frutta di stagione

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Il nonno Gigetto è il parente prossimo che mi sono goduto di meno perché è morto quando avevo cinque anni. Nonostante questo conservo alcuni ricordi sorprendentemente nitidi del poco tempo passato con lui. Vivevamo tutti insieme nella stessa casa, ci dava dentro con il vino – era un contadino poi riciclatosi dopo la guerra carpentiere di città per sfuggire alla povertà della campagna – e a cena me ne versava un goccio nell’acqua effervescente fatta con le bustine dell’idrolitina, che in famiglia ci arrogavamo immeritatamente il diritto di chiamare, in modo pretenzioso, acqua di vichy. Ho una vaga reminiscenza anche di quella volta in cui accontentò un mio capriccio comprandomi al mercato un gioco che poi, mezzo secolo dopo, ho adocchiato a un prezzo esorbitante sulla bancarella di un rigattiere: era una pista a forma di otto su una base metallica rettangolare, un nastro a cui bisognava dare la corda e che trasportava automobiline e camioncini lungo una strada fuori e dentro una galleria, dove per me resta tutt’ora un mistero cosa succedesse là sotto dove le due direttrici del percorso si incrociavano. Su tutti, però, lo vedo ancora oggi gustare l’uva con il pane, a fine pasto, abitudine che poi ho fatto mia da adulto, con grande soddisfazione. Ma vivevamo in Liguria, c’erano i besagnini sotto casa – per non parlare degli alberi e dell’orto della nostra cascina in campagna – e frutta e verdura non erano certo un problema. Anzi. Mia nonna ci sfiniva con tanta di quella marmellata di pesche, albicocche, ciliegie e mele che le mie sorelle ed io gettavamo i panini della merenda alle galline, a fine estate, tanto eravamo stufi di mangiare sempre la stessa cosa.

Non so poi cosa sia successo, probabilmente il cambiamento climatico o lo stesso processo per cui l’acidità degli yogurt della mia infanzia è stata soppiantata dalla panna per conquistare nuovi target, fatto sta che qui a Milano e dintorni la frutta costituisce un problema. I negozi dei fruttivendoli sono secondi solo alle gioiellerie e la frutta dei supermercati è insapore (e nemmeno così abbordabile). Nel migliore dei casi sa di acqua e zucchero. Quest’anno, poi, è stato particolarmente nefasto per l’agricoltura e, negazionisti meloniani a parte, tutti dicono che sarà sempre peggio.

Noi comunque ci riforniamo dal Marco. Il Marco è un marcantonio che si sposta con un camioncino tra i paesi dell’hinterland – con tutte le licenze necessarie – e si parcheggia a vendere i suoi prodotti. Prezzi e qualità sono a metà tra grande distribuzione e botteghe bio, tutto sommato un buon compromesso e lo ha ammesso anche lui che quest’estate la frutta non è stata niente di che. Nonostante l’agglomerato di periferia in cui vivo abbia tre o quattro punti di sosta fissi dove noi clienti lo raggiungiamo e ce ne sia uno praticamente sotto casa mia, io mi servo di lui ogni martedì alle 18 nel cortile del quartiere di case a proprietà indivisa in cui abita mia suocera ultranovantenne, perché per me risulta l’orario più comodo. Prendo la bici, faccio la spesa, metto le sportine nel cestino e, facendo attenzione alle uova, torno a casa.

Mi risulta che il Marco non si sia mai sposato. Me lo ha confermato la scorsa settimana, pochi giorni prima che uscisse lo spot dell’Esselunga con la pesca e i genitori divorziati. Mi prende sempre in giro perché nell’immaginario popolare gli uomini che si occupano della spesa sono telecomandati dalle mogli e mi fa le battute, ogni volta, invitandomi ad acquistare la frutta non di stagione o le primizie a prezzi esorbitanti e le conseguenze che possono generare nella vita di coppia. Però mi avvisa se le pesche sono troppo care, o non sanno di niente, o se è meglio prendere le prugne perché oramai la stagione delle albicocche è finita. Non ha nemmeno figli, quindi la cosa finisce lì e, a differenza della frutta dei supermercati, non c’è il rischio di polemizzare su nulla. Canzona amorevolmente tutti: le vecchine, compresa mia suocera ultranovantenne, i vedovi che comprano lo stretto necessario. Per le giovani mamme con i bimbi nel passeggino ha un tono diverso, com’è facile immaginare.

Mi piace anche il fatto che si rivolga a me in milanese quando io, savonese con trascorsi genovesi, il dialetto di qui non lo capisco. Credo sia anche più giovane di me ma appartiene a quel mondo di paese senza tempo, dove gli anziani sembrano anziani da sempre, quando invece un ottantenne del 2023 ha avuto quarant’anni nel 1983 e deve aver per forza ascoltato i Depeche Mode come me, ma invece sembrano tutti usciti da una balera di liscio come gli ottantenni del 1983, spero di essermi spiegato. Il Marco è un marelot, come dicono quelli come lui a proposito di quelli come lui, e me lo immagino alla sera con gli amici al bar a giocare a biliardo o la domenica mattina a bere bianchi macchiati in attesa di ascoltare “Tutto il calcio minuto per minuto”. Quando mi vede mi dice “ciao bagai”, ma lo dice a tutti, e così mi fa sentire un po’ uno di qui.

flixbus

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Con l’introduzione dell’orario definitivo ho ripreso a fare musica in classe. Ieri – è stata la prima lezione dell’anno – per partire con il piede giusto ho creato insieme ai bambini, che a dir la verità sono quasi ragazzi, siamo in quinta, una playlist di classe su Spotify. L’iniziativa fa parte di una serie di attività che vorrei portare a termine quest’anno finalizzate a cose che mi piacerebbe che i miei alunni portassero con sé lungo il percorso che li aspetta da giugno in poi. Qualcosa che, da grandi, guardandolo o ascoltandolo o leggendolo possano ricordarsi della nostra esperienza comune, quello che abbiamo fatto, il tempo trascorso insieme, le esperienze condivise, l’amicizia con i compagni.

Il rischio è che sia uno sforzo inutile, un progetto fine a se stesso. Non c’è passaggio di crescita come quello tra l’infanzia e l’adolescenza in cui ci si vergogna e si gettano via le cose del passato e, giustamente, si guarda al futuro, senza contare che, diventando grandi, è facile dimenticarsi di reminiscenze così remote. Non solo. Molti dei manufatti – fisici o virtuali – che si realizzano a scuola sono costruiti con materiali che si guastano nel giro di poco tempo. Anche se fossero fabbricati in acciaio o in qualsiasi altra lega metaforica, guardiamo i prodotti dell’educazione dei nostri figli alla primaria sicuramente con nostalgia ma consapevoli che non c’è spazio – se non volatilissimo, per esempio sotto il piatto del pranzo di Natale – nella vita e negli ambienti degli adulti per le cose da bambini. Pensate se avessimo conservato gli scarabocchi o le statuine in das di tutti i figli degli esseri umani dagli uomini primitivi in poi. Provate a sbirciare con occhio più responsabile nelle vostre cantine, nei vostri vecchi hard disk o anche nelle vostre coscienze. Noi insegnanti, per primi, siamo consapevoli che i bambini dicano e facciano e scrivano e propongano e pensino un mucchio di stronzate che per la vita e il mondo e la storia e l’economia e la politica sono superflue, peraltro sprecando una quantità di energie e di risorse con le quali potremmo risolvere come minimo il problema della fame nel mondo. Pensate quanti dischi potreste comprare con i soldi che spendete per giochi dei vostri figli, ecomostri in plasticaccia con tempi di degradabilità calcolati in ere geologiche, costruiti in Cina e progettati con un ciclo di vita inferiore alle 24 ore. Potremmo imparare qualcosa, se ascoltassimo i nostri figli, è quello che ci diciamo sempre. Ma poi qualcuno ci ruba il parcheggio, ci passa davanti in fila alla cassa dell’Esselunga, ci chiama per cambiare gestore del gas, prendiamo una multa e siamo daccapo.

La playlist di classe, i brani li scelgono loro, com’è facile immaginare è una scaletta vergognosa. Vi dico solo che l’unica canzone che si salva è il tormentone di Bruno Mars, per il resto c’è da mettersi le mani nei capelli. Forse il percorso evolutivo degli esseri umani è stato pensato così proprio per evitare, una volta grandi, di provare vergogna per i gusti di merda che abbiamo da piccoli. E, in questo periodo storico, con il pop puberale abbiamo davvero toccato il fondo ed è un peccato, perché non ricordo di aver ascoltato novità musicali interessanti come negli ultimi dieci anni a questa parte. Ieri sera, per dire, ho seguito la prima puntata in chiaro delle audizioni di Xfactor e la cultura musicale che c’è in giro è talmente disarmante che ho spento la tv, dopo la sigla finale, con un fortissimo senso di colpa per aver sprecato così tanto tempo in un’attività inutile. Che mi serva da lezione, mercoledì prossimo metterò su un ellepì della mia collezione, guarderò un film, leggerò un libro, andrò a prendere un gelato con la mia famiglia, ci sono tante cose più interessanti della deriva della società contemporanea ai tempi della meloni.

Qualche barlume di speranza sul futuro me la restituisce mia figlia, anche se so che sono di parte. Non avendo nulla da insegnarle, perché sostanzialmente non so combinare granché, però sono riuscito almeno a trasmetterle un po’ di amore per la musica, credo lo stesso che mi hanno trasmesso i miei genitori che, a loro volta, hanno ricevuto dai loro e così via, chissà fino a quante generazioni a ritroso nella mia famiglia. Oggi l’amore per la musica nei giovani non è così scontato, lo so di scrivere una banalità ma è così. La musica è un aspetto a corollario di altre cose, meme, videogame, balletti su TikTok ed esibizionismi di questo tipo, ma non ci si concentra più sull’atto artistico che sottende ai sottofondi della nostra vita, del nostro divertimento, dei nostri momenti romantici, di quando ci sfoghiamo o balliamo o ci viene nostalgia perché una combinazione di note ha fatto vibrare chissà quale cellula del nostro corpo. La musica deve vedersi in video, altrimenti è palpabile poco più del gas di scarico di un’auto.

Mia figlia ha il mio stesso approccio ossessivo alla musica, forse non è bello ma cosa ci volete fare. Nel giro di qualche mese è andata poco più che in giornata a Viareggio a vedere Lana Del Rey, a Monaco di Baviera per il concerto di The Weekend (“papà all’Ippodromo di San Siro c’è un’acustica pessima e poi c’è troppa polvere”), nei dintorni di Firenze per un happening di techno che è durato dodici e ore e a Napoli per vedere Liberato in piazza del Plebiscito. È partita di notte con un Flixbus da Milano, si è ricongiunta all’arrivo la mattina dopo con alcuni ex compagni di liceo che erano già lì, ha visto il concerto la sera, ha dormito da un’amica e la mattina dopo è rientrata in treno. Mi ha condiviso un po’ di foto e di video che mi hanno confermato che, per me, la stagione dei concerti è finita. Un mare di smartphone puntati verso il palco a riprendere pezzi di esperienze a cazzo che poi nessuno rivedrà mai più, come le letterine per la festa del papà o i lavoretti di pasqua e tutte quelle cose che si preparano a scuola e che nessuno ha ancora capito che fine facciano.

per giove

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Ho preso in biblioteca un dizionario della mitologia e dell’antichità classica ma non è proprio quello che cercavo. Avevo un bellissimo libro di epica alle medie che riportava nomi e avvenimenti ma in ordine di successione, sempre che sia possibile trattare la materia così. Il risultato era una vera e propria storia romanzata dell’immaginazione di greci e romani, con il valore aggiunto di testi letterari, come è facile immaginare. Invece l’ordine alfabetico viene in aiuto solo durante le parole crociate o poco più, ma un testo come piace a me non saprei come cercarlo. Tutto questo perché al bookstore del museo archeologico di Napoli ho notato un volume dal titolo “Infografica della Roma antica” il cui contenuto mi ha intrigato moltissimo. Ho ideato decine di infografiche nel lavoro che svolgevo prima ed è una passione che coltivo ancora a differenza della mitologia che adoro ma di cui, ormai, ricordo ben poco.

le dieci cose migliori da fare a partire da dopodomani

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Se ne riparla a settembre? Bene, allora tenetevi pronti perché è iniziato il conto alla rovescia. Il collegio docenti, che è il nostro vero e proprio kick off, quest’anno capita di lunedì 4 e, credetemi, non c’è inizio migliore di un inizio procrastinato, soprattutto in un ambiente come la scuola in cui si procrastina qualunque cosa. Se qualcuno dei vostri dirigenti l’ha piazzato venerdì 1 è chiaro che non gli hanno voluto bene da piccolo e, di conseguenza, non vuole certo bene a voi. La brutta novità, quest’anno, è che mi hanno proposto anche un accesso admin al registro elettronico, e chi sono io per dire di no. Ho ricevuto anche la richiesta di consultare l’oracolo di ChatGPT per tentare la divinazione dell’orario della secondaria. Ho interpellato un esperto che ha tenuto un corso di formazione a cui ho partecipato qualche giorno fa e l’ha messa giù facile. Compila un foglio Google con tutti i dati e prova a darglielo in pasto, mi ha suggerito. Ma c’è una novità ancora peggiore. Mi trovo in mezzo a riunioni organizzative in cui capisco sempre meno. Probabilmente è l’età o forse ho lasciato il cervello in macchina sotto il sole e c’è più poco da fare. In più rientra una collega amministrativa molto molto stressata che, quando va nel panico, quindi piuttosto spesso, mi chiama per chiedermi come fare ma parla solo lei e non riesco mai a fermarla per darle le risposte che potrebbero tranquillizzarla. Chiudo questa veloce lista di cose negative con quello a cui mi piacerebbe dedicarmi quest’anno, a partire quindi da lunedì, e che, come sempre, non inizierò nemmeno, smetterò alla seconda volta, rinuncerò alla terza, mi dimenticherò, rimanderò a più avanti tanto, ormai, se ne riparla dopo natale:

  • registrare e pubblicare tanti podcast
  • fare il DJ in qualche circolo di anziani
  • leggere tanto
  • andare a correre in posti diversi anziché farlo sempre sotto casa per la pigrizia di non prendere l’auto e non impestarla sudato come un maiale per tornare a casa a corsa finita
  • andare più spesso a teatro
  • andare più spesso al cinema
  • sperimentare di più in classe

Tenete d’occhio la lista perché sarà in costante aggiornamento.

in toto

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Nel frattempo ho capito due cose. La prima è che i lavori del 110 si chiamano così perché ci mettono 110 mesi per completarli. La seconda è che l’usanza di postare qualcosa inserendo il link nel primo commento su Facebook e specificando l’intenzione nel post principale non serve a nulla se non a far perdere tempo agli utenti. In realtà ce ne sarebbe una terza, la scrivo di seguito senza correggere il numero su perché fa troppo caldo: fa troppo caldo e non si finisce mai di sudare, questo dimostra l’elevata percentuale di acqua di cui è composto il nostro organismo, quindi il numero che spariamo per impressionare i nostri alunni non fa una grinza. Nella settimana che si avvia alla conclusione, e che verosimilmente decreta la fine di tutte le vacanze e delle vacanze di tutti, ho già ricevuto tre mail della mia dirigente, due di colleghi e altrettante dalla segreteria. Lunedì possiamo dare inizio ufficialmente alle danze. Parteciperò a una specie di meeting dedicato all’intelligenza artificiale per scopi didattici. Non vorrei sembrarvi il solito detrattore, ma tutte le cose che ho provato sull’impatto di ChatGPT , Dall-E e compagnia bella nella scuola non promettono niente di buono. Il punto è che in uno scenario in cui si fatica a usare Excel – uno strumento che risolverebbe almeno i tre quarti dei problemi organizzativi della scuola italiana – l’inserimento di una tecnologia di prossima generazione manderà un intero sistema in tilt. Anch’io mi sto dedicando alle creazioni artistiche sfruttando questa tecnologia. Quella che vedete qui sopra è “Toto Cutugno ma di spalle”. Quella che segue è una di quelle che preferisco e si intitola “una rock band che suona strumenti preistorici impugnati al contrario”.

divieto

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A ridosso degli ultimi tornanti della strada provinciale che conduce a Milo, il paesino alle pendici dell’Etna in cui ha vissuto Franco Battiato e dove aveva una casa persino Lucio Dalla, ci sono dei vistosi (quanto non ufficiali) cartelli “vietato suonare”. Pensate se i due – che non vi nascondo essere i miei cantautori italiani preferiti, ma immagino anche i vostri – avessero applicato la normativa alla lettera, di quanti capolavori ci avrebbero privato. Un divieto legittimo è invece quello che impedisce ai turisti più o meno sprovveduti di avvicinarsi alle zone più pericolose del nostro vulcanone nazionale, e sono tante. Crateri attivi, bocche che emettono suggestivi anelli di fumo e il costante rischio di esalazioni letali persino per chi calza scarpe da trekking old-fashioned come le mie. In una Taormina presa d’assalto da coppie che si sposavano e da turisti alla ricerca del resort di lusso impiegato come set di “The White Lotus”, ci sono cascato anch’io e ho scattato persino la foto che trovate qui sopra. In una viuzza del centro ho poi sostato al cospetto di una splendida vetrinetta stipata di teste in ceramica e altri manufatti tipici dell’artigianato locale. Anche lì dentro qualcuno aveva posizionato un cartello con un altro invito pensato per limitare la mia libertà di espressione. C’era scritto “vietato fotografare” e non vi nascondo che lo sforzo per trattenermi dalla trasgressione a quella sciocca regola è stato ciclopico. Mi sono anche trattenuto dal non capovolgere un libello sul mascellone giustamente appeso al contrario in una celeberrima piazza di Milano sfoggiato in bella vista nella sala colazioni di un b&b in cui ho soggiornato e non l’ho fatto solo perché il proprietario – nonché fan del più grande traditore del nostro popolo di tutti i tempi – fondamentalmente era una brava persona, un’idea che avrò di lui almeno fino a quando non me lo ritroverò armato di tutto punto a fare la guardia a me e a tutti gli altri elettori del PD raccolti in uno stadio dopo la definitiva sterzata nazifascista di cui il nostro paese si sta rendendo protagonista. Avete letto le minchiate sugli autori della strage di Bologna? Amici, sappiate che si tratta del solito trucco vecchio quando Walter Veltroni. A destra sparano provocazioni sulle quali noi democratici progressisti ci precipitiamo come belve affamate all’ora del pasto principale. E mentre facciamo a gara – dal vivo e sui social – a chi è più indignato (oggi per il 2 agosto, domani per i diritti civili, dopodomani per i migranti) gli artefici di questo regime, indisturbati, mettono a segno le peggio cose. Povera patria.

MCMLXVII

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La #cultura non va in #vacanza. #Stasera siamo al #TeatroGreco a vedere #Odisseo di #PaoloRossi insieme ad altri #fighetti del #PD. Avrei coronato una giornata di mare estremo con un post su FB di questo tipo se mia moglie non me lo avesse impedito. Sosteneva che nessuno avrebbe colto l’ironia. Ma ne avevo un altro in canna da qualche giorno che forse era ancora peggio. Malgrado siano contemplati dal programma di terza e di quarta, non ho ancora insegnato ai miei bambini i numeri romani ma forse è meglio, così da grandi eviteranno di tatuarsi addosso le date importanti. Faremmo una figura meno tamarra con i numeri arabi, se non fossimo così intrinsecamente razzisti per marchiarci con qualcosa che non è made in Italy. Oltre a essere il popolo più illustrato del mondo – ho letto che abbiamo surclassato persino i Maori come percentuale di pelle impiastrata a cazzo – gli italiani comunque li riconosci anche per come ciucciano in modo forsennato le sigarette elettroniche, l’uso in viva voce in pubblico dello smartphone per le conversazioni, i messaggi vocali e l’ascolto di musica di merda, la narrazione della ricerca di radici e tradizioni e lo starsene imbambolati a guardare il nulla sulle spiaggine sotto l’ombrellone, a parte i #fighetti del #PD come me che leggono libri rigorosamente al profumo di carta. Avete notato che sono quasi spariti gli e-reader? Ci riflettevo in fila nell’attesa che aprissero i cancelli dello spettacolo di cui sopra fino a quando a una carampana palesemente di sinistra al mio fianco è partita la suoneria del telefono che era l’Internazionale. Anch’io l’avevo impostata sul mio Nokia 8110, era il millennio scorso, ma rispetto alla facilità di gestione degli audio dei dispositivi di ultima generazione, allora era uno sbattimento che non vi sto a raccontare. Anzi, ve lo racconto a chiusura di questo aggiornamento sulle mie vacanze estive. C’era un programmino online in cui era possibile comporre melodie alternando le note e le pause. La suoneria, una volta pronta, bisognava inviarla via SMS al proprio telefono e bastava un clic per installarla correttamente. Un’ultima cosa: in Sicilia hanno votato in massa Schifani e si vede.

menta coach

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Nulla è più illusorio di un ghiacciolo. Due ghiaccioli, forse, ma dopo viene sete e voglia di accendersi una siga. Le strade sono deserte ed è un peccato perché hanno appena posato l’asfalto nuovo. La successione dei primi due accordi di “A Salty Dog” crea dipendenza in questa ostinata ricerca di cose che buttano giù. Le trombe d’aria non hanno nulla di jazz se non posare i rami caduti come acciaccature che sfiorano appena l’auto nel parcheggio, almeno la mia, a vantaggio delle note su cui puntare durante un’improvvisazione. Gli animali si ammalano per il caldo, gli umani per fuggirlo ascoltano vecchie canzoni polverose con video in quattro terzi a colori sgranati e bande laterali a estendere il segnale per la sua fruizione in sedici noni. Nei documentari sugli antichi non si parla mai di dove trascorressero le vacanze. Se mi date un ufficio con l’aria condizionata come tutti i cristiani, una scrivania e una sedia comoda, una connessione accettabile, un orario da quaranta ore la settimana e uno stipendio di conseguenza, non ho problemi a lavorare fino a fine luglio. Però voglio poter scegliere quando partire e, soprattutto, se partire. Basta che non mi mettete in mano ai mental coach, ai motivatori, ai formatori di professione. Per chi mi avete preso? I libri si fanno più pesanti e le parole più sfocate. Aumentano i prezzi della frutta che, manco a dirlo, sa a malapena di acqua e zucchero. Ma i giovani non credono a tutto questo, al lavoro, al cambiamento climatico, ai diritti civili, al post-punk. C’è qualcuno, nascosto dietro a quei ponteggi, che sta scrivendo una raccolta di storie che si intitola “I racconti del 110”. Il primo parla di un contractor che a metà lavori porta i libri in tribunale. D’altronde, una pioggia di miliardi data al paese più corrotto, con la manodopera più scarsa e in piena crisi di democrazia dell’Europa. Cosa potrebbe andare storto?

hotel opel

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Prima ho chiesto alla signora che abita nella Opel Insigna qui nel parcheggio dietro casa mia se preferisse occupare lei, con la sua vettura, il posto all’ombra sotto gli alberi dell’aiuola centrale. Non ho ricondotto il suo rifiuto al fatto che, in estate, lasciare una macchina alla mercé di certe piante in piena fioritura è un rischio che non tutti amano correre. Il confort dell’ombra in queste giornate dal clima surreale lascia il retrogusto appiccicoso di quel polline che concia la carrozzeria da sbattere via. Lei si era messa di sbieco ed era ferma ma col motore acceso. Ho indugiato qualche istante e poi, non vedendo reazioni, mi ci sono infilato io. Sono sceso e mi sono rivolto a lei come se non l’avessi mai notata cenare con junk food e dormire in auto, da un mese a questa parte. Ogni tanto scende a fumare una sigaretta con grande dignità – non sembra nemmeno vestita male – ma state sicuri che quando la macchina è ferma con i finestrini giù lei è dentro l’abitacolo, anche se non si vede. Le ho parlato come se si trattasse di un vicino di casa come tutti gli altri, facendo finta di non sapere che, a differenza degli abitanti del quartiere, non è associata a un domicilio raggiungibile da un corriere Amazon. Non è sembrata sorpresa della mia offerta, so benissimo che sa chi sono da tutte le volte in cui scendo o per correre o per mettermi al volante. Potrei avvisare la polizia locale, in modo che la segnalazione giunga ai servizi sociali. Potrei darle una mano anche se giocare a carte scoperte abbatterebbe un muro di riservatezza che non è alla mia portata. Si sposta con la sua Opel da un posto all’altro del parcheggio per sfuggire il più possibile all’afa. Capita che l’auto sia vuota, qualcuno sostiene che si rechi al lavoro e che faccia la badante, durante il giorno. Nel frattempo la temperatura sale. Le ho chiesto se volesse lei il posto all’ombra ma mi ha dato una risposta distratta, come se non l’avesse per nulla notato ma, al contrario, stesse guidando per scorgere la giusta direzione in una metropoli sconosciuta malgrado ci trovassimo tra quattro fila di posti, in quel parcheggio striminzito. Forse attende il primo stipendio per cercarsi una sistemazione stabile. Vi tengo aggiornati.

doppia spunta blu

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Risulta difficile immaginare una storia ambientata ai nostri tempi priva di riferimenti alla tecnologia, che è la versione scritta dell’impossibilità di fare una foto a un monumento o un palazzo storico senza una macchina davanti. Se è vero che controlliamo lo smartphone in media ogni sette minuti – un dato di qualche anno fa, la frequenza sarà sicuramente peggiorata – sembra innaturale descrivere i protagonisti di una qualsiasi scena al netto di questo comportamento ricorrente ripetuto in modo realistico. Oppure possiamo fare finta di nulla e filtrare quello che vediamo con gli occhi romantici della retromania, come quelle serie per i teen che mescolano iPhone e compilation ascoltate sui mangianastri. E allora, può esistere un romanzo di formazione senza TikTok? O una storia d’amore senza Whatsapp, un road movie senza Google Maps, un incontro fortuito non favorito da Tinder? Un racconto con una coppia a cena che non fa nemmeno una foto a un piatto, un viaggio in tram in un film con un quotidiano sotto il naso, gente che, in un romanzo, aspetta il verde per attraversare la strada scrutando il semaforo anziché controllare l’ultima notifica. O, nelle nostre serie tv preferite, un temporale non previsto dalle app di meteo, una corsa non tracciata, persone che camminano libere dallo smartphone rivolto di taglio verso l’orecchio o che, durante le riunioni di lavoro, non scrollano annoiate l’home page dei loro profili social. Ogni tipo di paesaggio – urbano o rurale, affollato o deserto, esotico o familiare – oggi deve essere raccontato nella sua multipla identità: il reale, il virtuale, l’immersivo e l’aumentato. E se tali componenti fossero omessi ce ne renderemmo conto perché proveremmo il disagio di assistere a un’opera di fantascienza al contrario, il ritorno agli effetti normali. Soffriremmo l’assenza del nucleo della nostra vita, ci troveremmo di fronte a un buco narrativo con degli esseri viventi intorno.