il primo giorno dopo il giorno della liberazione

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Il 25 è una data presa a simbolo, ai tempi non c’erano certo mezzi per accordarsi sulle tempistiche da spaccare il secondo e non è che da un giorno all’altro è finita la guerra. Non è stata certo una gara con tempi regolamentari e supplementari e il golden goal o i rigori. Il 25 aprile non è quindi uno spartiacque tra la guerra e la pace, tra la belligeranza e la riconciliazione, anche senza tener conto che ancora oggi siamo qui a rivendicare e disquisire e il sangue dei vinti e che, se fosse per me, altro che amnistia di Togliatti. Comunque sul fatto che la liberazione dal nazifascismo uno se la immagina come l’arrivo del deus ex machina e la tragedia si conclude e applausi, occorre fare chiarezza. Dobbiamo immaginare un territorio vasto e articolato come l’Italia settentrionale, un esercito che si stava ritirando da sconfitto in Germania, un altro che si doveva nascondere per sottrarsi alle sacrosante ritorsioni dei propri connazionali, gli alleati, la popolazione civile, gli sfollati. Il tutto in un contesto italiano. La zona grigia tra guerra e pace, la non-guerra o la quasi-pace dev’essere stata un momento particolarmente teso e complesso. Ci penso sempre quando passo di fronte alla lapide di un patriota partigiano posta sul ponte della ferrovia, poco lontano da casa mia. Un ragazzo di diciott’anni ucciso dai nazifascisti il 26 aprile del 45. Sono all’oscuro dei fatti, come sia stato braccato o inseguito o tratto in inganno dagli ultimi rigurgiti del conflitto civile.

Mi ha sorpreso però il destino nefasto di essere una delle prime vittime dopo la data scelta per l’anniversario della liberazione. Nel senso che se invece davvero la sera del 25 tutti erano rientrati nelle loro case con la consapevolezza che la guerra fosse terminata, come quando oggi si torna alla sera dal cinema e ci si accinge a coricarsi con le preoccupazioni per il giorno dopo, sapete com’è. Il lavoro, la palestra, i compiti dei figli, che cosa mi metto se piove. Se è così, quel ragazzo è uscito la mattina del 26 aprile con la tranquillità della pace ristabilita e invece un colpo di coda del secondo conflitto mondiale, che uno se lo immagina come un animale feroce di dimensioni incommensurabili a spasso per il mondo a devastare popoli e territori come un gigante grossolano con tutta la sua cucciolata di piccole guerre civili locali che sono come quei felini che imparano a cacciare giocando con le prede. Ecco, uno di questi forse ha notato una faccia conosciuta, quella di un partigiano sorridente tutto fiero di avere vinto la guerra, e per guastargli la festa l’ha schiacciato, ferendolo a morte. La mia dedica per questo anniversario della liberazione appena trascorso va a lui ma nel giorno successivo, che è quello che per lui è stato l’ultimo. Buon 26 aprile.

fate la pace, fate i bambini

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Ci sono bambini che hanno visioni talmente surreali che poi ci pensi e tutto sommato sono solo loro che, anziché portare problemi, propongono soluzioni. Assolutamente impraticabili ma talmente folli che poi, a provarle, magari funzionano pure. Dimenticate le pagelle così così, le tonnellate di cacca che avete impacchettato nei pannolini usa e getta, la varicella che vi hanno attaccato il giorno prima del colloquio della vita, i letti matrimoniali affollati nei momenti potenzialmente più erotici, il vomito di latte in macchina, le partite di volley alle otto del mattino dall’altra parte di Milano, l’organizzazione delle cacce al tesoro multiplayer. Perdonate ai vostri figli tutto questo, portategli la carezza del Papa ma date loro una opportunità di salvare la situazione e cambiare il mondo. Saltiamo a piè pari i quarantenni, i trentenni, i ventenni, tutti quanti. Cancelliamo questa manciata di generazioni inutili che tanto non hanno speranza e ripartiamo da loro, dai decenni e rotti. Oggi uno di loro mi ha convinto che c’è solo un modo per interrompere i tumulti in corso in Ucraina e che tanto affliggono un suo compagno di classe di Kiev, qui in Italia per il lavoro dei suoi genitori. Tutti noi, tutti i cittadini dell’Italia e dell’Europa se non del mondo intero tranne che quelli ucraini, ovviamente, ché sarebbero di parte in un conflitto di interessi poco adeguato al momento. Questa massa di miliardi di abitanti del pianeta Terra dovrebbe riversarsi in quella piazza con il fuoco e le fiamme che vediamo all’ora di cena al tiggì. Sì, avete capito bene, prendersi qualche giorno di ferie, mollare tutto per andare tra manifestanti e polizia, mettersi in mezzo e convincere tutti a fare la pace. Ve lo immaginate, miliardi di persone a Kiev? Gli stessi che poi si spostano in Siria con lo stesso obiettivo, poi a Gerusalemme, poi in Afghanistan, in Iraq, un immenso flusso migratorio che si muove in ogni posto al mondo dove c’è la guerra, anche nei posti più lontani anche ai confini della terra. E una volta lì le guerre e le battaglie smettono, perché tutti sono contenti dell’attenzione che miliardi di persone gli hanno dedicato. Vi dirò. Si tratta di una strategia che ha dei risvolti inaspettati. Nel senso che se tutti vanno a Kiev, in Siria, in Egitto, in uno degli ennemila paesi africani dove ci sono guerre civili, se tutti se ne vanno e lasciano le città deserte, vuol dire che non ci sarebbe più nessuno al suo posto e tutto si interromperebbe. Sparirebbero autotrasportatori e casellanti, vigili urbani e postini, panettieri e addetti alla pulizia delle strade, impiegati e commercianti. Tutti via, tutti fuori. Un grande inimmaginabile silenzio, perché non ci sarebbero nemmeno le trasmissioni tv. Non ci sarebbe Sanremo. Ecco. Non ci sarebbe Sanremo.

pubblico di merda

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Ditemi se ho torto: quando entrate in un qualunque ufficio di una qualsiasi azienda privata e vedete una moltitudine di persone chine sui loro pc non vi verrebbe mai in mente di domandarvi o domandare a qualcuno come mai ci sono tanti dipendenti e che cosa fanno. Ma se vi recate all’ufficio tributi del vostro Comune e vi trovate di fronte a quattro impiegati simultaneamente addetti alla registrazione delle varie Tares e Imu o come si chiama ora siete primi ad alzare il ditino, a lamentarvi con quelli che fanno la coda con voi, e magari è pure sabato mattina e per voi è anche un giorno festivo, e a rompere il cazzo che sono in troppi.

O invece siete in fila allo sportello di una filiale della banca che custodisce i vostri soldi e gioca in borsa con i vostri risparmi, e l’operatrice che sfoggia un giro di perle che chissà quanto guadagna e magari è pure appetitosa cincischia con il collega che dà consulenza alle famiglie e ha pure il potere di decidere sui mutui e quindi sul vostro futuro, e se il potere vi fa perdere un quarto d’ora perché la fibra in quel momento fa cilecca e non consente l’accesso alla rete dell’ABI pazienza, aspettiamo. Ma se allo sportello dell’anagrafe, l’unico aperto durante le vacanze proprio quando dovete fare la carta d’identità di vostra figlia per partire per Sharm, oltre a esserci pieno di gente del vostro livello e qualche ucraino di contorno, si blocca il pentium in dotazione e si corre il rischio di mandare in fumo la caparra del volo e del villaggio perché non si fa in tempo e la piccola con le Lelly Kelly borchiate non può espatriare, ecco che impugnate il forcone, le cinque stelle e tutte le armi che vi ha messo in mano il grillo-brunettismo e siete pronti a presidiare la sala consigliare fino alla morte.

E infine sul lavoro, dove bellimbusti con qualche pseudomaster in management di staminchia vi tengono sull’attenti perché avete mancato di interpretare correttamente i loro italianglismi e la quota trimestrale ha qualche zero virgola rotti punti in meno sul forecast, mentre poi parcheggiato il BMW (e occhio a dove lo mettete che ultimamente con il traffico dei pezzi di ricambio rischiate di trovarvelo smembrato) siete in prima linea e sbracate con tutta l’arrogante maleducazione con la prof di italiano dei vostri pargoli perché, notoriamente vostra dipendente, non comprende il valore, non rende sufficiente gratificazione, non sorvola sui temi che nemmeno i bambini delle elementari perché che importa, nella vita basta saper usare Internet, e magari ci andate pure giù pesante con offese personali che altrove vi avrebbero già preso a testate.

Ecco, spiegatemi che cosa può fare per voi una pubblica amministrazione così. In che cosa può servirvi. Come può aiutarvi se siete delle bestie. Da dove nasce il vostro livore. Che poi, diciamocela tutta, magari le tasse nemmeno le pagate.

non fiori ma opere di bene: una guida ragionata al vostro miglioramento per l’anno a venire, sempre che vogliate migliorare

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Vi appunto qui, per vostra comodità, un po’ di buoni propositi che dovreste porvi come obiettivo per il prossimo anno. Qualche suggerimento utile a trarre ispirazione per i vostri status su Facebook, ma anche per avere un archivio qualora, nel corso del 2014, vi dimentichiate ciò che avevate promesso di fare: una dieta, essere più pazienti con i vostri anziani genitori, iscrivervi a un corso di tedesco per consentire al vostro cervello una fuga dall’Italia più comoda e così via. Nel dubbio, memorizzatevi da qualche parte l’url di questo post. Non si sa mai.

Intanto mettiamocelo bene in testa. Se c’è qualcosa che ci mette i bastoni tra le ruote non c’entrano né i costi della politica tantomeno gli spioni dell’Nsa. Il pericolo è la gente, almeno nove su dieci delle persone che incontriamo ogni giorno dal vivo o sui socialcosi – e non escluderei nemmeno i nostri contatti più vicini – sono contro di noi e il nostro progresso, usano l’arma del grilleggio, dei forconi, del nazi-animalismo, del cuore fatto con le dita e del veganismo per convincerci che studiare non serve più, che siamo noi i colpevoli della fine dell’umanesimo e ci propongono un medioevo mascherato da rinascimento. Al punto uno delle cose da fare metterei proprio chiudere i rubinetti della disponibilità verso i nostri simili, cercare di indurre questo prossimo a sfogarsi con quello successivo, ne va del nostro benessere. Individuiamo quel profilo su dieci che ci somiglia, di uno con cui confrontarsi ce n’è d’avanzo. E, ricordatevi, se avete bisogno, sono qui.

E poi finiamola di fare tutti la stessa cosa e di ripeterla a oltranza. C’è davvero tutto questo bisogno di postare i fumetti con le nostre sembianze? Di fare il twerking con cani e porci? Di indossare scarpe da tennis alte e borchiate tutti quanti? Di sposare le cause tutti insieme anche quando nemmeno sappiamo chi diamine siano le Pussy Riot? Di riempirci di rate per poter ostentare selfies con gli amici? Diamo il nostro voto a chi proporrà un numero limitato per ogni cosa. Non più di un milione di smartphone sul mercato italiano, quelli che restano fuori utilizzeranno qualcos’altro. L’oroscopo di Brezny che si autodistrugge dopo diecimila letture. Un numero massimo di un centinaio di buongiorno di Gramellini, poi il suo spazio editoriale sull’Internet cambia la password che gli sarà fornita solo nel 2015.

Per il resto dovremmo incazzarci di più ma con chi, davvero, se lo merita e prendere posizioni ferme sulle cose che contano. Evitare i bar che hanno il videopoker, ostruire le corsie dell’autostrada alle mostruosità a quattro ruote che non portano pazienza, cancellare i canali Mediaset dalle nostre tv, deridere pubblicamente i lettori di romanzi fantasy e di Libero, non cliccare più sui video delle tragedie che i quotidiani online pubblicano impunemente, smettere di seguire il calcio, togliere il saluto a chi scrive qual è con l’apostrofo e a chi vota i cinque stelle, seguire The Newsroom con maggior assiduità che i talk show in cui è ospite Andrea Scanzi. Proviamoci, per una volta. L’appuntamento è qui, su queste pagine, tra un anno. Tutti a raccontarci come è andata. Magari, a nostra insaputa, avremo dato inizio alla New Age.

trema destra

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Ma probabilmente gli storici scriveranno che negli anni dieci del ventunesimo secolo guerre e rivoluzioni erano così. In qualche punto della città c’era qualcuno che combatteva contro qualcun altro e la media di sirene dei mezzi soccorso che passavano al giorno nelle strade era solo un po’ più elevata rispetto alla normalità. Gli uffici erano al completo con gli impiegati seduti ai computer a usare i programmi della suite di Office come gli era stato insegnato ai corsi di specializzazione. Un occhio sempre pronto a sbirciare sui siti di informazione lo stato delle cose, i tweet in tempo reale per avere in anteprima, rispetto alla stampa, qualche aggiornamento fondamentale. Un sistema che era già stato sperimentato ai tempi del bombardamento di Belgrado, quando grazie a ICQ i ragazzi in pace inviavano solidarietà ai loro coetanei in pericolo di vita o sotto il tiro delle missioni umanitarie. Una cosa simile era accaduta anche durante i fatti di Genova, quando la popolazione che protestava era stata brutalmente contrastata dalle forze dell’ordine a dimostrazione che cortei espressamente di sinistra erano soggetti a trattamenti ben diversi, da polizia e carabinieri, rispetto ai movimenti di ben altra matrice, come quelli del dicembre 2013. Non c’erano contatti tra la gente comune e i rivoltosi, non si assisteva a isterie di piazza come quelle esplose nei paesi arabi qualche mese prima, ognuno portava avanti la sua vita senza nessun ostacolo particolare. C’erano stati lo stipendio e la tredicesima, le partite di coppa si svolgevano regolarmente e se venivano interrotte accadeva per motivi ordinari come un’abbondante nevicata. Le famiglie di immigrati, anche di culture e religioni così distanti dalla nostra, continuavano ostinatamente nel tentativo di integrarsi trascorrendo pomeriggi in posti come l’Ikea per salutare una maggiore stabilità economica, ottenuta grazie a qualche datore di lavoro ben disposto e straniero come loro, attraverso uno sforzo di adattamento alle linee e a un’estetica così ancora lontana dai colori e dai tagli dei loro abiti tradizionali. La sera alla tv era tutto un gridare di anchor man d’assalto, corrispondenti da presidi e blocchi ai caselli autostradali, punti ristoro con salsicce alto-atesine e vin brulè, su riprese con smartphone delle poche vittime sacrificali a giustificazione che dall’una e dall’altra parte tutto quel rumore non era affatto per nulla. I disoccupati aggiornavano i loro profili Facebook con le foto dei loro cartelli sgrammaticati e gli adolescenti più temerari applicavano strategie apprese su videogame sparatutto in soggettiva. C’era stato qualcuno, pochi giorni prima, che avrebbe voluto dare un nuovo nome al futuro ma nessuno si ricordava più, alla fine, come si era deciso di chiamarlo.

gli italiani in piazza per una nuova moneda al posto dell’euro

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Mio suocero che è del ventotto una volta mi ha raccontato di quando, nella Milano del 44, quella di “Senza Tregua” per capirci, passava davanti alla sede della decima mas. Anzi non passava proprio davanti, ma come tutti cercava di stare alla larga dalle pattuglie di guardia, ragazzini con mitra e pistole con cui era facile mettersi nei guai. Il regime di Salò raschiava il barile del consenso tra volontari e non che, a quindici o sedici anni, potevano avere pasti caldi e libertà di fare fuoco arbitrariamente in cambio di una divisa. Sono racconti che mi tolgono il sonno nel vero senso della parola. Stanotte ho dormito poco e male. Ero tormentato da scenari apocalittici da golpe cileno in cui la gente rivoltosa unita a forconisti post-grilleschi con il patrocinio di qualche scheggia impazzita delle forze dell’ordine, camionisti, pentastellari, evasori fiscali in cerca di una scusa per giustificare le loro manchevolezze, movimenti di estrema destra, black blocks, un velo di criminalità organizzata di stampo mafioso, studenti che non vedono l’ora di saltare scuola e lanciare qualche sanpietrino, oltre agli immancabili apparati deviati dello stato, insomma tutti insieme appassionatamente all’attacco della democrazia. Uno esce dall’ufficio in questa temperatura polare e sulla strada di casa passa per caso in mezzo a questi legionari del duemila alimentati a gadget tecnologici da centinaia di euro e con in mano qualche pistola. Ma non è un videogame, nemmeno un gioco di ruolo. Quello che transita di lì fa una domanda per capire che succede, quell’altro gli spara. Poi è suonata la sveglia e, per fortuna, di tutto quello c’era solo – almeno apparentemente – la temperatura polare.

un aforisma ci seppellirà

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Quando la comunicazione interpersonale si basava unicamente sulle forze individuali, un tempo che ha coinciso perfettamente con l’epoca dell’analogico inteso come la totale assenza di piattaforme di condivisione orizzontale delle informazioni che non fossero associazioni culturali, circoli politici, dopolavoro e altre forme ora rintracciabili alla voce archeologia sociale, il citazionismo da frasi celebri come sintesi di un sapere pratico o una valutazione etica, in una parola aforisma, costituiva un metodo di rilancio dialettico volto al sensazionalismo nozionistico basato sullo sfoggio di un armamentario di frasi fatte, attribuite con più o meno veridicità ai massimi maître à penser in auge.

Nell’epoca della conoscenza condivisa, invece, laddove il numero di tacche su un dispositivo indicante la potenza di connessione alla rete, a supporto di un sistema di reperimento informazioni in tempo reale, vale di più di un background generalizzato delle principali materie utili alla vita quotidiana – leggere, scrivere, fare di conto – la disponibilità di massime e facezie pronte all’uso ha generato l’ennesimo effetto implosivo della sovraesposizione a virgolettati, a partire dalla semplice frase celebre in calce alla firma della posta elettronica, inclusa come una pillola di sé da allegare al messaggio indistintamente ad ogni destinatario, che rende edotti amici, colleghi, semplici conoscenti, emeriti sconosciuti circa la propria ermeneutica.

Ora, e lo sapete meglio di me, ci sono invece armi di distruzione di massa nascoste persino nei gruppi dei nostri socialini preferiti che bombardano a pioggia l’uditorio di saggezza quotidianamente, per la coltivazione di una sensibilità condivisa e una standardizzazione emotiva. Inutile sottolineare che nell’era dell’immagine, quale miglior modo per incrementare la potenza del messaggio se non accompagnando il motto del giorno con una foto il più didascalico possibile, per un effetto di inutile ridondanza? Repetita iuvant, si dice, anche se non so chi l’ha detto per primo.

Sono  sicuro che non moriremo di aforismi, come ho scritto nel titolo. Almeno non noi. Di certo il partito che fino ad oggi ho votato continua ad annaspare in queste sabbie mobili della comunicazione a botte di smancerie letterarie. Già uno dei più importanti killer del centrosinistra italiano di tutti i tempi, Walter Veltroni, ci aveva dato dentro con la faciloneria da astrazione micro-letteraria. Ma ieri, alla Leopolda, il candidato che sarò costretto a votare alle prossime elezioni politiche ha battuto ogni record.

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aldo direbbe 26 per 1 ma anche noi, insomma, diamoci una mossa

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Io il 25 aprile del 2013 me lo immaginavo diverso. Speravo potessimo festeggiarlo liberi da un certo modo di fare politica, anzi di non farla. Liberi dagli umori della gente in piazza e di quella dei social network che cercano di ovviare la democrazia parlamentare amplificati dai media che confondono mode con maggioranze. Libera dai grillismi di ogni colore e da quelli che sembrano trasparenti. Liberi dai renzismi che vivono nei discorsi dove senti categorie allacciarsi l’una all’altra sull’onda di una boria priva di consonanti ancorché priva di logica. Che è la versione due punto zero della grande chiesa che va da Che Guevara a Madre Teresa passando per Malcom X e così via. E tutti sotto a ballare il grande sogno dove tutto è sintetizzabile in una sorta di QR code globale, utile per ogni occasione. Per la sburocratizzazione come per le blogger iraniane. Insomma, mai avremmo pensato di trascorrerlo nell’ansia di un governo Letta, sotto scacco del PDL che alza la posta tanto non ha nulla da perdere. Perché di quello di cui è vent’anni che ci dovremmo liberare non siamo ancora liberi e tutto per colpa nostra. Lasciamo allora la festa in sé libera da tutto, e che per una volta sia solo il compleanno della libertà, la madre di tutto il resto.

pesce

raggira la moda

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Parte da questo blog una nuova e costruttiva iniziativa di protesta. Quanto vi apprestate a leggere è il manifesto del Movimento Attivista del non-Shopping. Ci ribelliamo contro l’abbigliamento cheap, che è cheap solo nella qualità, nella fattura, nella composizione e nei dettagli ma non nel prezzo, perché comunque costa, i saldi sono farlocchi, e dopo una stagione è impresentabile e lo devi gettare via. E ci ribelliamo anche alle griffe, perché fuori della nostra portata, inaccessibili economicamente, e, detto tra noi, non è che ci stiano poi così bene. Noi del Movimento Attivista del non-Shopping vestiamo da sempre quattro capi in croce, sempre gli stessi, almeno dalle superiori. Continua a leggere. (da Alcuni aneddoti dal mio futuro del 23/07/2011)

Disclaimer: in estate chiunque si barrica dietro un autoreply di chiuso per ferie e mette in sua vece un ologramma giusto per tenergli caldo il suo centimetro quadrato di spazio on line per il ritorno. Sapete, di questi tempi meglio non lesinare in sicurezza, i posti si fanno presto a perdere e mettere un surrogato di sé stessi può essere una strategia vincente. Così noi che apparteniamo a una sottospecie di categoria di esodati ma solo perché abbiamo preso parte come milioni di altri alle partenze molto poco intelligenti, ma allo stesso tempo non vogliamo che vi dimentichiate di noi, abbiamo pensato di pubblicare in questo periodo di vacanza qualcosa di già edito, nostro o altrui, o qualche pezzo a cui siamo particolarmente affezionati. Ciò non toglie che l’ispirazione, dai mari della Sardegna, faccia capolino di tanto in tanto.

sorpresa, è tutto finito

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Alla grande è un modo di dire roboante, che può farmi ridere se lo dice un comico anni ottanta, ma qui in pochi hanno più voglia di slogan pubblicitari da gelati confezionati. Un esempio? Ci si lascia un bel giorno con il proposito di ritrovarsi dopo le ferie per riprendere alla grande. E questa è una cosa che non capisco. Intanto una visione così sbilanciata su quello che già è un dato di fatto, lavorare come bestie per maturare un giorno di ferie ogni dieci giorni e rotti, lascia a intendere che stare in panciolle con moglie e figli sia una sorta di anticamera per la stagione lavorativa alle porte, quegli autunni che ogni anno sono sempre più caldi ma che ultimamente portano solo inondazioni e bizzarre quanto pericolose anomalie atmosferiche in un’area geografica che un tempo era il numero uno per il sole e le mozzarelle e oggi sembra di stare ai tropici con i lavorati latticini che tendono al blu. In secondo luogo, se la situazione era di merda anche prima non è che in queste due o tre settimane un team di fatine colorate si è dedicato a risollevare le sorti dell’economia locale girando azienda per azienda, senza far squillare allarmi dato il loro status di incorporeità, risanando bilanci, coprendo buchi, immettendo liquidi nelle casse, richiedendo commissioni, domandando preventivi, riconfermando contratti, ricostruendo lungimiranza imprenditoriale e risollevando umori a vari livelli. Quel giorno, quello dell’amara constatazione che nella vita il riposo è solo un di cui e che per molti è oggi, riaccendiamo computer ritrovando la stessa situazione di merda che è rimasta in stand by anche se abbiamo scollegato dalle ciabatte i dispositivi per evitare improbabili conseguenze da temporali ferragostani. Per questo nessuno ha intenzione di riprendere alla grande, perché è un modo di dire da sbruffoni che pensano che fare coraggio al prossimo sia solo una questione di modi di dire standard. Io alla grande non ho nessuna voglia di riprendere, e invito voi che oggi siete tornati in ufficio e come prima cosa siete venuti qui a leggere queste poche righe a fare mente locale che non c’è una virgola che si è spostata verso il meglio, in tutto questo tempo. Mandate a quel paese alla grande chi vi vuole sul pezzo con entusiasmo, non sta a voi far riprendere il tutto diversamente da come l’avete lasciato.