l’erba della vicina è sempre più verde

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Spero di non dover mai lavorare alla creatività per un adv di un detergente intimo.

poveri ma

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Sono sempre stato uno un po’ trasandato, ma ora dovrei darmi una regolata, me lo impongono le regole della convivenza e la società in genere, poi mia figlia cresce e insomma, ho come l’impressione che le responsabilità aumentino, anche quella di non lasciare che i figli si vergognino di un genitore che non si prende sufficiente cura di sé. Diciamo che sono ai limiti dell’accettabile. Già ho gettato le giacche vintage e il parka dell’esercito della DDR prima di fare la spola davanti alla scuola materna, perché si cresce e per darmi un tono, però sul resto ho tergiversato e ora urge una riassestata. Ho un non-taglio di capelli, i sempre più pochi capelli che non ho mai voglia di pettinare, la mattina spesso restano dritti e se succede restano lì, non mi prendo il disturbo di fare qualcosa, convincerli a rimanere al loro posto. Poi ho la barba, sempre più bianca, e se non stai attento cresce e ti dà quell’aspetto del poco di buono, non è assolutamente vero che fai la figura dell’intellettuale, semmai del vagabondo. Per non parlare dei vestiti, sempre gli stessi, roba di qualità discutibile e scelta casualmente prima di uscire. E non è la questione di essere originali o scazzati ma con gusto. È proprio fottersene alla grande, in ufficio nessuno ci fa caso più di tanto, perché dovrei farmi problemi io.

Poi vedo in metro quelli che vanno al lavoro in giacca e cravatta e penso a come stanno bene, che bell’effetto che danno, mi piacerebbe essere come loro, quanto costerà un completo così, non penso che sia una questione di prezzo, beh ma dovrei averne più di uno perché poi se si sporca? E mi dico che sì, da domani mi sforzo nel darmi un contegno, magari vado anche dal barbiere, poi mi metto quello di più elegante che ho e una camicia. Sì ma dentro o fuori i pantaloni? E c’è quel momento prima dell’ultima rampa di scale per uscire in superficie alla fermata in cui passo davanti a un’infilata di specchi, cerco di non guardarmi ma poi una sbirciata me la do. Chi è quell’uomo di mezza età piuttosto dimesso con le cuffie blu elettrico sulle orecchie, la borsa a tracolla come i pischelli e la maglietta a righe? Che vergogna. Nemmeno un po’ business casual. Niente. Ma dura poco, di sicuro è uno stato d’animo che non arriva fino al mattino seguente, quando tutto si sussegue come il giorno prima, apro l’armadio e vedo il nulla, chiudo gli occhi e tiro su indumenti a caso.

trapassato dal futuro

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La musica pop è ricca di esempi di celebrità di sesso maschile che altro non fanno che applicare la tipica curva ormonale e, più in generale, esistenziale del loro genere di appartenenza alla carriera. La stessa curva che contraddistingue la vita dei comuni mortali, invero. Acquistano popolarità in quanto giovani ribelli che si bombardano di sostanze stupefacenti e groupies ed eccessi vari. Poi verso i trenta – ma ultimamente anche verso i quaranta – diventano adulti e iniziano ad occuparsi e a parlare di cose serie, magari perché nel frattempo hanno messo su famiglia. Poi iniziano i primi acciacchi, causati anche dagli eccessi esercitati in precedenza, ed ecco che apriti cielo, si percepisce che in fondo non siamo così immortali. Quindi si manifesta la svolta mistica, il pizzetto ormai bianco e il codino da santone, lo yoga e la spiritualità, che nelle popstar coincide spesso con una svolta acustica, world music se non addirittura new age. Ma alla lunga ti fai due palle così, un tempo tifavi rivolta in faccia a un pubblico esterrefatto e ora sei qui a intonare a occhi chiusi Adeste Fideles in chiesa. Nel frattempo maturi il sentore che, in fondo, sei sempre lo stesso, ti tira come in gioventù, la vecchiaia che hai sempre temuto e che hai pensato che il modo migliore per sconfiggerla fosse fartela alleata è ancora distante, hai davanti almeno ancora un decennio buono prima del tracollo. Così riformi la banda, colleghi come una volta il distorsore tra la chitarra e l’ampli e ti godi la seconda giovinezza, più o meno come nella vita normale i cinquantenni che fuggono con le ventenni. Ecco, non mi stupirei, tra poco, di un ritorno sulle scene dei CCCP.

lavoro di concept

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Un colpo di fulmine. Uscendo da un ristorante della zona, ho visto il cartello “vendesi” sulla porta di una vecchia officina della Renault. Poi questa via aveva un grande fascino. Era una strada popolare, fatta di piccoli artigiani, sartine, fruttivendoli. C’era allegria, un’aria di casa. E così mi sono messa al lavoro. A Milano serviva un posto dove la gente entrasse e si sentisse bene. Avevo in mente di creare un propulsore di proposte, di nuovi modi di pensare. Tutto in uno spazio organizzato.

Una volta, purtroppo non trovo fonti a provare l’accaduto ma mi pare proprio sia successo tempo fa, un nutrito corteo di operai piuttosto alterati travolse il banchetto in cui Davide Mengacci, una delle più note facce da cazzo dell’entertainment berlusconiano, si burlava delle casalinghe e dei pensionati adescando le loro smanie di comparire in tv in uno dei diversi programmi qualunquisti in cui si raccolgono i pareri della gente comune, si filtrano, e li si montano secondo le direttive e l’orientamento dell’emittente in cui sono trasmessi. Nel nostro caso è facile da immaginare, la voce del popolo secondo Mediaset. Un po’ come quelli che se la prendono con i ciclisti padani. Ecco, da allora la giustizia sociale sommaria me la immagino così: tutti i personaggi del Quarto Stato che, serrati nella loro marcia di rivalsa, travolgono luoghi e persone che giudicano uno schiaffo alla miseria, ai problemi del paese, quel lusso patinato di cultura da alcuni ritenuto un diritto ma comunque fuori luogo. Ecco, mi immagino una delegazione del celeberrimo dipinto di Pelizza da Volpedo che partecipa alla festa di compleanno di 10 corso como. Di sicuro ci sarà da mangiare e bere per tutti.

meriti una lezione

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Rita la zanzara si batteva per una scuola più yeyè, Lorenzo per una scuola più grunge, Frankie Hi Nrg per una scuola più pop, e meno male che non la vuole più rap, perché haimè i suoi tempi, quelli della buona old school, sono finiti, e ci troveremmo gente come i Club Dogo nei corridoi a imporsi come modello per i nostri ragazzi. Ma a me basterebbe che la scuola fosse solo più scuola, magari con un po’ meno sumeri e fenici e più resistenza e dopoguerra, un po’ meno Machiavelli e Guicciardini e più Pavese e Vittorini. In generale più novecento, che spesso è la cenerentola dei programmi perché la maturità incombe e bisogna fare presto. Per Lady Gaga c’è tempo, se ne può parlare nell’intervallo o dopo la campanella. E, nel dubbio, sto come sempre con i Ramones.

stikka

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Ma ti rendi conto, bambino mio, di quanto costa il passeggino sul quale le tue membra sono comodamente adagiate mentre ti faccio fare il giro del centro tra una vetrina e l’altra e che sembra una gru, e tu nemmeno te ne accorgi perché nel prezzo era compreso anche il comfort dell’involucro intimo e accogliente e il sistema di ammortizzatori tali che nessun sussulto ti desta o ti distrae dalla paperella che tieni in mano? E la facilità di regolazione del manubrio fa sì che anche mamma ne tragga beneficio, và che postura: posso stare bella alta con la schiena dritta e non mettere a rischio il mio elegante profilo con quelle carrozzine della nonna che ti fanno rincorrere curva l’itinerario del passeggio pomeridiano. Invece guarda, bambino mio, mi sembra di essere una regina e tu il mio principino su questo trono mobile. D’altronde, se papà e mamma hanno speso più di sessantamila euro per quel popò di macchinone da cui ti ho fatto scendere poc’anzi, perché avremmo dovuto risparmiare sul tuo benessere. Anche se si tratta di un mezzo di trasporto che ti accompagnerà solo per i primi anni della tua vita, perché non dotarti fin da subito degli agi in cui crescerai avvezzo e anche un po’ tediato? E poi vuoi mettere l’altezza del sedile di questo coso, grazie alla quale puoi esercitarti a guardare il mondo dall’alto in basso sin da piccolo, per crescere stronzo tale e quale ai tuoi genitori.

il limite del centodieci

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C’è un volume che spicca tra i libri impilati sugli scaffali del mio salotto. Si nota perché è tutto blu, è più alto degli altri, ha la copertina rigida ed è rilegato in pelle, e ha un titolo che risalta perché stampato in color oro. Potrebbe essere scambiato per un raccoglitore di francobolli, o un atlante di cui è andata perduta la sovracopertina. Ma colpisce il fatto che l’autore è, curiosamente, un mio omonimo. Per ovvi motivi logistici è posizionato a fianco di un altro volume che ha la stessa altezza, questo color verde, ma che ha le stesse caratteristiche del libro vicino e che, curiosamente, è stato scritto da un’autrice che ha lo stesso nome e cognome di mia moglie.

Il primo, quello blu, ha un titolo sufficientemente ostico da essere lasciato lì a prendere polvere. A chi interesserebbe saperne di più su “L’episodio di Ifi delle Metamorfosi di Ovidio”? A chi verrebbe voglia di approfondire la tematica del transgenderism nella letteratura latina partendo da uno dei racconti di trasformazione sessuale presenti negli scritti ovidiani? A nessuno, tantomeno a me. Infatti, quando mi capita l’occhio su quello scaffale, che è quello più in alto, quello dei libri inutili che prima o poi finiranno nella raccolta differenziata, mi sorprendo sempre e mi chiedo quando diamine ho acquistato quel libro lì, io che non ne compro mai perché sono un entusiasta fruitore delle biblioteche e del consorzio intercomunale che dalle mie parti ti consente, in pochi giorni, di avere tutte le novità degli autori americani contemporanei e postmoderni che vuoi. E mi viene raramente l’istinto di salire su una sedia ed estrarlo da quella fila per vedere di cosa tratta, qual è la trama, i personaggi, chi è l’assassino e come finisce.

Scherzo, so che non si tratta di un romanzo. Centinaia di pagine con lettering e font di altri tempi, deve essere stato redatto in Wordstar e stampato con chissà quale computer, in un modo in cui solo quel tipo di libri lì venivano realizzati. Centinaia di pagine sono tante, e non riesco a capire davvero come abbia potuto, questo autore che si chiama come me, mettere insieme così tante informazioni, dove l’abbia prese, quando e come le abbia studiate. Per lo meno il suo libro gemello, anzi consorte a fianco, parla di povertà e di stato sociale, probabilmente appartiene a una disciplina più moderna e senza dubbio più utile, tanto che ci scommetto che l’autrice, che si chiama come mia moglie, è un’esperta di scienze politiche ed esercita una professione manageriale in qualche organizzazione pubblica del settore.

Ma questo scrittore qui, che ha voluto fare il figo e trovare l’introvabile in un autore di una civiltà remota che ha scritto roba più strampalata della fantascienza in una lingua morta e sepolta, ci gioco la testa che del suo latinorum non se n’è fatto nulla, coronamento di un’inutile laurea in scienze inutili (come correttamente le definisce Leonardo) e in materie all’epoca completamente slegate dall’allora nascente scienza della comunicazione. Farà qualche lavoro di quelli che si usano oggi con il nome in inglese, cercando pretesti qui e là per far vedere che ancora, di tutti quegli esami di latino, qualcosa si ricorda, usando alla prima occasione qualche citazione o qualche aforisma che chiunque, con Google, è in grado di a tradurre a tempo record e altrettanto velocemente a dimenticarsene al successivo nuovo messaggio di Outlook in arrivo.

servo muto

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Quello che mi pesa di più del mio lavoro è che si parla poco. Mi pesa perché ormai, dopo oltre quindici anni di attività, ho smarrito una delle mie qualità grazie alle quali, giusto per tirarmela un po’, me la sono cavata piuttosto bene alla maturità e, soprattutto, all’università. Ma anche dopo, quando dovevo convincere qualcuno di qualcosa. Avevo pure una buona dialettica, motivavo e dimostravo, raccontavo a voce senza sforzo, chiacchieravo anche fin troppo, me la cavavo piuttosto bene di fronte a tante persone, mi è capitato di tenere corsi anni fa e, insomma, non è andata poi così male. Ma la facondia, che per certi versi è un dono, non è solo un’arte, è anche una disciplina che va coltivata, nutrita e, soprattutto, esercitata.

Così da quando ho acceso il mio primo strumento di lavoro, che è stato un Mac, da allora la parabola è iniziata a decrescere. E all’inizio facevo fatica a tenere la bocca chiusa, cercavo di chiedere, chiacchieravo al limite del disturbo, ma vedevo che i colleghi senior, gente che veniva dai dueottosei e già chini sui terminali mentre io cercavo di realizzare i miei sogni facendo il musicista, a malapena tolleravano le distrazioni dai loro monitor a 256 colori.

Così per sopravvivenza mi sono adattato, è stato un processo naturale quello di iniziare a relazionarsi solo con il proprio elaboratore. C’erano le pause sigaretta, i caffè, il pranzo, qualche battuta, ma ormai avevo imboccato anche io la strada della granularizzazione totale, che è poi anche la morte sua del lavoro postfordista, ognun per sé e si fotta l’unione dei lavoratori, tanto c’è il pc e i colleghi si fanno tendenzialmente gli affari propri. E mi accorgevo che, pur leggendo come un forsennato, tenere i pensieri in gola per otto ore alla fine arrugginiva quel meraviglioso impianto di diffusione audio di cui l’individuo è dotato.

Ma se fai il programmatore, a parte chiedere quando hai bisogno, non serve scambiare battute con il dirimpettaio, anzi ti distrai e perdi il segno e devi rifare il flusso tutto da capo. Il grafico si blinda in cuffia e vola nel suo mondo della Suite Adobe, e ci si vede a fine progetto, ognuno con i suoi pezzi, chi ha scritto le parole, chi ha disegnato l’interfaccia, chi ha costruito il motore, si assembra il tutto, sempre sul computer, e poi bon. Per non parlare poi dell’avvento dei socialcosi, insomma avete capito dove voglio andare a parare, è comodo comunicare scrivendo perché rileggi tutto, cancelli i refusi (se li vedi), metti due faccine e schiacci enter.

Ed eccoci qui, soli con il ronzio del condizionatore, a scrivere testi e idee e progetti giorno dopo giorno nel silenzio assoluto, le dita su tastiere sempre meno rumorose, i più audaci le cuffie isolanti da cui non trapela nulla, non esistono quasi più nemmeno le stampanti con il loro rumore da telefilm di fantascienza. Alla riunione aspetti il report finale, se ci sono domande fai un reply to all, ogni tanto qualche squillo del telefono o la vibrazione di un cellulare di vecchia generazione, addirittura si percepisce lo sciacquone di chi è in bagno.

E se per caso devi parlare, la voce esce dopo un eh ehm di rito, la sensazione è quella di far passare un mobile ingombrante da una porta troppo piccola, provi a girarlo e rigirarlo ma non c’è verso, devi fare forza fino a quando esce tutto malconcio. Già, perché le cose in testa ci sono, magari un po’ impolverate, metti in ordine i sostantivi, il lessico fortunatamente aumenta giorno dopo giorno, libro dopo libro. Ma le casse gracchiano, forse i cavi non sono collegati correttamente, subentra l’imbarazzo, persino un po’ di rossore sulle guance, l’interlocutore che ti scruta perché ha fretta di sapere, ecco mannaggia quel dato da dire ha lasciato posto al panico da prestazione, la consecutio va in tilt come un qualsiasi programma che necessita di troppa memoria quindi meglio non usarla, tanto se devi dare risposte brevi e mirate chi nota se il congiuntivo è presente o passato. È passato? Mah. Poi ripiomba il nulla. Ciao, a domani, buona serata. Questo almeno è facile da dire.

saluti dalla nicchia

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Quella sera d’estate di sette anni fa, quando i The National avevano suonato per pochi intimi in spiaggia all’Hana-Bi di Marina di Ravenna, sembra lontana anni luce. Ora i paragoni si scomodano e loro stessi ci scherzano su. “Sembra l’inizio di “Pride” ma nel tono sbagliato”, ha detto sorridendo Matt Berninger a Ferrara, riferendosi all’attacco strumentale di “Sorrow”. Ma è un bene che non sia così.

E non è così, perché si riferiva all’inizio di “Where the streets have no name”, lo si capisce anche da qui, se vogliamo fare i fighi almeno facciamolo con le citazioni corrette. Ecco perché tutti noi preferiremmo che i The National rimanessero ancora un “piccolo segreto da scovare” e che nessuno, tranne il sottoscritto naturalmente, scrivesse recensioni dei loro concerti.

tirare diritto

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“Ragazzi, che ne dite di una partita a cricket?”. Mi guardano come se fossi un testimone di Geova che si presenta conti il suo completo dell’Oviesse sulla porta mentre si brucia l’arrosto e contemporaneamente squilla il telefono e tua figlia ti chiama perché Windows è crashato. Non vedono infatti come io possa risolvere la situazione e vorrebbero che mi allontanassi da lì, per non creare ulteriori problemi. Da mezz’ora siedono ai lati del campo di basket che è occupato da una dozzina di ragazzotti a torso nudo impegnati nella quotidiana partitella a calcetto. Già, che orrore, calcetto nel campo di basket, per di più sono lì da chissà quanto. Ma i tre ragazzini pakistani non se la sentono di chiedere di subentrare, perché quei ragazzotti prolungano apposta la loro presenza in modo provocatorio, si vede perché giocano con la sigaretta accesa in bocca mentre le loro spasimanti ocheggiano ai bordi del campo plaudendo a Tizio e Caio.

I tre pakistani li vedo spesso allenarsi nel loro sport nazionale. Non ho idea di quali siano le regole, ma loro si mettono in due da un lato, uno dietro l’altro, posizionati come un catcher e un battitore di baseball, per intenderci. Il terzo, a turno, va dall’altra parte del campo e lancia una palla. E se prima usavano una scadente racchetta da tennis al posto del bastone regolamentare, ora noto finalmente una mazza nuova fiammante, forse è anche per quello che li vedo impazienti di provarla. Approfittano del campo vuoto al termine del pomeriggio, quando i bambini rientrano con le mamme a casa e i gruppi di ragazzini che trascorrono i pomeriggi in attesa della nuova stagione scolastica giocando a pallacanestro o pallavolo tornano per la cena.

Ma questi, che son più grandicelli degli altri, hanno capito l’antifona, e per farsi belli con le loro amichette hanno deciso di puntare sul bullismo razzista. I pakistani che vadano a giocare a cricket a casa loro. Quindi i tre se ne guardano bene da sollecitare il loro diritto a usufruire delle strutture pubbliche, non vogliono creare problemi e rischiare la rissa, ovviamente.

Così, ecco un nuovo lavoro per Superman. Quando mi offro di aiutarli, mi guardano sbigottiti. Per fortuna porto sempre con me la mia tuta da azione, vado a cambiarmi velocemente negli spogliatoi della società di ciclismo amatoriale che ha la sede proprio lì a fianco, e torno sul posto tutto vestito nel mio completo aderente che mi ha reso celebre in ogni parte del mondo. Tanto che anche i ragazzi pakistani riconoscono la esse rossa sul mio muscoloso torace, e il loro umore balza alle stelle. “Forza ragazzi, è il nostro turno”. Immediatamente gli arroganti bulletti di quartiere raccolgono i loro stracci sudati e si allontanano da lì, derisi dalle ragazze che, come è la prassi, sono invece incantate dalle mie reiterate gesta di giustiziere universale e passano dalla parte dei buoni. “Tornate pure dalle vostre mamme”, dico loro, “ora tocca a noi”. Il più intraprendente dei tre pakistani sorride e mi porge la mazza di cricket in segno di riconoscenza: il primo turno da battitore è mio.