record di velocità indoor su carta

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Chi l’avrebbe mai detto. La letteratura più in voga nel duemila ha cicli di vita rapidissimi come gli annunci in rotazione di una volta, quelli sui led rossi. Nella letteratura del duemila non è importante l’autore, colui che ha generato il pezzo di letteratura, perché essa segue un modello che può essere paragonato a quello della tradizione orale. A non so quanti anni dall’avvento della stampa ora la letteratura, quella del duemila, si è riaccaparrata della sua consistenza originaria in cui è la storia in sé il fine narrativo e non più il libro. Le storie della letteratura del duemila sono più corte di qualunque altra espressione, persino degli haiku e scorrono a fiotti lungo le pagine Facebook dei lettori. I lettori del duemila non leggono più un’unica storia raccontata lungo le centinaia di pagine di un libro, leggono simultaneamente centinaia di storie in un’unica pagina Facebook. Così se chiedi a un lettore del duemila che cosa leggi non saprà risponderti perché l’evoluzione della lettura ci ha imposto nuovi modelli comportamentali. Come cosa leggo? Leggo e basta, perché non esistono più oggetti e soggetti. Si legge e la lettura è lo stream di Facebook. Se accusate un millennial di non leggere vi risponderà che no, non è vero, lui legge eccome. La letteratura del duemila è multiforme e si articola in battute, immagini, giochi di parole, accuse, notizie false, pensieri semplici, espressione di sentimenti elementari. Non ha nemmeno delle regole sintattiche, tanto ci capiamo comunque. Gli autori siamo noi è siamo miliardi ed è per questo che la letteratura del duemila è tutt’altro che remunerativa, non c’è domanda né offerta, c’è solo la letteratura del duemila che poi è la nostra vita e il modo in cui abbiamo imparato a semplificarla.

bisogni uno punto zero nell’internet del due punto zero

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Visto che anche la Nokia è tornata sui suoi passi con la riedizione del celebre 3310 sfrutterei il momento-nostalgia con un’operazione analogamente vintage e vi dico che se fossi zuckercoso lavorerei a un social network come Facebook ma a 8 bit e non solo con una grafica adeguata tutta pixel e senza fronzoli come un Commodore 64. Allestirei un social network elementare anche dal punto di vista dei contributi dei suoi iscritti, e lo so che i contributi degli iscritti a Facebook sono già sin troppo elementari e anzi, molta di quella gente da come scrive e da come scrive le cose che scrive sembra che le elementari davvero non le abbia nemmeno frequentate, un po’ come me.

Pensavo più a un social network dei bisogni primari in cui uno scrive solo cose come ho fame, ho sonno, ho voglia di scopare, ho caldo, ho freddo, sono stanco, vorrei mettere i piedi a bagno, mi scappa la cacca, mi scappa la pipì, ho finito il dentifricio, avete un bicchiere di vino bianco per fare il risotto perché mi sono dimenticato di comprarlo all’Esselunga?, mi prude la schiena, mi gratti la schiena?, ho le dita gonfie, conoscete un orafo di fiducia per allargare una fede perché mi si sono gonfiate le dita?, ho sete, ho mal di pancia, ho mal di testa, ho mal di schiena, ho il torcicollo, ho la cervicale, mi sento fiacco, sento la primavera, sento il cambio di stagione, mi fischiano le orecchie, qualcuno mi sta pensando?, mi sono svegliato tardi, mi sono svegliato presto, non riesco a dormire, sto per uscire, sono appena uscito, sono a casa, vi sono mancato?, mi manchi, ti amo, ti voglio bene, tu sei l’unica donna per me, scendo a fare quattro passi, scendo a comprare le sigarette, scendo a comprare le sigarette ma poi non torno più, non mi sento bene, mi sento in forma, sto sudando, sto gelando, ho finito il latte, sapete come impostare le termovalvole elettroniche?, qualcuno può comprarmi il latte?, mi passate a prendere, qualcuno ha bisogno di un passaggio?, vado a letto, sto per addormentarmi, buonanotte.

[immagine presa da qui, se avete qualcosa in contrario prima di scatenare un sabba di avvocati fatemi sapere e la tolgo]

generazione spacebar

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Andate a giocare fuori che c’è la copertura wireless con la fibra ottica, dicono mamme nonne e zie stanche di osservare i bambini chini sui loro smartcosi confinati nelle loro stanzette virtuali e confinati, a loro volta, nelle stanzette domestiche con connessioni Internet dalle basse prestazioni. Oggi che sono finiti i tasti sulla tastiera del PC per dare un nome alle generazioni, dopo la X e la Y e tutti gli altri caratteri dell’universo unicode per categorizzare i nostri figli, nipoti, alunni e ragazzetti in genere, non resta che la barra spaziatrice che, ironia della sorte, coincide con il vuoto assoluto, lo spazio bianco che per carità, da un punto di vista tipografico è più che fondamentale e ci consente di dare un senso a quello che leggiamo e scriviamo, ma la metafora a cui ci porta non è certo delle più felici.

Eccoci dunque alla Generazione Spacebar e l’interpretazione passa quindi da due significati opposti che impongono più di una riflessione: da un lato quello che in codice html si scrive “&nbsp” (e lo metto appositamente tra virgolette e senza punto e virgola finale altrimenti non lo vedreste), dall’altra lo spazio bianco separatore inteso come elemento cardine della comunicazione senza il quale ci troveremmo di continuo, per comprenderci reciprocamente, a risolvere quei giochi enigmistici in cui in una marea di lettere apparentemente gettate alla rinfusa occorre rintracciare a colpo d’occhio parole di senso compiuto. Ci sono anche simpaticissimi tormentoni su Facebook, gli avete visti vero? Quali sono le parole che visualizzate per prime?

E pensare che la Generazione Spacebar di Facebook se ne fa un baffo, tutta presa nell’inchiostro digitale simpatico delle storie su Snapchat che evaporano dopo ventiquattr’ore, volatili e sfuggenti come la giovinezza che noi da qui ormai la vediamo col binocolo, a meno di non lavorare nel settore. Oggi contro la Generazione Spacebar se ne dicono di tutti i colori. Non sanno scrivere in italiano, non leggono, buttano via il loro tempo a rincorrere meme sui social, sono anafettivi perché abituati alle relazioni mediate dalla tecnologia, porno-dipendenti, egoriferiti, dei mostri, insomma, che noi con le nostre radici nell’etica tradizionale novecentesca non sappiamo come prendere. Non possiamo insegnare nulla a loro perché le materie come sono state insegnate a noi non esistono più. Oggi è un unico calderone di cose che durano una manciata di giorni, qualche milione di visualizzazioni, balletti e smorfie di cui nessuno conosce la provenienza, probabilmente dallo spazio inteso come universo e non come spacebar , appunto, in un caos cosmico che ci sta mettendo a dura prova. Il gap generazionale non è mai stato così ampio, molto più di uno spazio bianco separatore, molto più del tab, d’altronde il tasto spacebar , se ci fate caso, è quello che si differenzia più di tutti.

i nuovi webariani

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Non è solo l’industria culturale a essere stata drasticamente messa in un angolo dal digitale e dall’analfabetismo di ritorno causato dalla sovraesposizione ad esso a cui siamo soggetti. Provate a tenere dei soldi in mano e a sostare davanti a una vetrina di un negozio con una cosa che desiderate fortissimamente in bella mostra, e provate a fare lo stesso con la carta di credito, un sito di e-commerce e solo un clic che vi separa dall’acquisto. Provate a pensare ai vostri risparmi in banconote dietro a una piastrella della cucina, come facevano i nostri nonni, contemplando lo spessore delle mazzette, e descrivete invece la vostra sensazione osservando la cifra che ne indica l’entità sulla home page personale della banca virtuale di cui siete clienti. Il valore dei soldi è equivalente? Probabilmente no, e forse è anche cambiata la scala delle priorità e la posizione ricoperta in questa scala dalla merce rispetto alla valuta. A me, per dire, i pacchi di Amazon sembrano sempre dei doni di Babbo Natale anche se li ho pagati un botto. Il passaggio dei dati relativi alla transazione che mi ha permesso di comprare qualcosa non mi dà nessun fastidio fisico rispetto alla voce soddisfatta del negoziante che ha appena concluso l’affare con me e a quello che provo riponendo lo scontrino nel portafoglio, che è sempre bene conservare in caso di pentimento. Ma voi riportate indietro al negoziante soddisfatto le cose che non vi soddisfano dopo qualche giorno perché volete indietro i vostri soldi? Comunque potremmo provare a sperperare tutti i nostri risparmi qui sul web e vedere se poi esiste un’estensione di Chrome che riesce a riempirci la pancia solo con il nostro girovagare in rete.

stare al computer conserva ancora tutto il suo fascino

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Se vogliamo dare una delle solite liste ma questa volta con l’obiettivo di elencare alcune delle fasi superate le quali è avanzato di molto il processo evolutivo del genere umano direi, così sui due piedi:

– l’atto di alzarsi per cambiare canale alla tv, reso obsoleto dall’invenzione del telecomando
– le telefonate dall’unico telefono di famiglia sul mobiletto o appeso al muro e la conseguente condivisione dei fatti propri, una cosa che oggi sarebbe comunque inimmaginabile (spero abbiate colto l’ironia)
– stare al computer

ed è su quest’ultimo punto su cui vorrei soffermarmi, perché stare al computer, che è una delle principali cause dei problemi fisico-motori della gente degli ultimi vent’anni – pensate alle varie cervicali, torcicollo, vista, scogliosi e altre deformazioni della spina dorsale, problemi ai polsi per l’uso del mouse e della tastiera, pancia, in alcuni casi persino emorroidi a causa di un’eccessiva sedentarietà, fastidi alle articolazioni delle gambe e dei piedi sempre per posture incorrette – oggi è una delle nostre abitudini che presto manderemo in pensione (beata lei, quindi) soppiantata dai dispositivi touch e privi di periferiche che non necessitano della postazione classica di lavoro composta da sedia e scrittoio. E vorrei proprio soffermarmi su questo punto perché lo stare al computer, in fondo, è l’evoluzione dello stare sulla macchina da scrivere, che a sua volta era la modernizzazione dello scrivere con carta e penna, una mano sul foglio per immobilizzarlo, l’altra che ara bianchi prati per seminare con seme nero (questa è una citazione, indovina l’indovinello).

Ma, per quanto riguarda me, o almeno finché saranno prodotti, userò sempre i computer portatili, con quella forma a elle e sempre più sottili che mi fa davvero sentire un uomo di un film di fantascienza, anche ai tempi di Ok Google che quando lo pronunci in mezzo a tante persone senti decine di dispositivi mettersi sull’attenti e risponderti allo stesso modo. Questo sempre che non ci sia una giuria popolare a mettersi in mezzo per decidere per tutti noi che lo stare al computer è una cosa che non va più bene. Ecco, io la giuria popolare grillista me la immagino composta dalle stesse persone che, dieci anni fa, si facevano i video mentre mettevano le Mentos nella Coca Cola col doppio intento di dimostrarci i risultati e di riempire l’Internet di minchiate, proprio come me.

pensate se trent’anni fa la vostra fidanzata o vostro marito per Natale vi avesse regalato un telefono

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Pensate se trent’anni fa la vostra fidanzata o vostro marito per Natale vi avesse regalato un telefono. Un Pulsar rosso, per esempio, come questo qui. Lo avreste considerato un dono senza senso, privo di qualunque personalità, se non addirittura un chiaro intento di dimostrarvi che le cose non vanno più come prima, che l’amore è occupato in ben altre conversazioni, che i segni dell’antica fiamma non solo non si riconoscono più ma che non è rimasta nemmeno la brace calda. Se c’è una tradizione che conserverei più del presepe e dell’albero è proprio questa. Non date retta alle pubblicità dei telefoni che ci fanno sentire come se i telefoni costosi facessero la felicità sotto l’albero più di ogni altra cosa. Non regalate telefoni a Natale, questa è la mia piccola campagna. La tecnologia è il materiale freddo per eccellenza – a meno che non pensiate di regalare un sistema di riscaldamento a gestione wireless – quindi potreste passare per gente fredda anche voi, anche se il telefono costa un occhio della testa e, scontrino alla mano, potreste passare per persone che non badano a spese per fare felici i propri cari. Regalateli per compleanno. Regalateli come premio per un risultato ottenuto. Ma a Natale boh, io un telefono non lo regalerei mai, a meno che non sia, davvero, un Pulsar rosso, come questo qui (immagine presa a scrocco da Wikipedia).

telephone_pulsar_2

tutti i miei sbagli

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Fatemi vedere le dita? Ah ecco, allora le mie non sono poi così più enormi della media. Per me la tastierina touch dello smartphone è la morte dei sensi, dell’ispirazione e della scrittura in sé, oltre ad avere un’usabilità pari a quella di un cacciavite per orologiai utilizzato da un quadrupede privo di pollice opponibile. Un po’ la mia vista che certe volte risulta annebbiata, e temo sia arrivato il momento di mettermi in mano a un oculista di quelli bravi, ma non è solo questo. Prima o poi l’umanità si ribellerà allo spazio circoscritto imposto dalle lobby dei programmatori Android per delimitare ogni area adibita a digitazione di ogni carattere e deciderà che basta, siamo stufi di dover riscrivere la stessa cosa e cancellare digitazioni errate solo perché il nostro polpastrellone ha inviato un input sbagliato a causa delle proporzioni sproporzionate tra uomo e macchina, confronto da cui usciamo perdenti. Per me è tutto un porre rimedio a punti scritti al posto di spazi, rendendo ogni frase un nome di file con estensione o un indirizzo web a cui il sistema che si crede così intelligente dà subito la dignità di link a qualcosa sull’Internet. Poi dovreste finirla – e mi rivolgo ai costruttori di dispositivi – con queste accentate che non si trovano mai. La nostra lingua è così perché né sé già lì là, non potete farcene una colpa. Se volete mantenere il vostro marketshare dateci una mossa. Io rimpiango il mio Blackberry con quei tastini che comunque, con un rapporto più fisico tra pelle e plastica, alla fine risultava molto più ergonomico. Però la tecnologia è andata da tutt’altra parte e bisogna farsene una ragione. Ciò non toglie che quando devo appuntarmi qualcosa di interessante, un post come questo, per esempio, e ho solo lo smartphone a disposizione, è un bagno di sangue perché nel frattempo la memoria (la mia) sempre più volatile fatica a trattenere le idee e le dita non tengono il ritmo della creatività, che poi forse sarebbe anche meglio così, mi direte. Chiudo con un veloce saluto decontestualizzato ai Subsonica, che mi hanno fornito lo spunto per il titolo.

chi ce l'ha più veloce

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Quando mi trovo in mezzo ad altre persone ciascuna con il proprio device di lavoro – portatile o tablet o smartphone che sia – invidio tantissimo tutti e mi lascio pervadere dal solito complesso di inferiorità digitale. Ieri ho partecipato a un mega-evento di un cliente dell’agenzia in cui opero, organizzato in una struttura abnorme e avveniristica tutta acchittata dalle effigie e dai colori di quel brand arcinoto. Ho avuto così la possibilità di osservare gli altri partecipanti seduti nei posti limitrofi al mio, durante la conferenza principale della giornata, e notavo con rammarico i tempi di risposta dei loro dispositivi rispetto ai miei, e quanto ci impiegavano a essere nel pieno dell’operatività.

Ho calcolato la sequenza di

a. portatile o ibrido sulle ginocchia
b. pressione sul pulsante di accensione
c. inserimento della password
d. visualizzazione completa del desktop, barra degli strumenti ecc..
e. lancio del client di posta elettronica
f. download della posta elettronica
g. risposta al primo messaggio ricevuto

e ho calcolato una media di venti secondi. Il portatile che ho in dotazione, lo stesso da cui sto scrivendo ora, ci mette almeno un quarto d’ora, senza contare che ha un problema con la batteria per cui, per avviarlo, devo comunque essere connesso alla rete elettrica.

Con i tablet invece la cosa è diversa. Ne ho acquistato uno qualche anno fa rimanendone deluso, non tanto per le prestazioni ma per l’utilità in sé. A me piace usare una tastiera di input e il touch screen non è proprio nelle mie corde. Questo non mi ha impedito di osservare le cose fighissime che le persone facevano con il loro iPad, a fianco a me. Dashboard e console di gestione di non so che cosa, movimentate al tocco dei polpastrelli con una maestria da direttore d’orchestra. Non so voi, ma il massimo dell’esperienza che ho provato con il mio (era un Android che, per giunta, si è già rotto) è stato una manciata di livelli di Candy Crush.

Per non parlare del telefono. Vedevo intorno a me uno sfoggio di interfacce utente da paura, con una risposta di sistema operativo e di app al fulmicotone. Con il mio, non vi dico la fatica a farlo ragionare e a farmi mostrare le cose che mi servono.

Ecco: nel mio mondo ideale, schiaccio un pulsante su qualsiasi cosa e, con una latenza uguale a quella del tasto di un pianoforte o di un qualunque interruttore, accade la reazione che mi aspetto. Ma nella realtà le cose non funzionano così. Dicono che sono dispositivi intelligenti, secondo me li stiamo sopravvalutando. O magari sono scemo io, eh, o solo un po’ sfortunato.

la parabola delle fascette copri-cavo a spirale in plastica grigia

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La grande novità qui in ufficio per la stagione professionale appena iniziata sono le fascette copri-cavo a spirale in plastica grigia che raccolgono i fili penzolanti dalle scrivanie e li contengono onde evitare piccoli incidenti, per non parlare del senso di ordine che trasmettono e, perché no, del salto di qualità da un punto di vista estetico. Le fascette copri-cavo a spirale in plastica grigia ci sono state imposte all’ultimo controllo dell’ispettore della sicurezza sul lavoro, poco prima delle vacanze. Si è affacciato nella stanza che ospita me e altri cinque colleghi – per un totale di sei computer e dieci monitor – e la sorpresa della densità abitativa e delle relative conseguenze (in primis l’atmosfera tutt’altro che rarefatta) è passata subito in secondo piano rispetto alla sensazione di pericolosità maggiore trasmessa dalla vista di tutti i cavi di collegamento tra i dispositivi, verso la rete aziendale e verso l’impianto elettrico, lasciati liberi di attorcigliarsi a proprio piacimento. Così, al rientro dalle ferie, la prima cosa che mi ha detto il collega che si occupa di questioni inerenti l’hardware – siamo in una scala di priorità di ben altro livello rispetto a cose come “dove sei stato di bello” o “diamine come se abbronzato” – è stata un commento alla grande novità che ci accompagnerà d’ora in poi in agenzia. Sono trascorse appena un paio di settimane ma già i benefici delle fascette copri-cavo a spirale in plastica grigia sono più che evidenti. Lavoro con maggiore disinvoltura, ho picchi di creatività e produttività mai visti prima e, soprattutto, ho qui nel portafoglio un bel bonus di ottimismo che mi consente di tornare a casa la sera pieno di speranze per la mia carriera.

Poi, però, arrivano notizie drammatiche come quella di ieri. Avete sentito, vero? Il nuovo telefono Apple, l’iPhone 7, è stato pensato privo dell’ingresso jack per le cuffie. Gli utenti dello smartphone al sapore di mela morsicata avranno un cavo in meno da sbrogliare e, di certo, qualcosa nella loro vita cambierà, considerando il tempo risparmiato. Il punto è che oggi si inizia con gli auricolari, già la presenza della connessione wireless negli uffici ha reso superflui i cablaggi per l’accesso alla rete, e insomma nel giro di qualche anno magari dei cavi non ci sarà più bisogno. Vivremo immersi in un qualcosa che non si vede ma che convoglia informazioni, energia elettrica, input, feedback e chissà cos’altro e che, purtroppo, decreterà l’obsolescenza delle fascette copri-cavo a spirale in plastica grigia perché, appunto, non ci sarà più niente da incanalare e da convogliare da qualche parte. Che ne sarà di questa novità, tra dieci, venti, cinquant’anni? A me un po’ mi spiace, alle fascette copri-cavo a spirale in plastica grigia qui in agenzia mi ero già affezionato e non vi nascondo che un mondo senza cavi e fili mi mette in agitazione.

non più di 640 MB di spazio (al massimo 700)

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Il mercato dell’editoria digitale è molto esigente in fatto di nomi ed è per questo che in Italia ci sono almeno 100 aziende che hanno il suffisso o prefisso “media” nella loro ragione sociale e io vi assicuro che le ho girate tutte o per lo meno ci ho provato. Immedia, Ipermedia, Intermedia, Informedia, Digimedia, un’omologazione lessicale che mi ricorda quando ci si scervellava per trovare il nome alle band, e chi come me si dilettava di elettronica ci teneva a voler trovare un nome composto con la parola “techno” anche se tutti me lo bocciavano perché dava un’impronta di genere fin troppo definita.

COmunque uso Altavista come motore di ricerca e trovo diverse software house a Milano che curiosamente hanno tutte un nome simile, e scrivendo l’indirizzo sulla busta che contiene il curriculum faccio fatica a non fare confusione. Qualche copia stampata l’ho consegnata a mano durante SMAU che però, anno dopo anno, si sta trasformando sempre più in un circo delle compagnie telefoniche. Mi sono lasciato prendere dal fatto che la settimana scorsa ho provato a chiamare una di queste agenzie per chiedere informazioni e una centralinista mi ha invitato subito a fare due chiacchiere. Il capo si chiama Rosario e sua moglie passa il tempo con lui in ufficio perché ha partorito da poco e siccome lui non può assentarsi dal business lei allatta in sala riunioni. Hanno già un ragazzo genovese che collabora con loro ma in modo molto naif. Lui è una specie di musicista e si trova a Milano per il servizio civile, così arrotonda componendo colonne sonore per CD rom. Abbiamo qualche amico in comune e lo ricordo perché usa ritagli di riviste porno per le copertine dei cd copiati degli Afterhours.

La corsa a chi offre uno stipendio più alto a chi si intende di queste cose nuove prima o poi arriverà a un traguardo, ma i più credono che in realtà si sia trattato di una falsa partenza. Gli impiegati di Virgilio saranno i primi a scioperare tra qualche anno a causa della puzza di tagli. Qui invece va ancora tutto a gonfie vele e non c’è un giornale in edicola che non esca ogni santo giorno con un CD rom allegato, di qualunque tipo. Un paio di miei ex colleghi si sono inventati persino una specie di videogioco di quelli in cui spari in soggettiva, ma al posto dei guerrieri da abbattere ci sono figure femminili da fecondare ed è facile immaginare che cosa ci sia, rivolto verso di loro, al posto della canna della pistola.