generare mostri con il sonno

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Non è la prima volta che S. sogna epifanie aliene, il problema è che me le racconta. Raccontare i sogni è una violazione della privacy di chi ascolta, a meno che a recepire le storie non sia uno psicanalista, il narratore non sia accomodato su un divanetto e tra i due interlocutori non ci sia un rapporto di fiducia se non economico, ufficializzato da una fattura a fine prestazione. Talvolta questo non accade, e non perché i due siano amici – non si può analizzare un conoscente – ma più facilmente perché l’analista è un evasore.

Altrimenti, subire i sogni altrui è una scocciatura, nei sogni vale tutto, i momenti onirici possono generare imbarazzi o fraintendimenti, specie se racconti a terzi di aver sognato focosi incontri carnali con i terzi stessi. Insomma, non si fa. Questo mi ricorda i tempi della facoltà di lettere, laddove tutti rincorrevano tutti per proporre la lettura dei propri scritti, prosaici o in rima. E io, pur non avendo tempo nemmeno per portare a termine i programmi d’esame ma cercando allo stesso modo di non incrinare amicizie che un giorno sarebbero potute diventare utili, non me la sentivo di dire sempre di no. E così eccomi lì a leggere dell’amore inaccessibile di Tizio, della negativizzazione di Caio, degli esperimenti satirici di Sempronio. Una collezione di stupidaggini che non mi sono nemmeno valse a stringere un’amicizia strumentale con la suddetta triade di lirici. Oltre il danno, la beffa.

Per i sogni è diverso, non c’è la velleità artistica, bensì solo un subdolo istinto di condividere l’inconscio, che già non ci interessa il conscio, figuriamoci quello che c’è dentro. L’equivoco però ha un precedente. S. è a conoscenza della mia dipendenza, quella che si scrive con note e pause sul pentagramma, e tempo fa mi ha messo al corrente di un sogno in effetti particolare. Un’invasione aliena in cui gli extraterrestri non avevano un corpo tridimensionale, bensì  si manifestavano tramite un suono. Una nota unica, tenuta e continua, potrebbe essere per esempio un la bemolle, non assordante, ma di sottofondo. Con un timbro tale, però, da renderne impossibile la copertura. A nulla sarebbero servite cuffie, apparati insonorizzanti, contenitori porta-uova sui muri, lana di roccia. Nessuno poteva sopraffare questo incontro ravvicinato di non-so-che-tipo, che con il tempo stava generando veri e propri cambiamenti culturali. Era cioè impossibile comporre e ascoltare musica in tonalità confliggenti con quel la bemolle, tale era il fastidio che armonia e, in taluni casi, enarmonia, causavano nei musicisti, negli esecutori e negli ascoltatori. Il repertorio generale, quindi si riduceva drasticamente. Roba dai confini della realtà, non trovate? E se si tratta di una trama conosciuta, avvisatemi, sono pronto a interrompere l’amicizia con S. Anzi, potrebbe essere una buona scusa.

Il secondo episodio epifanico, quello di stamane, è altrettanto degno di un b-movie sci-fi, ma palesemente più ordinario. C’erano sfere di materiale lattiginoso opache un po’ ovunque, una sorta di “gigantesche mozzarelle”, sono parole sue, che atterravano dal cielo e si piazzavano occupando aree urbane e rurali, strade, piazze, tetti, prati e orti. Nessuna interazione con gli umani, nessun contatto, niente di niente. Le mozzarellone si limitavano a inspirare e respirare, come il collo di un rospo. E rimanevano ferme e sornione, sottraendo sempre più spazio agli umani, incapaci di colpirle, affettarle, condirle, abbinarle ad altri ingredienti dallo spazio e vincerle. Senza farle scadere.

danze popolari

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Maschio Piacione Disimpegnato: “E stasera che fai di bello?”
Femmina Accondiscendente Compiaciuta: “Ah stasera vado a hip-hop”
MPD: “Hip hop?”
FAC: “Si, finisco alle 10. Ci divertiamo da matti. Vuoi vedere una foto di me che faccio hip-hop?”
MPD: “Sì certo, fammi vedere.”

FAC smanetta un po’ con l’iphone tarocco, quindi lo passa a MPD.

MPD: “Ma no, non sei tu. Non sembri tu, sei diversissima”.
FAC ride schernendosi. “Certo che sono io. Fammi vedere? Ah si, avevo i capelli lisci, era l’estate scorsa. E sto guardando verso il basso. Ma sono io. Devo avere anche un video mentre faccio hip-hop.”
MPD: “Dai, fammelo vedere.”
FAC: “No, che fa troppo casino sul treno.”
MPD: “Guarda che puoi togliere l’audio”

FAC smanetta di nuovo con il cellulare e lo ripassa a MPD. Si sente una musica in sottofondo, più dance commerciale che hip-hop.

MPD: “Hey, che brave. Eccoti lì. Sì, siete proprio brave. Ma chi è questo qui?”
FAC: “Fammi vedere. Ah è Salah, un ballerino hip hop. Ha fatto anche Zelig. Se vai su youtube, scrivi Salah e Zelig, trovi i suoi video”
MPD: “Come si scrive?”
FAC: “Esse a elle a acca. Salah”
MPD: “Ah, Saham”
FAC: “Sì, devi vederlo, è spettacolare. No, Salah. Venerdì sera viene di nuovo in palestra, facciamo uno stage. Per questo prendo anche lezioni di inglese, con lui parliamo inglese”.
MPD: “Aaah, è per questo che sei già al terzo capitolo del libro?”
FAC: “Eeeeh, sisi. Di giorno lavoro, poi studio, e alla sera ciatto in inglese per esercitarmi. L’altra sera mi ha scritto you sleep? che vuol dire stai dormendo?, gli ho detto di no”.

non sono john wayne

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Gli Stati Uniti d’America, quelli che non hanno fatto del tutto i conti con il passato, quelli che hanno fatto la guerra agli indiani dal vero e poi nei film western. L’America che, con la solita solfa della redenzione, ce la ritroviamo in tutti i film, anche quelli che ci piacciono un casino perché comunque i registi e gli attori ne valgono la pena. Gli americani che ancora qualche anno fa non hanno votato Obama sia perché era democratico, ma soprattutto perché era l’opposto del wasp. E poi quelli di Percival Everett, i protagonisti intrisi di stereotipi tanto da risultare una parodia, anche quando ne sono l’opposto. Curt Marder, un cowboy individualista, vigliacco e disertore lascia che un branco di cattivi travestiti da pellerossa distruggano la sua casa, rapiscano la moglie e, come se non bastasse, uccidano il cane con una freccia che nessun indiano vero avrebbe intagliato così male. Decide di mettersi sulle tracce della vendetta accompagnandosi a Bubba, il miglior cacciatore di taglie, il fiuto più efficace della zona, una sorta di Passepartout che ha il solo limite di essere troppo afroamericano. Insieme percorrono un viaggio in quasi un secolo di sceneggiature da cinematografia western: risse, saloon, debiti, poker, donnine, venditori di bibbie e di pozioni miracolose, indiani buoni, sgamati e già parzialmente convertiti contro l’esercito di cattivi armati, generale Custer compreso. Il diprezzo verso il colore della pelle dell’ex-schiavo ormai affrancato (ma non libero dall’odio razziale di un intero continente) non consentirà a Curt di far prevalere il sentimento di riconoscenza nascosto verso l’infallibilità di Bubba, malgrado il nero gli salvi la pelle in diverse occasioni. E così, come non gli sarà possibile sopprimere i pregiudizi nei confronti del suo compagno di avventure, il cowboy bianco non riuscirà a cancellare dalla storia del suo west (e del romanzo stesso) un’eroe troppo atipico per l’epopea americana.  La morale: “Il paese di Dio” sta ai film western come “Non sono Sidney Poitier” sta ai film con Sidney Poitier.

nel dubbio, menti

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E dire agli italiani — che evidentemente lo immaginano vero, e applaudono — che i magistrati fanno quello che gli pare disponendo intercettazioni a piacimento per poi vedere se esce un reato — è totalmente irresponsabile.

L’arte di dire il falso e passare inosservati, per fortuna c’è Il Post. Diffondiamo.

verba volant: ma anche no

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Chissà chi ha cominciato. “Ma anche no” probabilmente nasce come mantra di un berluscomico di Zelig (non il film di Allen) e si diffonde come alternativa da tv commerciale a un semplice, secco e sicuramente più efficace “no!”. Perché se dici “ma anche no” l’interlocutore equivoca che tu voglia fare dell’ironia, che tu non prendi seriamente le ragioni che ti avrebbero voluto spingere a dare una risposta negativa. E fai una brutta figura, fai intendere che ti esprimi con un linguaggio che non è tuo perché hai assimilato una moda linguistica, rischi di essere preso per una persona poco seria. Riesci a dirlo, poi, completamente guardando negli occhi l’interlocutore? Prova a fissarlo e a mettere insieme le tre parole senza distogliere lo sguardo. La maggior parte, già durante l’anche sposta le pupille altrove, non regge il confronto, sa che sta dicendo una cazzata e che sta perdendo credibilità. Ma un rifiuto deve essere monosillabe (Mai! No!), deve colpire a fondo e lasciare esanime l’avversario, non strusciarlo con un timido strascico di egoismo. No e poi no: solo così si chiudono le discussioni.

verba volant: sfizioso

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Inauguro con l’aggettivo “sfizioso” la categoria “verba volant”, termini e modi di dire più o meno in voga il cui abuso mi fa accapponare la pelle e che spero prima o poi siano abbandonati dalla moda linguistica (per lasciare il posto a termini e modi di dire altrettando fastidiosi). Per i significati mi avvarrò del Dizionario Italiano Hoepli, per le eventuali traduzioni l’insostituibile Wordreference.com. Via!

sfizioso
[sfi-zió-so]
agg. merid. Che soddisfa un piacere, un capriccio ‖ Che piace o attira per qualche particolare: ho comprato un vestito davvero s.

In periodi di flessione del mercato (leggi crisi economica e povertà diffusa) il superfluo risulta spesso nauseabondo, come una pizza uovo e salsiccia la sera del 26 dicembre. Sentire commercianti e commessi apostrofare con l’aggettivo (meridionale) sfizioso qualunque cosa non si è convinti di comprare, o pseudo amici che cercano di convincerti ad acquistarla, quando ci pensi due volte persino a mettere nel carrello il latte che costa 10 centesimi in più al litro, è quasi un crimine. Associo il termine sfizioso con sovrappeso, con spreco, con raccolta indifferenziata dei rifiuti, con vestiti che stanno malissimo ma che si comprano solo perché sono alla moda, con amicizia interessata, con ospiti indesiderati e invadenti che ti portano panettoni ripieni con cioccolato e crema chantilly, con ore di assenteismo passate al bar a ingozzarsi di cornetti, con impronte digitali untuose di arancini su scrivanie nere lucide. Meglio il sobrio “sufficiente”.