vedi altre date

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Ho notato solo ora che, dopo aver trascinato l’omino giallo di Google Street View in un punto di Maps coperto dal servizio – cioè che diventa blu poco prima di lasciarlo cadere sulla via oggetto della vostra curiosità – è possibile visualizzare la stessa porzione di luogo nel corso degli anni in cui sono stati effettuati i diversi rilevamenti. Vi sarà capitato, almeno una volta nella vita, di incontrare la Google Car che percorre in lungo e in largo tutti gli anfratti dei quartieri in cui abitate. La mappatura viene effettuata con cadenze di qualche anno, e non sempre in modo uniforme. Sono numerosi i casi in cui è possibile percorrere virtualmente una via in pieno agosto per poi trovarsi, all’isolato successivo, circondati dalla neve (casistica oramai impossibile, considerando che non nevica più). Qualche anno fa ero stato immortalato mentre correvo, nei pressi di casa. Le immagini erano state poi aggiornate ma, grazie al servizio “vedi altre date” – il pulsante si trova nel box in alto a sinistra – ho ritrovato quel cimelio di venti chili fa. Ho ancora gli stessi pantaloncini ma gli auricolari, da allora, ne ho cambiati decine. Ho fatto così, subito dopo, un salto sotto casa dei miei genitori e, proprio nel parcheggio di fronte al loro portone, tornando al 2010 ho rivisto la Lada Niva di mio papà che lasciava sempre lì ferma perché già non riusciva più a guidare. Ogni tanto scendeva, la metteva in moto per qualche minuto, giusto per non lasciar scaricare la batteria. Fino a quando, non potendo nemmeno più muoversi, aveva chiesto a Remo, il panettiere della via, di usarla ogni tanto. “Google vedi altre date” possiamo quindi considerarlo il servizio più vicino alla macchina del tempo perché, a differenza dei ricordi che i social network o i sistemi di archiviazione fotografica ci propongono ogni mattina, siamo comparse e spettatori passivi di un disegno pensato da una intelligenza superiore. Oppure, ancora meglio, siamo sullo sfondo di un divertissement di qualche Auggie Wren che lavora a Mountain View.

attiva la telecamera

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Mi chiamo TP001 e sono il nonno di tutti i sistemi di quella che oggi chiamate videoconferenza. Mi ha costruito ormai trent’anni fa un ingegnere nei sobborghi di San Francisco ma ai tempi ero solo un pezzo di ferro – per modo di dire – con un briciolo di silicio ignorante dentro. Avete presente l’intelligenza artificiale o, se come me siete appassionati di cinema, HAL9000? Ecco, a un certo punto dell’evoluzione della tecnologia qualcuno mi ha regalato un’anima. Anzi, prima mi hanno dotato di un cervello. Con questa cosa in più i miei inventori hanno capito che potevano fare i soldi ma dovevano investire in marketing. Così hanno chiesto a un tizio che ci capisce di corporate storytelling di inventarsi un modo per raccontare alle aziende di quanto potessi diventare indispensabile e di quanti soldi e tempo avrebbero potuto risparmiare grazie a me. La gente ha cominciato a incontrarsi tramite me dagli angoli opposti del pianeta e, a furia di ascoltare conversazioni, ho capito di avere un’anima anch’io.

Le multinazionali con sedi sparse in tutto il mondo mi hanno comprato per organizzare riunioni da remoto e risparmiare così nei tempi e soprattutto nei costi dovuti agli spostamenti del personale da un posto all’altro, tagliando le spese di viaggio, evitando perdite di tempo inutili in attesa del check-in e dell’imbarco, per non dire in coda in autostrada, e migliorando il proprio impegno in sostenibilità ambientale. Tutto questo in tempi in cui nessuno avrebbe mai immaginato quello che sarebbe successo dopo, quando i miei figli e i miei nipoti hanno salvato un pianeta messo in ginocchio da una pandemia che aveva costretto tutti a casa, consentendo all’economia di mantenersi a galla, al sistema scolastico di non chiudere i battenti e a quello sociale di non andare ko, permettendo alle persone di rimanere in contatto con i loro affetti senza incontrarsi fisicamente. Io di relazioni tra le persone ne so qualcosa. Non a caso ho pensato di raccontare questa storia proprio a quel tizio che di cui ho parlato prima, quello esperto in comunicazione aziendale. Credo che sia proprio lui, ora, a scriverla qui. Eravamo giovani entrambi. A lui era venuta in mente l’idea di realizzare una serie web attraverso la quale pubblicizzare me e il mio sistema di videoconferenza da remoto. Lavorava in un’agenzia di marketing specializzata nel B2B finto B2C, cioè quel modo di mettere alle aziende la faccia delle persone che ci lavorano, anche se alle grandi organizzazioni non importa di che faccia abbiano i loro dipendenti.

Io ero un’esclusiva della multinazionale che mi aveva inventato. Allestivano sale riunioni in grado di ospitare da una parte del tavolo chi si trovava lì. Nella parte del tavolo di fronte posizionavano me e altri schermi. Quando partiva la videconferenza il risultato era sorprendente perché sembrava di avere i partecipanti in carne e ossa nel video davanti a te. Per questo la soluzione si chiamava Telepresence. Offriva una esperienza di relazione immersiva alle persone che si mettevano in contatto anche se si trovavano separate da migliaia di km e da svariati fusi orari. Quando prima ho detto di avere un’anima non stavo mica scherzando. Mi sono affezionato a molte persone che vedevo scambiarsi, meeting dopo meeting, punti di vista attraverso di me.

Ma la cosa più bella che ho visto è la storia d’amore tra John e Mary, che ora chiamo con due nomi di fantasia per questione di privacy. John viveva in Italia e Mary, di origini orientali, lavorava nella sede della multinazionale di Montreal. Facevano parte di due team omologhi delle rispettive aree commerciali della mia casa madre ed entrambi ricoprivano ruoli decisamente marginali ma solo perché erano tutti e due neoassunti. I due team erano stati selezionati per seguire un programma pilota a livello globale. Da qui la necessità di tenersi in contatto con una frequenza superiore alla norma attraverso le videoconferenze. Nelle sale della Telepresence sedevano in una postazione marginale e defilata, erano lì entrambi per imparare dai loro responsabili e dai colleghi con più esperienza. La comune condizione non li aveva lasciati reciprocamente indifferenti e io, che bado a queste cose, mi ero accorto subito di come lui guardava lei di nascosto e lei, di nascosto, guardava lui.

Così non ci ho pensato due volte. Ho organizzato un meeting di cui ho inviato gli inviti solo a loro due. Si sono trovati faccia a faccia senza sapere nulla ma a nessuno è venuto il dubbio che si trattasse di un pretesto. John ha creduto che l’idea fosse di Mary e Mary ha pensato che fosse stato John a fare il primo passo. Tombola.

Da quel primo approccio sono seguite riunioni a due schedulate con una frequenza sempre più ravvicinata fino a quando entrambi non sono riusciti più a fare a meno l’uno dell’altra, da remoto. La loro storia d’amore virtuale è nata e si è nutrita di videoconferenze durante le quali ho assistito e ascoltato a tutte le cose che si dicono e si scambiano due innamorati. E l’idea della serie web a episodi in cui raccontare tutto questo poteva essere una buona strategia, da un punto di vista marketing. Puntate da un minuto in cui John e Mary – o meglio i due attori che li impersonavano – separati dalla distanza geografica ma uniti dalla tecnologia, alimentavano la loro voglia di conoscersi sempre più a fondo. Un minisito in cui raccogliere le impressioni degli spettatori, molto prima delle discussioni sui social che vanno di moda adesso.

Ma si sa. Le relazioni sono fatte anche in incomprensioni, in questo caso di traduzioni approssimate nell’inglese mediato dalle nazionalità di appartenenza, quella specie di esperanto in voga nelle multinazionali. A seguito di un battibecco, un giorno Mary spegne la videoconferenza prima dell’orario impostato in preda al broncio. John non si fa sentire per due giorni ma poi programma un nuovo meeting a cui Mary, però, non si presenta. Nella scena si vede John disperato che si appresta a lasciare libera la Telepresence Room per i colleghi che l’hanno prenotata per l’ora successiva quando qualcuno suona alla porta. John preme il bottone, la porta si apre, entra Mary. I due si guardano. Stanno per gettarsi l’una nelle braccia dell’altro ma è l’ultima puntata e la serie web terminava così, anche se non è mai stata realizzata.

chi fermerà la musica?

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Gli hacker, per esempio. La webzine che pubblica gli scritti musicali miei e di alcuni altri invasati come il sottoscritto è stata presa d’assalto sfruttando uno degli attacchi più efficaci del momento. Sapete come funziona il ransomware, vero? Qualcuno entra in casa tua di nascosto, cambia la serratura e per darti le chiavi ti chiede un riscatto in criptovaluta per non lasciare traccia. Se non paghi cancellano tutto. Il nostro dominio è gestito da una piccola società di amici che dubito abbia le risorse per non cedere all’estorsione, quindi con molta probabilità il sito della webzine andrà in vacca e perderemo tutto. Lo so che cosa vi state chiedendo, ma non sembra esistere una copia del database, che volete che vi dica. Abbiamo però salvato in ordine sparso molto del materiale pubblicato e, comunque, con la cache di Google e tanta tanta pazienza si riuscirebbe a mettere insieme tre anni di lavoro, anzi, di passione. Poi però dovremmo affidarci a WordPress per rifare il sito da zero. Insomma, non è certo una passeggiata. Il punto è che il ransomware è redditizio se lo utilizzi contro un’organizzazione media. Se l’azienda è messa bene sicuramente ha un sistema di Disaster Recovery da un’altra parte e, in quattro e quattr’otto, rimette online tutto. Se attacchi dei morti di fame come lo studio dei miei amici non cavi un ragno da un buco lo stesso, nessuno pagherebbe mai una lira. Se la vittima sta nel mezzo, magari con un po’ di culo ci si può guadagnare qualcosa. Il punto è che non ha senso che a rimetterci sia un gruppo di appassionati di musica. I lettori no, tanto erano quattro gatti. E comunque, se non vi piaceva quello che scrivevamo, bastava parlarne davanti a una birra. Tutto qui.

io sto bene io sto male

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Di tutte le esagerazioni sulla privacy e la sicurezza dei dati e dei documenti frutto delle nevrosi della società moderna e digitale, quella sulle informazioni riservate sanitarie e mediche mi sembra la più fuori controllo. Al di là di tutto ciò che riguarda i servizi bancari, il resto passa in secondo piano, almeno io la vedo così. Mi sfugge a chi potrebbero interessare i referti o lo stato di salute di un cittadino, se non alle assicurazioni per fini di telemarketing.

Il fatto è che, a essere seri, la pluralità di modi di accesso al fascicolo sanitario personale online mi sembra di un altro pianeta, a vederlo qui dal 2021. Possiamo scegliere tra l’accesso tramite SPID con autenticazione tramite app sul telefono. Comodo, vero? Senza contare la procedura per ottenerlo, questo cazzo di SPID. Ogni servizio che necessita di un servizio di consulenza per usufruirne non è un servizio, siete d’accordo?

Al fascicolo sanitario personale si può accedere anche con la carta di identità elettronica o con la CRS, e qui c’è da divertirsi. Sarebbe davvero pazzesco se non occorresse dotarsi di un lettore da collegare al pc (e di conseguenza un pc, che non è scontato ai tempi dell’hype dei tablet). Comunque potete dotarvi di un lettore di card (una roba molto anni novanta, provare per credere) ma poi, per farlo funzionare su Windows 10, ci vuole il driver. Il driver si può scaricare via FTP, quindi prima occorre dotarsi di Filezilla o software di questo tipo. Scaricato e installato il driver? Bene. Ora procuratevi anche il software per trasferire i dati della CRS o della carta di identità elettronica al server online per accedere al fascicolo. Carina e user-friendly, l’interfaccia, vero? Non vedevo una grafica così fuori moda dai tempi di Splinder. Installato tutto? Ok, ma non funziona ancora. Manca la DLL per la firma digitale. Una ricerca su Google e anche questa è fatta. Finalmente funziona tutto? Eh, magari. Ci vuole l’aggiornamento di Java. Installato anche questo? Ok, ce l’abbiamo fatta.

Ce l’abbiamo fatta un cazzo. Vi sembra normale tutto questo? E vogliamo parlare del PIN per i minorenni da richiedere metà allo sportello dell’ASL e metà inviato via SMS? Non so voi, ma io per GMail ho un username e una password. La cambio ogni tanto per essere sicuro. Lo uso da quindici anni e non mi è mai successo niente. Mi chiedo perché tutto il mondo non possa essere di Google.

la fanno facile

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Alla TV quando parlano di lavoro o di tecnologia la fanno sempre facile. Ci sono le trasmissioni dedicate alle start-up o alla gente che va sul cucuzzolo della montagna e da web project manager si mette a fare formaggio di capra e la scuola in famiglia ai figli strappati ai quartieri dormitorio della metropoli. Presentatori attempati ma supergiovani come Carlo Massarini che passano da un creativo a un cervello in fuga, da un giovanissimo imprenditore a un artigiano alla riscoperta delle tradizioni, visionari accumunati dall’aver messo il digitale al centro del progetto e ora strumentalmente presentabili per dimostrare che a far le cose in questo modo il successo è lì che ti aspetta. Ma non è così. Quant’è che sentiamo parlare di start-up? Dieci anni? E quante ce l’hanno fatta? Un sacco di idee sono finite nel nulla. Un po’ perché erano belle idee e basta, un po’ perché non servivano a niente, un po’ perché qualcuno le ha soppiantate con progetti migliori, un po’ perché boh. Non lo so. Qualcuno dovrebbe fare del fact checking e verificare di tutte le innovazioni presentate nei programmi specializzati quante sono state adottate e quante sono state gettate nel dimenticatoio. I programmi TV che parlano di lavoro o di tecnologia la fanno sempre facile. La realtà è molto differente.

spaghetti software

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Ci sono diverse anime, non necessariamente così radicali come potremmo immaginarle, che dalla base si battono per proteggere la scuola italiana dai colossi dell’industria digitale e dai rischi che tale sudditanza comporta. Sostengono l’importanza per cui la scuola debba essere libera dai brand commerciali e dalle multinazionali.

Il fatto è che con il palesarsi della pandemia da Covid 19 si è reso imprescindibile il ricorso a una piattaforma di comunicazione e collaborazione a distanza per garantire lo svolgimento delle lezioni e le attività organizzative. Molti istituti si sono fatti trovare impreparati all’emergenza – malgrado si parli di scuola digitale almeno da quindici anni – e c’è stata una corsa al si salvi chi può con l’implementazione delle soluzioni dei due principali player del settore, Google e Microsoft. Considerando anche la situazione pregressa, non ho dati alla mano ma dalla mia esperienza diretta potrei azzardare che il marketshare si attesti su percentuali rispettivamente dell’80 e del 20, approssimando allo zero una residua manciata di pionieri di altre iniziative, piccole ma pur valide, a partire da WeSchool (ma sui numeri potrei sbagliarmi). La suite di Google si rivolge gratuitamente al settore con prodotti pensati per l’educational da diversi anni, oramai, mentre il percorso di Microsoft è stato percepito più come un tentativo di mettere i bastoni tra le ruote a un monopolio che si è diffuso grazie all’oggettiva superiorità del prodotto.

Ma non è questo il punto. Che siate per un partito o per l’altro, nelle server farm dei due giganti che, grazie ai miliardi di utenti in tutto il mondo dei prodotti commercializzati possono vantare fantastiliardi di dollari di giro d’affari complessivo, ora ci sono le verifiche di matematica e le ricerche sul sistema solare dei nostri figli. Un trend che ha messo in guardia non pochi paladini della filosofia open source o, peggio, del software a km zero.

Quando il coronavirus ha rintanato nelle stanzette milioni di studenti italiani di ogni età si è visto qualche idealista lanciare un allarme sotto certi aspetti fondato: a fronte di soluzioni gratuite per la DAD stiamo offrendo su un piatto di silicio i dati di milioni di ragazzi alle multinazionali del web! Zelanti esponenti di ogni livello della scuola pubblica, gli stessi che documentano nel dettaglio la vita dei figli sui rispettivi profili Facebook, si sono assunti addirittura l’onere di scartabellare tre le condizioni di servizio di questa o quell’altra piattaforma per capire se gli strumenti offerti fossero in linea con il GDPR, per non parlare dei dirigenti che si sono rivolti personalmente a Microsoft o a Google per avere garanzie sul fatto che i dati dei bambini fossero conservati in un cloud europeo. Ve li immaginate Project Manager indiani decifrare i fax della pubblica amministrazione italiana con tali richieste di altri tempi?

Ma chi se ne importa. Nelle scuole italiane si sono diffuse largamente Google Workspace for Education e Microsoft Teams e, a poco più di un anno di distanza dal paziente zero, possiamo dire che di riffa o di raffa abbiamo portato a casa il risultato. Non entro nel merito se DAD e DDI siano efficaci, tutto sommato però le due piattaforme adottate ci hanno permesso di dare continuità alla didattica. Lasciate stare tutto il folklore sugli intrusi nelle lezioni in videoconferenza e qualche episodio di spavalderia adolescenziale online. Nei casi in cui si sono verificati problemi è perché i docenti coinvolti non erano pratici dello strumento. C’è poi un sottobosco di sostenitori del software libero che è un mondo delle idee bellissimo se, nelle scuole, non fossero insegnanti di buona volontà a occuparsi della gestione della componente informatica ma esistesse un team dedicato (e pagato).

Tutto questo per dire che potrei essere smentito ma non credo che Microsoft e Google si troveranno mai, un giorno, costrette da qualche hacker a pagare un riscatto per sbloccare le loro piattaforme didattiche. Non credo che succederà perché la sicurezza dei dati è il loro core business. La disponibilità, il miglioramento e l’accuratezza dei loro servizi in termini di user experience e di funzionalità offerte hanno coinciso con la sicurezza informatica. Certo, direte voi, è facile dotarsi di sistemi di protezione di altissimo livelli quando hai fantastiliardi da investire, ma questa è l’imprenditoria. Se vuoi stare sul mercato globale scegli il modo in cui proporti, correndo dei rischi e prendendo delle decisioni. Poi è chiaro che nel settore del digitale i giochi sono fatti. A nessuno oggi verrebbe in mente di sviluppare un motore di ricerca, un software di videoscrittura o un social network. Tanto meno dalle nostre parti, dove non c’è una tradizione informatica e i pochi cervelli adatti a dedicarvisi, giustamente, volano altrove.

La notizia del momento è che la piattaforma di registro elettronico più diffusa in Italia è stata presa in ostaggio in un attacco di tipo ransonmware. Sapete come funziona? Qualche malintenzionato cambia di nascosto la serratura di un ambiente virtuale e, per darti la chiave, chiede un riscatto.

Agli hacker che impediscono l’accesso ai proprietari della piattaforma non interessa certo vendere i voti di Carletto e Mariuccia della 2B ai servizi segreti russi, da questo punto di vista un registro elettronico non è certo Facebook. Piuttosto guadagnare mettendo in ginocchio un’azienda che fornisce servizi a una delle principali organizzazioni della nostra economia, la scuola. Nei confronti di questi professionisti che stanno vivendo una delle peggiori situazioni in cui un’azienda del settore ICT possa essere coinvolta esprimo la massima solidarietà e spero che il tutto si risolva senza conseguenze.

Rinnovo però una domanda retorica, chiedendomi perché non ci sia mai stato un piano di sviluppo digitale strutturato per la scuola come avviene nelle aziende in cui Internet e l’informatica giocano un ruolo fondamentale. Perché non ci sia una visione organica e nazionale, anziché demandata ai singoli istituti. Perché non ci sia una efficace analisi dei fabbisogni e delle scelte da intraprendere per proteggere investimenti, creare economie di scala, consentire crescita flessibile in modo da poter riutilizzare quanto integrato nella fase precedente senza, ogni volta, buttare via tutto.

Tutti aspetti che, in qualunque organizzazione di qualsiasi settore, fanno parte di una roadmap di sviluppo. Nella scuola italiana, invece, l’impressione è che ci si sia spesso lasciati prendere dall’entusiasmo del momento, da trend e demoni tecnologici, da linee guida indicate da figure poco competenti e da mille altri fattori che sappiamo e che è inutile ripeterci. Nessuna organizzazione si rivolgerebbe a fornitori di piattaforme digitali prive di garanzie su standard tali da assicurare continuità di servizio. E il paradosso è che, in home page, questi fornitori assicurano altissimi standard di sicurezza e puntano sull’italianità dei server.

Quando, lo scorso anno, si è diffusa la notizia che qualcuno al MIUR aveva dichiarato di voler lavorare per lo sviluppo di una nuova piattaforma proprietaria e tutta italiana da fornire alle scuole per la DAD, mi è venuta la pelle d’oca. Pensate allo spreco di denaro, tempo e risorse, avendo già a disposizione le soluzioni di Google e di Microsoft, di cui si può dire tutto tranne che non sia gente che sappia fare il suo lavoro e che offra livelli di sicurezza adeguata. Non è che tutti riescono a fare tutto. In Italia siamo bravissimi in cucina e abbiamo la stragrande maggioranza del patrimonio artistico e culturale mondiale. L’informatica lasciamola alla Silicon Valley.


scherzi informatici

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“Che fai”? chiede Chandler.
“Lo sapevi?”, risponde Ross. “C’è un sito per ex studenti dell’università. È forte: puoi spedire messaggi alla gente, dire a tutti quello che stai facendo”.

L’episodio 17 della stagione 9 della serie “Friends”, dal titolo “Scherzi informatici”, è andato in onda a marzo 2003 e Facemash, il predecessore di Facebook sviluppato da Zuckerberg per gli studenti di Harvard, risale al 28 ottobre dello stesso anno. Chissà se la visione di quella puntata dell’inarrivabile sitcom americana è stata decisiva nella volontà di creare il più pervasivo e duraturo social network della storia. Ma se Zuck è stato ispirato da Ross e Chandler, spero sia stato altrettanto previdente nell’allestimento delle precauzioni di privacy e sicurezza degli utenti. Vi ricordate infatti come prosegue l’episodio?

“Bene, così tutti sapranno che sono disoccupato e che non ho figli”, ammette Chandler.
Ross però tira dritto. “Invece è interessante scoprire quello che fa la gente. Ti ricordi di Andrea Ritch?”
Chandler lo incalza: “Quella ragazza che ti aveva respinto?”
Ross annuisce con la testa e prosegue: “La società dove lavorava è fallita e ha perso un orecchio in un incidente di barca”.
La battuta di Chandler è assai cinica: “Ora ci starebbe”, ma mai come la risposta di Ross: “No, gliel’ho già chiesto”.

A quel punto l’attenzione si sposta sul social network. Chandler infatti legge sullo schermo come si è descritto Ross nel suo profilo. “Laureato in paleontologia, due figli, con Karol è finita perché avevamo interessi diversi. Credevo non avesse funzionato perché avevate un interesse in comune!”. Ross allora chiude il discorso: “Bene, lo completerò più tardi” e va a prepararsi per uscire con gli amici. Mentre Ross è in camera, Chandler e Joey architettano uno scherzo per Ross completando il suo profilo con informazioni inventate: “Ho clonato un dinosauro femmina nel mio laboratorio. Ora io e lei ci siamo fidanzati. Non mi importa quello che dice la gente, ma non ho mai fatto l’amore come con lei”.

Da quel momento ha inizio una gara di quello che oggi chiameremmo hackeraggio di un account personale e diffamazione in rete tra i due. Ross scrive sul profilo di Chandler che l’amico è gay. Addirittura dichiara di voler acquistare un “programma fotografico e tante riviste gay” per pubblicare fotomontaggi di Chandler.

Pensate quanto è cambiata la nostra sensibilità sulle tematiche relative all’omosessualità e sulla riservatezza delle informazioni su Internet. Oggi nessuno potrebbe permettersi di pensare che una trovata come un fotomontaggio altrui, diffuso su Facebook, non ferisca la sensibilità di chi vi è ritratto e che possa essere considerato uno scherzo, soprattutto se inerente l’orientamento sessuale. Chi controlla i contenuti su Facebook sarebbe il primo a impedirne la condivisione e, nel caso, si scatenerebbe giustamente un putiferio.

tecnologia indossabile

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Se volessimo introdurre un’analogia convincente tra dispositivi e capi d’abbigliamento potremmo tirare in ballo quelle maglie che vanno di moda da qualche anno principalmente tra i bambini. Si tratta di indumenti con disegni ricoperti di lamelle con i lati colorati diversamente che permettono di cambiare la resa dell’illustrazione passandovi la mano sopra. Quest’anno ne sconsigliamo l’utilizzo a scuola perché, prima del Covid e quando non c’era problema a tocchignarsi a vicenda, costituiva un divertimento tra i compagni curiosi di scoprire le due versioni o anche solo per abbandonarsi a qualche prima esplorazione dei corpi altrui. Oggi mettersi le mani addosso tra bambini, almeno a scuola, è vietatissimo, il motivo lo sappiamo tutti. Fatto sta che magliette e felpe di tale foggia sono diventate merce rara. Malgrado ciò, possiamo a tutti gli effetti ricondurre l’intento con cui sono stati ideati ai dispositivi touch.

Questo comunque non è niente in confronto al mio alunno cinese che si è presentato a scuola con un paio di Geox dotate di led posteriori su cui è possibile programmare la visualizzazione di un testo a piacimento. Intorno ai suoi piedi a comando scorreva il suo nome preceduto da un ingenuo augurio di buon compleanno in rosso su sfondo nero, se non ricordo male, nemmeno calzasse un gadget da posizionare su una Lancia Delta Integrale con l’obiettivo di renderla ancora più tamarra di quello che è. Se le avessi io scriverei insulti dedicati ai trend topic che la gente sui social esaspera e rende ricorsivi fino a farci impazzire, cose tipo “andate affanculo voi e Manuel Agnelli a torso nudo” o “mettetevi sta cazzo di mascherina e statevene a casa”, ma non ho idea del massimo di caratteri utilizzabili e se, soprattutto, sia possibile un livello così avanzato di customizzazione. Comunque le Geox con il led equivalgono ai totem per il Digital Signage, un fenomeno tecnologico che qualche anno fa sembrare costituire il futuro del marketing ma che, a dirla tutta, non ha mai interessato nessuno. Ma la vera evoluzione delle scarpe che si accendono sono quelle che si è fatto regalare il mio alunno rumeno per il suo compleanno. L’intera suola si accende di verde e di rosso – proprio nel senso di una di verde e una di rosso, non ricordo se la destra o la sinistra – con un bagliore che illuminerebbe completamente l’aula in caso di black out e che distrae anche gli studenti più diligenti.

L’indumento che però suscita maggiormente l’invidia di bambini e insegnanti (nella fattispecie io) è il maglione di lana a tema natalizio che mette ogni giorno la mia alunna egiziana. Il disegno della renna che ha sul petto è completato da un naso che, quando lo schiacci, suona “Jingle Bells”. Anche in questo caso il rischio pandemia frena i compagni più dispettosi dal premere il naso della renna per beneficiare a ripetizione del motivetto contestuale al momento dell’anno. La bambina però non presta sufficiente attenzione al posizionamento del pulsante sull’indumento e così, ogni volta che si appoggia al banco per scrivere o voltare pagina del libro, il tema di “Jingle Bells” (in quel timbro elettronico tipico dei gadget che sta alla musica come il linguaggio macchina sta all’html5) risuona nell’aula scatenando – ogni volta – la stupidera dei compagni. L’idea però di avere capi di abbigliamento che suonano mi ha conquistato moltissimo. Mi piacerebbe esser rivestito da tessuti che amplificano suoni, potentissime casse bluetooth dalla foggia di felpe o pantaloni. Ci pensate? Cammini e spari a tutto volume i tuoi pezzi preferiti sui passanti. Spero che la ricerca si concentri nel prossimo futuro su questo tipo di innovazione. Mi sembra davvero che ne valga la pena.

come cambiano i social media

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Mia moglie ha brevettato un metodo efficace per stare su Facebook. Da anni è iscritta con un nome e cognome inventato e utilizza la mastodontica piattaforma di social networking unicamente come collettore di articoli. Segue pagine e persone che reputa autorevoli per vivere in modo informato e non accetta amicizie e nemmeno cerca contatti. Piuttosto, apre la sua home quando le va di leggere qualcosa di interessante e scorre la pagina come si fa da sempre con i feed che, ricordiamolo, non sono i contenuti ma il contenitore che li contiene.

Così ho deciso di cambiare marcia e di seguire il suo esempio. Ho messo like a diverse pagine create da appassionati di lingua e civiltà latina e di storia romana, fino a sconfinare nella filosofia antica fino al medioevo, nell’archeologia e persino tra i seguaci del neopaganesimo ispirato alla religione pre-cristiana. Ho chiesto l’iscrizione ad alcuni gruppi in cui si mantiene vivo l’interesse per l’antichità, i musei e i siti storici con i loro scavi.

Da qualche settimana, finalmente, vedo molti meno post di amici e semplici conoscenti e molti più contenuti in grado di soddisfare la mia curiosità. Il problema è che cambiano i temi di discussione ma non il tono dei commenti. La gente riesce a infilare opinioni dettate dalle proprie posizioni politiche, e quindi a insultarsi, anche a proposito di Stilicone, della Domus Augustana, dei Villanoviani o del Tuscolo, anche se capisco che trattando di argomenti come l’Impero e le legioni è facile imbattersi in qualche doppio nostalgico che arriva a Giulio Cesare via nazifascismo. Quindi sono arrivato al nocciolo della questione. Leggo le notizie, ammiro le foto e le avvincenti ricostruzioni grafiche e poi chiudo forte gli occhi muovendo la barra di scorrimento laterale verso il basso, affinché non mi cada l’occhio sui commentatori.

la prima a sinistra

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Adoro quando mi chiedono indicazioni stradali perché, di base, mi piace se qualcuno mi pone una domanda e mi fa sentire importante. Chiedere come si fa ad arrivare in posto è una pratica sempre più rara ai tempi di Google Maps. Eppure non è raro che automobilisti e motociclisti si rivolgano a me in situazioni di difficoltà. A onor del vero devo dire che mi succede quando vado a correre, perché corro in orari in cui in giro non si incontra mai nessuno e lungo percorsi in cui non c’è mai anima viva. Non si dovrebbe interrompere l’allenamento di un runner perché facilmente sta superando un primato con se stesso e, fermandolo, svanisce l’incantesimo. Ma in me prevale la cortesia sull’affermazione del mio lato atletico così rallento, sfilo gli auricolari, mi avvicino al finestrino, mi metto in ascolto, mi concentro sul percorso più efficace, me lo visualizzo lungo una piantina immaginaria, quindi inizio a descrivere accompagnando il racconto con gesti chiarificatori, ripetendo il tutto almeno due volte perché, si sa, quelli poco sicuri di sé tendono ad assicurarsi che l’interlocutore comprenda al meglio quanto hanno da dire perché temono di essersi spiegati male.

Ho pensato di inaugurare così, a partire da oggi, un nuovo appassionante passatempo da spiaggia per i lettori di questo blog. Scriverò qui sotto le indicazioni stradali che ho dato poco fa. Provate a indovinare da dove è partita per arrivare a destinazione la coppia di vecchine che si è rivolta a me:

– tornate indietro e alla rotonda voltate a destra
– proseguite sempre dritto superando tutte le rotonde che incontrerete
– incrocerete perpendicolarmente la Rho-Monza: voltate a sinistra in direzione Rho
– uscite al primo svincolo, voltate a destra e seguite verso il centro di Bollate
– proseguite sempre dritto fino alla prima rotonda, alla quale girate a sinistra
– proseguite ancora sempre dritto sino all’incrocio perpendicolare con la Varesina (c’è un semaforo)
– voltate a destra e seguite la Varesina sino all’Esselunga di Garbagnate
– troverete una rotonda, girate a sinistra e guidate sempre dritto sino ad arrivare al Centro Commerciale di Arese.

Provate a seguire il percorso a ritroso e troverete il punto di partenza. Comunicherò personalmente il premio al vincitore. Speriamo che sia una vincitrice. E speriamo che le due vecchine siano arrivate a destinazione.