questione di etichette

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Una cosa che abbiamo imparato da tutto questo digitale in cui siamo immersi è che è importante attribuire le categorie giuste per riuscire a trovare velocemente quello che cerchiamo. Categorie e tag sono alla base dell’organizzazione dei contenuti ai tempi dell’Internet, un fattore che ha definitivamente sancito il primato della semplificazione ai fini archivistici. Il paradosso è che abbiamo inventato etichette per definire cose che, prima dell’Internet, c’erano già nella realtà ma che, probabilmente, non avevano un nome. E il paradosso dei paradossi è che sono stati introdotti neologismi per dare un nome alle etichette che ci servono per qualificare categorie sempre esistite ma che prima probabilmente nessuno aveva mai sentito la necessità di definire. Oppure, nel migliore dei casi, si attinge dall’inglese – la lingua ufficiale del web e della tecnologia in genere – perché quella sì che è una lingua utile per operare delle sintesi. Pensate a concetti come friendzone con cui oggi si intende la categoria (soggettiva) di persone che vorrebbero trombarti ma che tu ipocritamente mantieni nel limbo dei confidenti, quello che una volta di riduceva a “ti vedo come un fratello/sorella” e niente più, perché il prospect (nel senso di potenziale in questo caso partner, altra categoria introdotta di sana pianta) non ti attizza. Chi si occupa di musica avrà assistito al fiorire di generi, sottogeneri e varianti di stili introdotti dalle webzine proprio per stemperare il più possibile il database di articoli e impedire che band e dischi di generi tangenti non si sovrappongano tra di loro, disilludendo i lettori più rigorosi. Per non parlare del porno, ma mi spiace, non sono molto ferrato in materia. La riflessione che ci impone questo fenomeno è quanto il web stia mutando i processi cognitivi, la nostra memoria e il modo in cui organizziamo i ricordi. E, molto più superficialmente, il modo in cui sistematizziamo le nostre conoscenze per abbreviare i percorsi con cui raggiungere i file che abbiamo accumulato nel corso delle esperienze vissute. E, ancora, pensate all’urgenza con cui cerchiamo di definire il genere che ci rappresenta e, malgrado tutte le sfumature accertate, quanto sia ancora difficile, per taluni, sentirsi identificati correttamente. Quanto si è trasformata questa necessità da quando siamo online?

Foto tratta da Database Vectors by Vecteezy

ecco perché si dice per il rotto della cuffia

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Probabilmente è un problema mio perché, quando corro, sudo come un maiale. Però mi risulta difficile capire il motivo per cui gli auricolari che indosso per gli allenamenti – molti dei quali pubblicizzati come articoli fabbricati ad hoc per lo sport e quindi resistenti all’acqua e al sudore – mi durano così poco.

Sapendo di infrangere la privacy degli ordini effettuati su Amazon, e non potendo tracciare altri prodotti acquistati dal vivo in negozio nel corso degli ultimi dieci anni, ecco qui sotto una lista non completa di tutte le cuffie che mi sono durate pochissimo e che, di conseguenza, sconsiglio a tutti i runner cialtroni come il sottoscritto.

Invito il mio pubblico a suggerirmi valide alternative perché, dopo il più recente degli insuccessi consumatosi nei 10km di stamattina, mi accingo a comprare l’ennesimo paio di cuffie, preferibilmente bluetooth, preferibilmente che non costino un occhio della testa considerando il ciclo di vita risibile, preferibilmente in grado di garantire un’esperienza di ascolto piacevole (quindi con i bassi e tutto il resto), preferibilmente che durino almeno un paio di anni. Corro un paio di volte a settimana in inverno, 4/5 volte in primavera ed estate. Valuto, ovviamente, articoli in prova che poi non restituirò mai. Grazie.

Bagotte Cuffie Bluetooth ORDINE EFFETTUATO IL: 15 luglio 2019 – TOTALE EUR 19,99

Mpow Auricolari Wireless IPX7 Bluetooth 4.1 Stereo ORDINE EFFETTUATO IL: 28 settembre 2018 – TOTALE EUR 18,99

Adorer Auricolari Sport RX6 Stereo In-ear Auricolari con Microfono ORDINE EFFETTUATO IL: 16 aprile 2018 – TOTALE EUR 11,90

Sony MDRAS210 Cuffie Intrauricolari Sportive, Resistenti a Umidità e Spruzzi ORDINE EFFETTUATO IL: 15 luglio 2017 – TOTALE EUR 9,00

Soul Flex Cuffie Over-Ear ad Alte Prestazioni ORDINE EFFETTUATO IL: 24 febbraio 2017 – TOTALE EUR 22,94

AUKEY® Auricolare In-Ear Stereo Universale, Cuffie Moving-coil Headset con Microfono, Design avanzato per Enhanced Bass (Bassi Rafforzati) ORDINE EFFETTUATO IL: 29 marzo 2016 – TOTALE EUR 10,98

Philips SHS 3200 Auricolare ORDINE EFFETTUATO IL: 18 giugno 2013 TOTALE EUR 12,55

ctrl+c ctrl+v e altre combinazioni

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Ho partecipato, un paio di settimane fa, a un corso di formazione dedicato all’insegnamento dell’informatica nella scuola del primo ciclo. Mi ha fatto piacere avere la conferma, da gente molto più accreditata di me, dei tre errori fondamentali che dovrebbero essere al centro del dibattito su tecnologia e digitale nella didattica:
– l’ossessione per il coding lascia il tempo che trova
– gli investimenti nelle LIM hanno fatto sprecare risorse incolmabili alla scuola pubblica
– il mito che i millennials sono digital è da sfatare

Questo perché
– il coding lo si insegna da sempre e si chiama matematica
– portare Internet veloce e pronta a sostenere accessi simultanei illimitati alle scuole e dotare le classi di un pc di ultima generazione con un economico proiettore sarebbe stato più utile, consentendo agli studenti di usare il pc e non la tecnologia touch della lavagna (fuorviante rispetto alle potenzialità del touch come lo intendono gli studenti con i dispositivi che hanno a casa)
– i millennials saranno bravi con Tik Tok ma non sanno formattare un testo o creare un grafico con Excel. Magari quando entreranno nel mondo del lavoro non si useranno più Word o i fogli di calcolo, ma possiamo escludere che Tik Tok sarà il loro workspace.

Vi giuro che penso queste cose da sempre e che, da quando faccio l’insegnante, ho appurato che è proprio così. Per questo insegno informatica partendo dalle tabelle, dalla somma automatica, impostare i margini e suddividere le linee con i punti elenco senza impazzire.

Per non parlare dei tasti funzione e delle combinazioni che velocizzano le operazioni. Le freccine per andare su e giù e all’inizio e alla fine, il tab per passare da un campo al successivo, rinominare i file con F2, ctrl+a ctrl+x ctrl+c ctrl+v e tutte quelle figure in cui le dita si incrociano sulla tastiera come una partita a Twister.

E mi spiace che Larry Tesler, l’inventore del copia-incolla, sia appena scomparso a 74 anni. Chissà con quali altri shortcut avrebbe potuto migliorarci la vita. Chissà con quali altri shortcut avrebbe potuto migliorarci la vita. Chissà con quali altri shortcut avrebbe potuto migliorarci la vita. Chissà con quali altri shortcut avrebbe potuto migliorarci la vita. Chissà con quali altri shortcut avrebbe potuto migliorarci la vita. Chissà con quali altri shortcut avrebbe potuto migliorarci la vita. Chissà con quali altri shortcut avrebbe potuto migliorarci la vita. Chissà con quali altri shortcut avrebbe potuto migliorarci la vita. Chissà con quali altri shortcut avrebbe potuto migliorarci la vita. Chissà con quali altri shortcut avrebbe potuto migliorarci la vita. Chissà con quali altri shortcut avrebbe potuto migliorarci la vita. Chissà con quali altri shortcut avrebbe potuto migliorarci la vita. Chissà con quali altri shortcut avrebbe potuto migliorarci la vita. Chissà con quali altri shortcut avrebbe potuto migliorarci la vita. Chissà con quali altri shortcut avrebbe potuto migliorarci la vita. Chissà con quali altri shortcut avrebbe potuto migliorarci la vita. Chissà con quali altri shortcut avrebbe potuto migliorarci la vita. Chissà con quali altri shortcut avrebbe potuto migliorarci la vita. Chissà con quali altri shortcut avrebbe potuto migliorarci la vita. Chissà con quali altri shortcut avrebbe potuto migliorarci la vita. Chissà con quali altri shortcut avrebbe potuto migliorarci la vita. Chissà con quali altri shortcut avrebbe potuto migliorarci la vita.

tera di questi giorni

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Grazie a Internet ho trovato tutti i lavori che ho svolto nella mia vita e tutti i lavori che ho svolto nella mia vita hanno avuto Internet al centro. Anche ora che faccio l’insegnante di scuola primaria il discorso non è molto diverso. Mi sono iscritto al concorso su una piattaforma online (un po’ rudimentale ma comunque online), ho ricevuto via email l’esito dello scritto e ho preparato l’orale servendomi del web, per non parlare della didattica digitale che pratico quotidianamente e che ha sempre lì il suo fulcro. Mia moglie ed io ci siamo conosciuti in Internet, posso frequentare i miei vecchi amici distanti in rete e grazie ai Social Network ho incontrato persone molto interessanti da cui sono nate relazioni molto edificanti. E, ancora, l’Internet mi consente di coltivare i miei principali hobby. Da sempre in rete trovo nuova musica e riesco a scovare materiale su quella che amo. Inoltre l’ultima parte della mia piccola carriera da musicista si è presa grandi soddisfazioni grazie alle piattaforme di condivisione e distribuzione di musica. Internet mi permette quotidianamente di scoprire letteratura affine ai miei gusti, e, soprattutto, di scrivere quando, come, dove e soprattutto quello che voglio. Qui, sui siti e i blog che da metà degli anni novanta a oggi mi hanno ospitato, sui Social Network, posso ammettere di essermi realizzato come mai sarebbe stato possibile senza. Tralascio la parte di comunicazione, di collaborazione e di varia utilità che Internet mi mette a disposizione per togliermi da pasticci, per trovare informazioni, per risolvermi dubbi, per chiarirmi le idee, per informarmi e per confermarmi quando ne ho bisogno. E, sicuramente, in questo giorno del ringraziamento ho dimenticato di ringraziare Internet per qualche vantaggio che mi ha dato e che ora mi sfugge. Oggi il World Wide Web, che è il sistema che permette di usufruire dei contenuti su Internet, compie trent’anni. Certo, potrebbe essere migliore. Ma già così è abbastanza una figata.

i migliori modelli di auricolari per smartphone sul mercato

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Mi piacerebbe essere un influencer in ambito tecnologico solo per ricevere in prova (o in omaggio) qualche prodotto e risparmiare così tutti i soldi che spendo per comprare quelli che si rompono. Sono pochi i dispositivi che mi sono durati tanto. Ho un impianto stereo con pezzi risalenti al 1978 e qualche innesto acquistato a metà anni novanta e va tutto da dio, per dire.

Da quando uso gli smartphone, invece, ho cambiato un numero di cuffie e auricolari esorbitante e, a parte in un solo caso in cui sono rimaste impigliate nella portiera della macchina e le ho trascinate per un centinaio di km, per il resto si sono sempre rotte loro. E non è nemmeno una questione di fascia di prezzo, a meno che non mi diciate che tra un modello da dieci euro e uno da quaranta la qualità sia la stessa. Ho alternato marche storiche come Philips e Pioneer a brand recenti come Aukey, ma per uno o per l’altro motivo qualcosa è sempre andato storto. Si rompe un canale. Malgrado siano commercializzati come waterproof non resistono al sudore della corsa.

L’ultima sorpresa sono queste Adorer Auricolari Sport RX6 che sono perfette, non scappano dalle mie orecchie asimmetriche, reggono la mia copiosa sudorazione e l’audio si sente egregiamente ma – non so dirvi perché – mandano in tilt il mio Moto G5 Plus. Dopo aver estratto le cuffie, lo smartphone resta come se le cuffie fossero ancora inserite impedendo il funzionamento del microfono e dell’audio del telefono. Si può telefonare solo in viva voce e la musica non si sente più dallo speaker del dispositivo. Per far tornare tutto normale occorre ingegnarsi con una combinazione random di metti e leva le cuffie, spegni e riaccendi il telefono, qualche ricerca in rete su come ovviare al problema e, perché no, qualche parolaccia contro il fato e la tecnologia. Ora, cari produttori di tecnologia, se seguite questo blog perché ne avete compreso le potenzialità di business che può portare al vostro brand, sappiate che sono a vostra disposizione per testare quello che producete e farvi pubblicità. Inizierei con un estrattore per la frutta e verdura, perché temo che una richiesta per un Mac Book Pro passerebbe inascoltata.

siamo pallosi nonostante la tecnologia

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Philip Seymour Hoffman è morto il due di febbraio di quattro anni fa, ma prima di dirvi esattamente in che anno è mancato mio papà ci devo pensare su qualche minuto e rintracciare i soliti punti di riferimento per non sbagliare. Dove sono andato quell’anno in vacanza, che classe faceva mia figlia e cose così. Risalgo così alla data precisa e scopro che l’anno è lo stesso di Philip Seymour Hoffman, il 2014, così d’ora in poi potrò utilizzare questo collegamento per dare una risposta con precisione. E se so di Philip Seymour Hoffman, anzi, se mi ricordo dell’anno in cui ci ha lasciati lo devo a Facebook e a quel sistema che ha escogitato per proporti le cose degli anni precedenti. A me non piace questo modo pervasivo che ha Facebook di tentare di occupare tutta la nostra vita. Leggiamo lì, ci informiamo lì, discutiamo lì, ci innamoriamo e ci infuriamo lì sopra e il problema non è l’Internet in sé, ma proprio il social media più ingombrante della storia dell’umanità. Ieri era il due di febbraio e Facebook mi ha proposto di condividere nuovamente un fotogramma di “Happiness” di Todd Solondz che ritrae Philip Seymour Hoffman nella celebre scena in cui interpreta il maniaco stalker che si masturba al telefono. Ricordate? Non ci ho pensato due volte e ho condiviso il ricordo ma poi me ne sono pentito proprio perché non riuscivo a ricordarmi invece di mio papà. Qualche giorno prima mi è capitata la stessa cosa. Era la “Giornata della memoria” e Facebook mi ha ricordato di quando ho pubblicato un disegno che raffigurava i troll che approfittano della ricorrenza con provocazioni sul tema delle foibe. Ho postato anche quello nuovamente, in bella vista sulla mia bacheca. Il punto è che Facebook è incentrato sulle ricorrenze e che noi, alla fin fine, diciamo sempre le stesse cose che abbiamo detto lo stesso giorno in tutti gli anni precedenti a quello in corso. Prima o poi esploderà.

tutto il resto è marketing

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La costante moria di gente conosciuta, un trend al quale non c’è risposta tantomeno spiegazione, mi fa pensare ogni volta che accade se il famoso Tal dei Tali, mancato a tot anni, avesse ben presente quei libri e quelle storie finite le quali al lettore viene da chiedersi “e quindi?” e la risposta è “e quindi niente, è così è basta”. Grandi personaggi nati e cresciuti in ben altri momenti socio-culturali che, per uno scherzo del destino, sono state contemporanee di certe foto-profilo ai tempi dei socialcosi in cui tutti sembrano interessanti e poi, passati alle armi spietate delle foto casuali – quelle che ci riprendono nella vita reale che non ammette le pose e i filtri – l’espressione che ci ritrae è la stessa che mettiamo in carica ogni sera a pile esaurite, per accenderla il giorno dopo, ma comunque è sempre meno bella, punto e basta. Anzi, punto. Anzi. Potrebbe andare peggio? Certo. Invitate una manciata della gente che avete in contatto su LinkedIn una sera a cena e raccontatevi a vicenda le grandi narrazioni aziendali con le quali ammorbate il prossimo dal punto di vista professionale come se davvero a qualcuno interessasse qualcosa di quello che fate nei vostri uffici, nei vostri studi di partite iva o anche in quegli assurdi spazi di co-working di cui ci riempiamo le nostre bocche da disoccupati. Quei quattro gatti che inventano davvero qualcosa di tangibile (quindi astenersi start-up) e fanno il botto mi fan scappare da ridere. Bella la Tesla, certo, non si sente altro che parlare della macchina che va da sola o della macchina che cambierà il futuro della mobilità e probabilmente risolverà il problema dell’inquinamento da mezzi su gomma. Vogliamo parlare di quanto costa? Secondo voi i miliardi di persone che vivono nelle economie emergenti e annaspano per guadagnarsi una qualità di vita all’altezza di noi occidentali hanno le risorse per spendere 70mila euro per un’automobile? Ma senza andare troppo nel futuro, tocchiamo nelle nostre tasche e diamo un’occhiata alla marca del nostro smartphone. L’iPhone è figo e tutto quanto ma chi li butta via ottocento euro per un telefono? Questa domanda era retorica e ve ne sarete accorti tutti, ma il punto è un altro. Le vere innovazioni sono quelle gratis o al massimo che ci costano uno sforzo individuale, ancora prima che comune, per migliorare le cose. Tutto il resto è marketing. Ecco, per esempio, questa cosa qui che ho scritto, questo post come si dice sull’Internet, è una di quelle storie finita la quale, e ora è proprio finita, al lettore viene da chiedersi “e quindi?”. E quindi niente, è così è basta.

ecco perché studiare da fabbro del proprio destino non consente sbocchi professionali

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Le brutture del mondo ci fanno spesso dimenticare del nostro ruolo che, se ci pensate bene, nel bene e nel male è stato decisivo nella storia. Anzi, possiamo dire che senza il genere umano la storia sarebbe piuttosto noiosa, non trovate? Milioni di anni a guardare piante che fanno il cazzo che vogliono, bestie che si divorano senza problemi di cattività e seguendo leggi naturali su cui nessun filosofo ci possa metter becco (perché senza il genere umano oltre alla storia non ci sarebbe stata nemmeno la filosofia, ma nemmeno applicazioni tecniche, religione, letteratura greca, matematica e tutto il resto delle materie che si insegnano a scuola) secondo una catena alimentare libera da goffi bipedi pelosi ma intelligenti e con arsenali da caccia da paura. Oppure pensate a quei pianeti fatti solo di rocce e gas, che palle. Millenni che scorrono senza che non succeda nulla se non esplosioni, assestamenti tellurici, qualche scontro con dei meteoriti (noiosi tanto quanto loro) e poco più. Invece noi esseri umani per vincere la noia ci siamo dati abbastanza da fare e lasciate perdere il fatto che certe cose potevamo anche evitarle. Ma, appunto, tali brutture non ci fanno passare la fiducia che abbiamo per i nostri simili, prova è che in ogni istante nella nostra vita abbiamo a che fare con cose pensate, costruite e commercializzate da esseri umani il cui funzionamento ci guardiamo bene dal mettere in discussione, consentendoci di ottenere ciò per cui le abbiamo scelte, pagate e utilizzate. Dalla luce elettrica ai fazzolettini di carta, dalla tomografia assiale computerizzata al gel lubrificante per la penetrazione anale, dal gioco dei tarocchi fino alle confezioni di parmigiano già grattugiato, dalle ciaspole ai droni, dagli automezzi spargisale all’Aperol, dalle siringhe monodose ai treni ad alta velocità, dalle lenti a contatto ai pneumatici che non si bucano mai. In ogni istante della nostra vita, dicevo, abbiamo con noi qualcosa progettato e realizzato da altri e che maneggiamo dando per scontato che non dia problemi, che nel migliore dei casi faccia quello che deve fare e che non ci si ritorca contro. La percentuale delle cose fatte bene gioca comunque a nostro favore: pensate a quanto sono rari i casi in cui c’è qualcosa che non va. Per questo dovremmo essere più grati al genere umano. Anche se ha semi-distrutto il pianeta che ha colonizzato per il suo profitto, alla fine ne è valsa la pena e la vita è proprio questo, non vedo alternative. Dobbiamo sempre averlo in mente, come quelle religioni che riconoscono divinità in tutto. In ogni interstizio di quello che vediamo c’è il nostro zampino. Questi tasti che sto schiacciando in una sequenza tale da comporre parole e frasi che possano piacervi o meno si basano su una tecnologia inventata da individui come me e voi, nulla è stato creato dal nulla e funziona finché

deadbook

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Da quanto tempo siete su Facebook? Tre anni? Cinque? Otto? Io dal dieci ottobre 2017, quasi dieci anni anche se non lo dimostro, ma non ve lo dico per fare quello che c’era già prima che diventasse un fenomeno di massa, perché come per tutte le cose c’è sempre qualcuno che ce l’ha più lungo, in questo caso il passato. Il punto è che, se siete da anni sul socialcoso di Zuckercoso lì, avrete già avuto occasione di sperimentare la morte su Facebook. Non la vostra, altrimenti non saremmo qui a parlarne. Intendo qualcuno che nel tempo vi ha lasciato.

La morte online, considerando che nulla è più eterno del dato digitalizzato, è l’aspetto paradossale dell’eternità virtuale. Profili fotografici che non invecchiano mai, cose scritte che restano nella cache di Google nei secoli dei secoli, attimi colti e resi immortali da meme perenni, errori altrui anche di un secondo ma portati all’estremo e c’è persino gente che si suicida per queste cose ed ecco che il cerchio si chiude perché può capitare che qualcuno dei vostri contatti ci lasci le penne (toccatevi forte come lo sto facendo io).

Tra i miei 647 amici in senso facebookiano ne ho tre morti certificati, nel senso che è gente che più o meno conosco e so essere defunta. Scusate il cinismo e non prendetelo come mancanza di rispetto, è che la leggerezza della rete che è più o meno equivalente ai ventun grammi del peso dell’anima rende tutto un gigantesco quanto imperituro baraccone di cose online, colori sgargianti, tutto e il contrario di tutto, eccessi e finto rigore, un rondò finale dove tutti esagerano nelle loro peculiarità e, proprio come in questo post, non ci si capisce un cazzo.

E il paradosso è che le pagine di questi tre che so per certo essere morti continuano ad essere attive. Gente morta taggata da altri sui cui diari compaiono inviti a eventi o iniziative varie. Ogni tanto qualcuno posta un pensiero giustamente triste, in occasione dell’anniversario di morte fioccano i post di affetto, i ricordi degli amici. A me spiace un po’ che ci sia un sistema che consenta questa simultaneità tra la vita e la morte, che solo l’Internet e qualche drammaturgo del passato hanno reso possibile, e spiace soprattutto quando nel box degli amici a sinistra in basso compaiono le loro foto profilo. In mezzo ai colleghi, ai maître à penser del marketing digitale, ai musicisti con cui sono in contatto, parenti e amici di ogni ordine e grado ci sono quindi anche i morti, non tantissimi ma tre di sicuro e certificati a meno che, nella pletora di quelli che ho aggiunto o si sono aggiunti a questo enorme blob relazionale, non ci sia qualche sconosciuto di cui non ho sentito più parlare o letto status alcuno e il motivo è perché, non si sa quando o come, è morto anche lui. A lato, in basso a sinistra, tra il giornalista esperto in cyber-sicurezza e la mamma dell’amica di mia figlia e il mio ex principale che fabbrica pasta con farina di insetti in Tailandia ogni tanto compare un fantasma, non so come altro definirlo, qualcuno che non c’è più ma che ha una piattaforma numero uno in borsa che lo mantiene, a suo modo, in vita.

quando l’allievo supera il maestro ma prende la multa

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Ho atteso che l’ingegnere terminasse il suo intervento ieri al seminario di “Scienza delle costruzioni oniriche” per farmi mostrare il suo modello di materiale rotabile per uso sotterraneo, ciò che noi imbevuti di cultura umanistica volgarmente definiamo metropolitana, che ha sviluppato nel sonno dopo un hamburger doppio con non ricordo che salsa e che ha poi riprodotto (il convoglio, non la salsa) grazie a una modernissima stampante 3D. La somiglianza con il mio ideale di trasporto pubblico ad alta frequentazione in effetti era impressionante, a partire dai sensori incorporati nei sedili intelligenti che riconoscono il passeggero seduto sopra e inviano informazioni come la pagina del libro da cui riprendere o un sistema laser per pulire le lenti appannate degli occhiali. Si possono sfruttare anche i big data, per esempio con un sistema che mette in relazione certe informazioni personali con le persone sedute vicino e, in caso di particolare compatibilità ma non necessariamente per fini seduttivi, i due sedili si illuminano come quelle macchinette per il videopoker quando si fa jackpot. Pensate che imbarazzo.

Non mi aspettavo però, da parte di un cervellone come lui, un apprezzamento sulla mia attività di autore di trame impossibili da sviluppare, un settore molto poco razionale. Pare aver gradito quella mia vecchia pubblicazione in cui c’è un tizio che per la prima parte della sua vita scrive un libro sulla seconda parte della sua vita, e al momento dell’ingresso nella seconda parte della sua vita è il libro stesso a raccontare la prima parte a ritroso. E se sapete leggere tra le righe, avrete capito chi è l’allievo e chi il maestro, in tempi in cui siamo così lontani dalle radici per cui nessuno si ricorda più chi viene prima di chi. Mi è successo ben due volte nel giro di qualche giorno. Un cliente mi ha chiesto di usare, per un video che abbiamo realizzato per la sua azienda, una musica “tipo i Rondò Veneziano, per esempio qualcosa di Bach”. Poi una giovane bibliotecaria, dopo avermi consegnato il nuovo di Kent Haruf e aver scambiato quattro chiacchiere con me sulla sua trilogia, mi ha detto che potrebbe piacermi Carver.