne e slitte e festoni e canti ad hoc della strategia win-win, quella in cui tutti hanno la percezione di aver raggiunto gli obiettivi inizialmente prefissati.

Ed è impossibile sottrarsi a questa narrazione a meno che non viviate nella striscia di Gaza, in qualche paese del terzo mondo, nei territori in guerra o in qualunque area del pianeta devastata da una catastrofe naturale. Probabilmente la scansione del tempo – che a volte ci sembra una convenzione sociale ma poi, studiando rotazione e rivoluzione terrestre in scienze ci sono ben chiari i motivi per cui non dipende da noi – è stata pensata proprio per consumare fino al loro esaurimento i pattern ricorrenti (giorni, mesi, stagioni e anni e mi fermo qui, dai secoli in poi è tutto ampiamente fuori dalla nostra portata) intorno ai quali conduciamo la nostra esistenza. Se a sera ci addormentiamo sul divano al tg di Mentana, se non arriviamo alla fine del mese con lo stipendio e se a dicembre giungiamo stremati ci sarà un motivo. Voglio dire, probabilmente la natura ci dà il suo clic in cuffia, proprio come succede negli studi di registrazione, e noi viviamo seguendo quel ritmo. Questo per dire che siamo tutti uguali di fronte all’albero di Natale addobbato e ci abbandoniamo a quel mix agrodolce di pensieri che poi sublimiamo – alcuni la sera della vigilia, altri al pranzo del 25, ecco, in questo siamo diversi – nel convivio con gli appartenenti alla nostra specie più prossimi al nostro vissuto. Il punto è: è nato prima il natale o prima l’insieme di tradizioni che seguiamo rigorosamente ogni anno seguendo una check list consolidata da secoli? Prima dell’anno zero, a natale come passavate il tempo?

In casa, per le strade, alla tele, nei centri commerciali è impossibile sottrarsi allo stato d’animo diffuso. A scuola, poi, che è un concentrato di bambini che, del natale, costituiscono il core business, non ne parliamo, ed è sconsigliatissimo adottare deterrenti a questa sorta di pensiero unico. Quest’anno il consueto lavoretto di natale che purtroppo non posso decidere in autonomia ma è di competenza della collega più brillante in ambito bricolage e fai-da-te (se potessi decidere io farei un’infografica con Canva) consiste in una casetta costruita con le palette per spalmare la cera, che poi se le cercate su Amazon scoprirete che fungono anche da abbassalingua, spero non prima di averle lavate. Io, che con le attività manuali sono una frana, ho trasmesso tutte le mie perplessità sul tempo perso a realizzare male qualcosa che poi finirà nella spazzatura a feste finite ai miei alunni che, di conseguenza, a parte i soliti primi della classe che approcciano qualunque proposta con lo stesso invidiabile eccesso di zelo, è venuto una merda.

C’è poi Leonardo, che quest’anno è davvero al centro delle attenzioni di tutti, a cui invece il natale fa l’effetto opposto. Odia tutto e tutti molto più di quanto non esprima per il resto delle stagioni e l’insieme dei cambiamenti volti all’omologazione generale verso l’estetica e l’etica delle festività lo mandano in bestia con una frequenza maggiore del solito. Ogni pretesto è buono per far volare banchi e sedie in aria e, davvero, non sappiamo più che pesci prendere. Ci sono poi le colleghe che mi vogliono bene perché, alla fine, riesco a collegare sempre le loro stampanti di classe al pc dopo gli aggiornamenti che lasciano partire involontariamente, o anche solo perché hanno messo il cavo usb nella presa di rete del portatile. Sanno che mi piace il genepì e così, a dicembre, mi faccio la scorta per tutto l’anno.

Tra i membri del team dell’interclasse ci facciamo sempre un pensierino, una candela, un segnalibro o qualche altro oggetto originale acquistato ai mercatini di natale. Il primo anno in cui ho preso servizio non lo sapevo, venivo da un ambiente professionale in cui il fattore umano non era certo al primo posto, e così sono stato l’unico a presentarsi a mani vuote ma, per fortuna, l’appartenenza al genere maschile mi ha sollevato dalla figura di merda. Sei un uomo, non ti preoccupare, mi ha detto la mia collega di classe. Da allora ogni anno mobilito mia moglie per supportarmi nella scelta delle cose più adatte da acquistare per il consueto scambio dei doni all’ultima riunione di programmazione di interclasse prima della pausa natalizia. Non che io non sia in grado di scegliere, ma solo perché vivo nella convinzione che, se acquistati da una donna, i regalini possano corrispondere di più all’idea che le mie colleghe hanno di me, un uomo che si affida a una donna per le cose da donna.

giro giro tondo

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Da qualche tempo WordPress, la piattaforma su cui si basa questa specie di blog e che è leader di mercato per lo sviluppo e la gestione di siti web, mette a disposizione un sistema di Intelligenza Artificiale che analizza i contenuti prima di pubblicarli. Immagino siate a conoscenza del dibattito sull’AI in auge da qualche tempo. Uno degli ambiti in cui l’Intelligenza Artificiale rischia di provocare più danni all’umanità è proprio quello della creazione dei contenuti. L’articolo che sto scrivendo, inutile al cazzo ma questo è un altro discorso e che mi occupa per circa una mezz’oretta tra stesura e rilettura, potrebbe essere redatto perfettamente nel tempo in cui io digito una parola da ChatGPT. Ne consegue che questo pluripremiato riferimento per la letteratura web contemporanea potrebbe essere sostituito da un robot e io potrei essere mandato in pensione come blogger, pensione tra virgolette anche se non le ho messe ma avete capito il punto. Comunque, per farvi capire l’utilità di questo servizio, ecco l’analisi che questo presuntuoso sapientone ha fatto del mio pezzo di ieri:

Il contenuto del post sembra essere una riflessione personale sul medico di base e la sua collezione di fumetti. L’argomento è interessante, ma il testo potrebbe essere migliorato.
Ecco alcune azioni per migliorare il contenuto:
1. Concentrati sul tema principale: fai in modo che il testo ruoti attorno al medico di base e alla sua collezione di fumetti, evita di divagare su altri argomenti.
2. Organizza il testo: struttura il contenuto in modo più chiaro con paragrafi più brevi e una progressione logica delle idee.
3. Elimina dettagli non rilevanti: rimuovi le informazioni superflue che non aggiungono nulla alla storia o all’argomento principale.
4. Aggiungi dettagli ed esempi: arricchisci il testo con descrizioni vivide e esempi concreti per coinvolgere meglio i lettori.
5. Controlla la coerenza: verifica che ci siano collegamenti chiari tra le frasi e i paragrafi, in modo che il testo risulti scorrevole da leggere.
6. Rivisita la grammatica e la punteggiatura: correggi eventuali errori grammaticali o errori nella punteggiatura per rendere il testo più professionale.

Spero che queste indicazioni ti aiutino a migliorare il contenuto del post!

Gne gne gne. Non vi nascondo che, grazie alla mia presunzione, questa sfilza di suggerimenti efficaci che non applicherò mai mi ha riempito di orgoglio. Se le macchine la pensano così, significa che lo sto facendo giusto. Anzi, ecco anche l’analisi su questo che ho appena scritto:

Il contenuto del post sembra essere una riflessione sull’utilità dell’intelligenza artificiale nella creazione dei contenuti. L’argomento è interessante, ma il testo potrebbe essere migliorato. Alcune azioni per migliorare il contenuto potrebbero essere:
1. Organizza il testo in paragrafi più brevi per migliorare la leggibilità.
2. Evita divagazioni su argomenti non correlati all’intelligenza artificiale nella creazione dei contenuti.
3. Controlla la coerenza delle frasi e dei paragrafi in modo che il testo risulti più scorrevole.
4. Verifica la grammatica e la punteggiatura per rendere il testo più professionale.
Spero che queste indicazioni ti aiutino a migliorare il contenuto del post!

Vedete? L’Intelligenza Artificiale sa di avere i giorni contati.

debite proporzioni

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Il mio medico di base ha lo studio che trabocca di albi di fumetti anni ottanta e quando qualcuno giustamente gli chiede, usando l’ineffabile formula della domanda retorica, se è un collezionista, lui glissa elegantemente sulla risposta e si concentra su qualche attività propria del suo lavoro, come stampare una prescrizione, chiedere di sdraiarsi sul lettino, auscultare il battito cardiaco o misurare la pressione. Fino al momento in cui sto scrivendo so per certo che, proteggendosi così, è riuscito ad arginare il rischio della domanda più ovvia che qualunque paziente mediamente ficcanaso potrebbe rivolgergli. Ma perché non se li tiene a casa sua? O il dottore vive in un appartamento sottodimensionato, ma, con tutto quello che guadagnano i medici, a chi vuole darla a bere. Oppure sua moglie, o la sua compagna, mi è oscura la qualifica del suo stato civile, non ne vuole sapere di accumulatori seriali per la casa ed è per questo che ha scelto un mestiere da esercitare altrove e in grado di fornirgli l’alibi di fruire di una sorta di pied-à-terre dove coniugare lavoro e hobbistica senza dare adito a battibecchi o cause di divorzio. Ogni anno, verso Natale, pubblica la classifica dei suoi assistiti preferiti incrociando dati derivanti da patologie, livello di ipocondria, frequenza di richiesta appuntamenti (tra parentesi, ora ci è stata fornita un’app efficientissima per le prenotazioni che ci fa davvero sentire ipertesi del terzo millennio) e credo anche riservatezza nelle domande sulla sua vita privata e su quel cognome esotico che porta e che richiama inevitabilmente la questione palestinese. Un modo di fare statistica inutile la sua, considerato che da sempre la classifica è dominata dal signor Gerardo, ottantenne in pensione da quando ne aveva quarantanove, che gira il mondo e scrive racconti sui posti che visita. Iraq, Colombia, Nuova Zelanda, Namibia, Armenia e via dicendo. Invidio moltissimo il signor Gerardo non tanto per il premio che gli spetta – un esame di laboratorio comprensivo dell’Antigene Prostatico Specifico (PSA), che costa un botto – quanto perché, a differenza sua, io mi muovo pochissimo. Casa, tangenziale, scuola, Esselunga, teatro, cinema e poco più. Non frequento più nemmeno lo studio del nostro dottore, da quando c’è la app, e scrivo solo di queste cose qui.

ma da sempre tu sei quella che paga di più

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La cultura della prevaricazione violenta è propria del maschio, questo possiamo sostenerlo senza dati alla mano ma in natura, a parte qualche eccezione, mi pare che da sempre funzioni così. Serve per la caccia, per allontanare gli altri prevaricatori violenti che si vogliono impossessare delle prede cacciate e cose di questo tipo. Il maschio umano, mettendo l’intelligenza al servizio della prevaricazione violenta, ha cominciato poi a lavorare sulle tecniche di prevaricazione violenta, allenando la propria forza fisica, mettendo l’astuzia al servizio della prevaricazione violenta e inventando strategie e armi di ogni tipo per ottenere i risultati prefissati in modo più efficace.

La cultura della prevaricazione maschile umana violenta regola il mondo dai tempi delle ossa lanciate in aria di 2001 Odissea nelle spazio. Poi sono successe una serie di cose importanti, alcune delle quali hanno messo a serio rischio la permanenza della specie umana su questo pianeta, fino ad oggi, un momento in cui in sette miliardi e mezzo ci contendiamo risorse e altre cose per tirare avanti. Sarebbe meglio se, anziché fare le gare per vincerle, come le scimmie evolute di Kubrik, scendessimo a compromessi e ce le dividessimo, ma la cosa più difficile è sempre la stessa, ovvero intercettare l’istinto con la ragione. Prima di dare una testata a qualcuno per una pozza d’acqua, o anche perché un prevaricatore maschio umano violento vuole fare altrettanto con la pozza d’acqua in cui ti abbeveri tu e la tua famiglia, quindi diciamo per difesa legittima, tutti i prodigi evolutivi che ci hanno fatto arrivare a fatica sino a qui, con Internet, i razzi che vanno sulla luna, la neurochirurgia, i pannelli solari, Beethoven e Shakespeare, tutte queste migliorie in teoria avrebbero dovuto potenziare quella prontezza illuminata che ci ferma prima di prendere a testate un nostro simile, o prima di commettere qualcosa che ci renderebbe meritevoli di ricevere una testata da un nostro simile.

E trovo che il fatto che malgrado i prodigi evolutivi di cui sopra continuiamo a impegnarci sulle tecniche di prevaricazione violenta, continuando imperterriti a migliorare la nostra forza fisica e a inventare le strategie e le armi più sofisticate per ottenere i risultati prefissati in modo più efficace, favorisca il rischio che il conflitto continui a essere preferito al dialogo perché più sbrigativo. Due ceffoni, poche parole e la cosa finisce lì. Il confronto è impegnativo e richiede un’intelligenza che facciamo finta di non avere, malgrado ancora i prodigi evolutivi di cui sopra.

E se ancora i maschi umani ricorrono alla cultura della prevaricazione violenta per occupare territori e per difendere e rivendicare i territori occupati, il tutto con quel popò di informazione e conoscenza della storia e le esperienze che coprono un periodo che va dalle ossa lanciate in aria di 2001 Odissea nello spazio ad oggi, figuriamoci con cose individuali che riguardano la sfera dei presunti possessi personali. Il presunto proprio paese, la presunta propria città, il presunto proprio quartiere, la presunta propria casa, la presunta propria donna.

puntini puntini

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Ho sostituito le lenti che uso per leggere e per stare al computer la scorsa primavera e, per il rotto della cuffia, ho evitato l’upgrade alle progressive. Da lontano vedo ancora bene ma, da vicino, è sempre più un disastro. Il fatto è che gli occhiali sul naso mi danno fastidio e cerco di rimandare il più possibile il momento in cui dovrò portarli costantemente, anziché indossarli solo per la presbiopia. Ma negli ultimi mesi la situazione è peggiorata e temo di non avere scampo. La mattina, appena sveglio, faccio una fatica enorme a mettere a fuoco le cose in prossimità e sono esposto a rischi grossolani. Per esempio, stamane ho ricevuto sullo smartphone il messaggio dall’app della banca dell’accredito dell’assegno famigliare di 13.00 euro ma, non vedendo il puntino tra unità e decimali, ho letto 1.300 e, messi gli occhiali, ci sono rimasto molto male. E pensare che la questione della separazione tra le classi – la società contemporanea non c’entra, mi riferisco al valore posizionale delle cifre nei numeri, quindi miliardi, milioni, migliaia e unità semplici – è all’ordine del giorno. La mia collega veterana e opinion leader in matematica sostiene di aver vissuto in prima persona il dibattito, tempo fa, sulla necessità di individuare un’alternativa ai puntini, considerando che le calcolatrici ne utilizzano il simbolo al posto della virgola. Lei è una sostenitrice radicale e accanita dello spazio tra le classi. A me non piace in prima battuta perché non sono classista ma, soprattutto, perché poi crea confusione ai bambini quando si tratta di risolvere le operazioni in colonna. Il testo che ho adottato, poi, sostiene che, oltre allo spazietto, si può usare il puntino sotto ma anche quello sopra. Non solo: le calcolatrici moderne, per non parlare delle app, la virgola la sanno scrivere eccome. Mi scoccia, però, avviare discussioni inutili con la mia collega decana, che poi ha solo un paio di anni più di me ma insegna da quando ne aveva diciotto mentre io, a diciotto, mi conciavo come Robert Smith. Faccio finta di nulla, annuisco nelle discussioni quando insiste sul fatto che il mondo della pedagogia si era espresso senza lasciare alcun dubbio sul problema dello spazio rispetto al puntino, ma poi, alla LIM, quando lavoriamo in classe sulle operazioni con i numeri grandissimi, dico ai bambini che possono fare quello che vogliono. Puntino sopra, puntino sotto, spazietto, lascio scegliere cosa preferiscono, basta che facciano attenzione. Anche perché, a fare attenzione, il primo devo essere io. La scrittura alla LIM è l’unica attività ravvicinata in cui è meglio che mi tolga gli occhiali. Sarà la penna, sarà la luce, sarà la vecchiaia, fatto sta che anche per le operazioni più semplici  – contare otto quadretti, fare i puntini tra le classi dei numeri – devo allontanarmi e controllare due volte. Chissà se con le lenti progressive cambierebbe qualcosa. E comunque, quando leggo “lenti progressive”, la prima cosa che mi viene in mente è “After The Ordeal”.

xl

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La tipa denutrita della pubblicità Borghetti che gioca a calcio balilla dice una battuta, anzi una sola parola, che poi è il brand, e la pronuncia malissimo. E se hanno scelto quel take, chissà quanti ne hanno scartati tra quelli registrati prima e, soprattutto, com’erano. Ci ho pensato all’uscita dal cinema dopo aver assistito a “Anatomia di una caduta”, uno dei migliori film di tutti i tempi per numerosi aspetti, a partire dalla bravura degli interpreti. Persino il cane recita in modo straordinario – non voglio spoilerare nulla ma la scena finale è straordinaria – ed è molto più convincente di qualunque attore italiano, anche i migliori, quelli del cinema, quelli della tv, per non parlare di quelli delle pubblicità. Per recitare così male nei consigli sugli acquisti, anche se gli unici che non cambiano canale quando trasmettono gli spot siamo solo noi studiosi di comunicazione, ci vuole davvero del talento. E quello che colpisce di lei non è solo la dizione, ma il fatto che ha il girovita largo quanto il mio polpaccio. La grassofobia, in Italia, è una delle peggiori attitudini che poi, con tutto quello che mangiamo e beviamo, fa sorridere. Anzi, il corto circuito è frustrante. Non riusciamo a resistere al cospetto di una porzione romanesca di cacio e pepe e poi trascorriamo giorni dilaniati dal senso di colpa, fino alla carbonara del fine settimana successivo. La dieta mediterranea è una disdetta. Ho un’alunna di origini senegalesi, ampiamente oltre il suo peso forma, che non ha mai usufruito della mensa scolastica prima di quest’anno. Riconducevamo la scelta dei genitori a motivi religiosi – la carne di maiale eccetera eccetera – ma ad assistere alla voracità con cui chiede i bis di tutto abbiamo compreso che, tenerla a casa a pranzo, era una forma di controllo e tutela della sua salute. Se sostenete che a scuola non si mangi bene siete in malafede. Al limite, posso darvi ragione solo per il distributore automatico dedicato a insegnanti e ATA. Costa tutto molto poco, ma la qualità è vergognosa. Dicono che in certi licei privati del centro ci siano addirittura i cesti di frutta e le macchinette per prepararsi centrifughe e spremute come nelle filiali delle multinazionali che frequentavo prima di immolarmi alla scuola. Da noi è sotto soglia anche il caffè, una brodaglia seconda solo alla bevanda al sapore di the (o di te, come biasciava Young Signorino) ma dopo il pasto della mensa è un appuntamento a cui non so resistere. Il distributore si trova al secondo piano, uno sopra la mia classe, e prima di scendere in giardino è un tappa obbligata. Alcuni dei miei alunni si mettono davanti ai dolciumi come quelle storie di una volta in cui i bambini poveri, durante i giorni di festa, trascorrevano il tempo sospirando di fronte alle vetrine delle pasticcerie. Sanno che, oltre al caffè, talvolta mi concedo anche il dessert. Quando succede, insistono perché sperano che il Kinder Bueno o gli Oreo o il Kit Kat al caramello salato, dopo la selezione, restino incastrati negli ingranaggi. Quando succede, infatti, scuoto con forza il distributore per far cadere lo snack e, siccome il costo del prodotto non viene accreditato nella chiavetta in caso di mancata erogazione, ne prendo un secondo. Avrete capito che, a botte di junk food, la larghezza dei miei fianchi è di almeno tre volte la tipa del Borghetti, ma chi se ne importa, ho quasi sessant’anni. Metto i bambini in fila, soffio sul caffè, scarto la prima delle due merendine con cui concluderò il pranzo, e come se vivessi in una pubblicità televisiva, quelle con i maestri fighi e magri, mi avvio in giardino con il codazzo di discepoli, orgoglioso del pessimo esempio mostrato.

banksy

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Ho un giovane collega molto preparato – ha una laurea in scienze della formazione alla Cattolica a cui ha fatto seguire un master in sostegno, conseguito presso lo stesso ateneo – a cui mi rivolgo quando non so a quale teoria psico-pedagogica ricondurre le esigenze pratiche che mi trovo ad affrontare in classe. Mi fa sentire meno speciale sapere che c’è una collocazione universalmente consolidata a cui associare un problema a cui la mia incompetenza non riesce a dare una risposta. A scuola è impossibile standardizzare procedure didattiche perché ogni bambino e ogni adulto con cui si sviluppa la relazione sono differenti – e la gamma stessa delle dinamiche delle relazioni è pressoché infinita – ma poi, alla fine, un po’ per poter tracciare i dati come si fa nelle aziende quando occorre certificare qualche processo, si riesce a emettere un codice (attenzione, è una metafora) da stampare su un’etichetta (attenzione, è una metafora) e lasciare il fascicolo (attenzione, è una metafora) in uno scaffale ben preciso (attenzione, è una metafora) a disposizione di casi analoghi.

Il mio giovane collega mi consiglia di fare così e cosà e la cosa in effetti funziona, al netto del rischio che la relazione, nel frattempo, non abbia già preso una forma diversa da quella che credevo. I tempi di intervento delle persone e delle strutture che dovrebbero fornire sostegno a scuola e famiglie per i casi difficili sono così inadeguati da risultare ridicoli e paradossali. Con le organizzazioni pubbliche addirittura segnali il rischio di un disturbo dell’apprendimento o anche un problema più eclatante in seconda e, a essere ottimisti, ottieni una certificazione in quinta. Potete immaginarne l’efficacia in una fase della crescita e dello sviluppo così imprevedibile, come nei bambini. Ma, ripeto, io sono un copy con la passione per i Cure, per questo mi rivolgo costantemente a chi ne sa più di me, cioè chiunque.

Continuano però a sorprendermi certi metodi a dir poco d’urto che si adottano in caso di situazioni in cui la sicurezza dell’alunno problematico e, di conseguenza, di chi gli sta intorno, è a rischio, sostanzialmente perché la risolutezza di intervento è un meccanismo che non è proprio nelle mie corde. Non sono mai pronto a fare la cosa giusta quando ho poco tempo a disposizione, questo in generale, perché ho bisogno di riflettere a lungo per valutare, e purtroppo in natura è un approccio non ammesso. Senza contare che sbaglio sempre, indipendentemente da quanto ci metto ad agire. Se fossi una preda sarei già stato il pranzo di qualcuno una tacca sopra di me nella catena alimentare da un pezzo.

Ho una collega che è un vero e proprio marcantonio e, per annientare le smanie autodistruttive di un suo alunno, uno scricciolo di terza, gli monta letteralmente sopra bloccandogli le braccia con le ginocchia e sedendosi sulle sue gambe. La sua classe è proprio a fianco alla mia e mi è già capitato di venire chiamato in soccorso per intercettare le sue fughe e impedirgli di fare dei danni. Quando succede, poi sto male tutto il giorno perché è facile far leva sulla forza, con un bambino, ma mi rendo conto immediatamente che si tratta di un’arma sovradimensionata.

Anche il collega esperto in pedagogia che vi ho introdotto prima non è da meno, quando lo vedo rispondere senza tanti complimenti agli assalti ciechi del suo asperger a bassissimo funzionamento. Lui ha anche un altro alunno arrivato da poco – un bambino che sarebbe come tutti gli altri se non gli fossero capitati in sorte due genitori a dir poco distratti – e che ora è in affido presso un’altra famiglia, per il quale adotta spesso soluzioni drastiche. Gli impartisce castighi esemplari d’altri tempi. Se si comporta male a pranzo lo sposta in un banco da solo all’altro capo della mensa e lo fa sedere voltato di schiena rispetto ai suoi compagni se l’ha combinata grossa. A quel punto gli vengono certi lacrimoni che, se fosse un mio alunno, mi metterei in ginocchio al suo fianco implorando le sue scuse e cercando di consolarlo nel modo più efficace. Come vedete, come educatore non valgo una cicca. Il mio collega dice di lui che ha una stima di sé bassissima perché ha la tendenza ad auto-infliggersi punizioni. Quando succede, gli dice che non deve farlo perché l’insegnante è lui (il mio collega) e che, per ristabilire l’ordine delle cose, una persona è sufficiente.

Ora sentite questa. Ieri l’altro andavo a zonzo per i vicoli della mia città preferita, probabilmente il centro storico più grande in Europa, un luogo d’altri tempi che, malgrado Airbnb e la gentrificazione, pullula ancora di spacciatori, microcriminalità, tossici e prostituzione. Non sto a dirvi quanto mi abbia sorpreso leggere scritto con lo spray sul muro di uno degli edifici fatiscenti di quei bassifondi la scritta “ilmiocognome merda”. ilmiocognome è il mio cognome, che non scrivo per ovvi motivi di privacy, e vi assicuro che non è così tanto diffuso. Ho abitato a qualche centinaio di metri da lì, più di venti anni fa, e un graffito così fresco non saprei come giustificarlo. In passato so di non essermi comportato bene con qualche persona, ma si tratta più che altro ex fidanzate con le quali non ho saputo chiudere senza perdere la dignità, mentre ora davvero cerco in tutti i modi di assumermi le mie responsabilità o, se proprio ho paura, mi sottraggo ai conflitti e ammetto di avere torto proprio per non alimentare inimicizie.

Sono stati i carissimi amici con cui mi trovavo in quel momento, veri esperti del quartiere, a tranquillizzarmi. Escluso che si potesse trattare di me, abbiamo formulato qualche ipotesi sulle cause dell’omonima nel graffito: un regolamento di conti tra pusher e clienti, una delazione, o più probabilmente un membro delle forze dell’ordine che non è andato tanto giù per il sottile con qualcuno della zona. Di certo, con questa merda, siamo parenti, in qualche modo. Io, ve lo giuro, non ho fatto niente, e poi da più di vent’anni vivo a duecento km da lì. Ho scattato però una foto alla scritta “ilmiocognome merda” perché non capita tutti i giorni di beneficiare di visibilità di questo tipo e l’ho messa come immagine della testata di Facebook. Non so se c’entri con la stima di sé, in questo caso di me, e con il discorso dell’infliggersi auto-punizioni, ma mi sembra tutto sommato il punto più basso di qualcosa che non so definire.

capire l’acca

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Ero mosso da una voglia irrefrenabile di chiedere all’impiegato vestito da infermiere che ha registrato i miei dati propedeutici alla somministrazione del vaccino che sport praticasse. Il camice era così teso all’altezza dei suoi bicipiti che non riuscivo a staccare gli occhi di dosso da quelle braccia inutilmente possenti per l’attività di data entry. Mi piacerebbe trascorrere almeno un giorno della mia vita con un fisico così, per vedere cosa si prova. Probabilmente mi divertirei a dare ceffoni a destra e a manca, anzi a destra e basta. Anche se, e immagino di avervi già informato, se fossimo provvisti di questa funzionalità mi reincarnerei per 24 ore in Stefano Bollani e non sprecherei nemmeno un minuto senza suonare al piano tutto quello che mi passa per la testa. Comunque, con l’infermiere, mi sono trattenuto per più di un motivo. 1. Non era il momento. 2. Non volevo che la mia curiosità passasse per broccolaggio, era del sesso sbagliato. 3. Era straniero e già stentava nella traduzione delle mie risposte in un linguaggio adatto alla digitazione finalizzata al completamento del certificato sul programma che stava utilizzando. E, last but non least, sono strasicuro che avesse i capelli tinti di nero. Il colore si diradava in un modo anomalo sulla pelle marrone scuro del suo cranio, fattore che ho interpretato vincolato a un’età non più verde. Io di quelli che hanno il fisico così e hanno più o meno i miei anni non mi fido granché. Quando vedo Lollobrigida tutto compresso nei suoi completi da fratellista d’Italia o l’ex compagno della presidentessa del consiglio gonfio come un bignè, penso a quanto tempo perdono in palestra anziché favorire le arti liberali, che poi la mia è tutta invidia. Quando mi sposto per la scuola con il mio portamento claudicante, curvo, asimmetrico e con gli abiti – sempre quelli – che mi cascano addosso, mi chiedo cosa pensino i miei colleghi. Anzi, lo so e lo leggo negli occhi di Rosina, la bidella, che mi fa notare che quando mi vede ho sempre qualcosa di tecnologico in mano, anche quando porto una ciabatta, nel senso della multipresa, a chi ne ha bisogno. Gli edifici scolastici vecchi come quello in cui lavoro io hanno impianti elettrici molto datati e gli accrocchi tra prese grandi, piccole e schuko sono la risposta concreta ai corsi sulla sicurezza che ci propinano con cadenze ossessivo-compulsive. Non è raro scorgere gruppi scultorei composti da spine di diversa natura che farebbero venire i capelli dritti a qualunque elettricista dotato di buon senso anche se, per ora, chi rischia le conseguenze delle dita nella corrente sono solo i docenti e i bambini educati a casa liberi di fare qualsiasi cosa. Rosina mi è molto simpatica perché è la prima collega che ho conosciuto – si è rifiutata di farmi entrare, il primo giorno, perché non mi aveva mai visto prima – e, al rientro dalle vacanze estive, ci abbracciamo sempre. Se non deve pulire o sbrigare qualche altra faccenda, se ne sta seduta a completare parole crociate o a leggere. La scorsa primavera la vedevo tutta immersa ne “Il minore”, il libro del principe Harry. Ora è circa a metà di una biografia di Frida Kahlo che curiosamente chiama Frida Osho, forse pe la presenza fuori posto, almeno secondo i canoni grammaticali che si imparano in una primaria come la nostra, dell’acca nel cognome. Lunedì scorso ho provveduto a una supplenza in una prima ed è grazie a lei che me la sono cavata con la parte più ardua della didattica, e cioè aiutare i bambini a indossare piumini e annodare sciarpe. Avevo dimenticato questo aspetto collaterale del mio mestiere. I miei alunni – ho una quinta – ormai sono grandi e già non mi stanno più ad ascoltare. Sono già all’ultimo anno del mio primo ciclo, chissà come sarà ripartire da capo.

pelo

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Ho un’amica che compra una qualità di cibo per gatti pensata per i periodi dell’anno in cui il pelo è più arruffato. Sostiene che queste incertezze nei cambi di stagione non siano vissuti al meglio da Scheggia, la sua gatta. L’escursione termica in questo strascico di estate tracimata nell’autunno, aggiunta all’alternarsi di alta e bassa pressione, confonde il naturale adattamento dei felini all’ambiente in cui vivono. Perdono il manto estivo soppiantato da quello dei mesi più freddi, ma ecco che il ritorno di un clima temperato genera scompiglio nei loro processi vitali e così il pelo non capisce più niente e si arruffa. Quest’estate la mia gatta, che ormai è anziana, ha avuto qualche problemino di salute dovuto principalmente alle conseguenze del grande caldo sul suo apparato digerente. In genere l’estate non fa bene ai gatti, mi ha rassicurato il veterinario, che ha sottoposto la mia Doremi a un paio di punturoni e le ha prescritto del cibo di tipo gastrointestinal. Io pensavo si trattasse di una marca, invece ho scoperto trattarsi di un prodotto trasversale commercializzato da quasi tutti i brand di pet food da sottoporre ai gatti con problemi di dissenteria e vomito. Scartabellando tra gli scaffali avevo notato anche scatolette e buste di crocchini adatte per i casi di pelo arruffato e, tra di me, avevo pensato che nessuno se ne sarebbe mai servito. Voglio dire, è già tanto che i gatti non stiano tra di loro all’aperto a cacciare topi e uccellini o abbandonati ai caselli autostradali o, come succedeva ai tempi di mia nonna, a contendersi scarti nella spazzatura delle cascine di campagna. Scherzo eh, ho molti lettori amanti degli animali. Anzi, sono fermamente convinto che tutta questa attenzione a cani e gatti abbia definitivamente avviato un nuovo periodo storico, quello dell’animalesimo, in cui la bestia domestica è il vero fulcro della società. Tutta questa attenzione permetterà la loro evoluzione ed è un bene, per lo meno siamo sicuri di lasciare tutto questo ben di dio a esseri umani con un po’ di buon senso.