tirare diritto

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“Ragazzi, che ne dite di una partita a cricket?”. Mi guardano come se fossi un testimone di Geova che si presenta conti il suo completo dell’Oviesse sulla porta mentre si brucia l’arrosto e contemporaneamente squilla il telefono e tua figlia ti chiama perché Windows è crashato. Non vedono infatti come io possa risolvere la situazione e vorrebbero che mi allontanassi da lì, per non creare ulteriori problemi. Da mezz’ora siedono ai lati del campo di basket che è occupato da una dozzina di ragazzotti a torso nudo impegnati nella quotidiana partitella a calcetto. Già, che orrore, calcetto nel campo di basket, per di più sono lì da chissà quanto. Ma i tre ragazzini pakistani non se la sentono di chiedere di subentrare, perché quei ragazzotti prolungano apposta la loro presenza in modo provocatorio, si vede perché giocano con la sigaretta accesa in bocca mentre le loro spasimanti ocheggiano ai bordi del campo plaudendo a Tizio e Caio.

I tre pakistani li vedo spesso allenarsi nel loro sport nazionale. Non ho idea di quali siano le regole, ma loro si mettono in due da un lato, uno dietro l’altro, posizionati come un catcher e un battitore di baseball, per intenderci. Il terzo, a turno, va dall’altra parte del campo e lancia una palla. E se prima usavano una scadente racchetta da tennis al posto del bastone regolamentare, ora noto finalmente una mazza nuova fiammante, forse è anche per quello che li vedo impazienti di provarla. Approfittano del campo vuoto al termine del pomeriggio, quando i bambini rientrano con le mamme a casa e i gruppi di ragazzini che trascorrono i pomeriggi in attesa della nuova stagione scolastica giocando a pallacanestro o pallavolo tornano per la cena.

Ma questi, che son più grandicelli degli altri, hanno capito l’antifona, e per farsi belli con le loro amichette hanno deciso di puntare sul bullismo razzista. I pakistani che vadano a giocare a cricket a casa loro. Quindi i tre se ne guardano bene da sollecitare il loro diritto a usufruire delle strutture pubbliche, non vogliono creare problemi e rischiare la rissa, ovviamente.

Così, ecco un nuovo lavoro per Superman. Quando mi offro di aiutarli, mi guardano sbigottiti. Per fortuna porto sempre con me la mia tuta da azione, vado a cambiarmi velocemente negli spogliatoi della società di ciclismo amatoriale che ha la sede proprio lì a fianco, e torno sul posto tutto vestito nel mio completo aderente che mi ha reso celebre in ogni parte del mondo. Tanto che anche i ragazzi pakistani riconoscono la esse rossa sul mio muscoloso torace, e il loro umore balza alle stelle. “Forza ragazzi, è il nostro turno”. Immediatamente gli arroganti bulletti di quartiere raccolgono i loro stracci sudati e si allontanano da lì, derisi dalle ragazze che, come è la prassi, sono invece incantate dalle mie reiterate gesta di giustiziere universale e passano dalla parte dei buoni. “Tornate pure dalle vostre mamme”, dico loro, “ora tocca a noi”. Il più intraprendente dei tre pakistani sorride e mi porge la mazza di cricket in segno di riconoscenza: il primo turno da battitore è mio.

lo sciocco e il suo denaro

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Ho notato, sai, che hai notato che ti ho notato, cara copertina di “Kind of blue” che fai capolino dalla vetrina dell’edicola qui sotto, edizione in vinile 180 grammi a sette euro e novanta, prima uscita di una collana di ristampe dedicata al jazz che già so sarà causa di discussioni con mia moglie per tutta la durata dell’iniziativa De Agostini. Perché proprio lì sul sito ho visto poi qualche anticipazione sulle prossime, Blue train e Time out, per esempio, roba che ho già originale su CD ma che diamine mi ha scatenato una salivazione che non avevo dai tempi della scoperta di Amazon e del mercato di 33 giri nuovi che sui siti di e-commerce musicale sta rifiorendo. Ti sono passato davanti gà quattro volte, una ieri, quando è scattato il colpo di fulmine e tre oggi, tu eri lì con Miles e la sua tromba appoggiata sulle labbra, scommetto pronto a partire con il solo di So What, vero? E so come andrà a finire, perché la prima uscita a metà prezzo sarà mia la prossima volta che passerò di lì, cioè tra poche ore, ma le successive a quindici euro l’una? Come si fa a lasciare indietro uno solo di voi, agognati vinili di jazz, che vi vorrei avere tutti impilati nella libreria e pronti a girare sotto la puntina nelle fredde serate dell’imminente inverno milanese? So che non vedete l’ora di trasferirvi tutti a casa mia, cari. Farò il possibile.

scemo chi legge

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Ogni giorno c’è qualcosa di nuovo che spopola sul web, un video che sfonda, una foto che fa il giro dei blog e dei siti di informazione, lo strafalcione più cliccato, la gag involontaria ripresa per caso, la rissa, il filmato che fa scompisciare grandi e piccini, travet e manager, intellettuali e non. E anche le testate che dovrebbero essere le più autorevoli, o almeno le più affidabili, le più serie, hanno il tormentone del momento in pole position nella colonnina infame delle stronzate, tra uno scorcio di tette, un bacio saffico e l’abnormità faunistica più in voga, il coccodrillo gigantesco, il ragno campione del mondo, il polpo veggente, il figlio di dj Francesco. Nulla ci è risparmiato in questa rubrica trasversale che è l’Internet delle facezie, che mescolata in prima pagina a scioperi generali, mercati che collassano e maggioranze che implodono fa sembrare tutto un grande Circo Orfei virtuale, tutto quanto fa spettacolo, il bello della diretta. E presto, al posto dell’ormai desueto “visto in TV”, a fianco dei prodotti sulle riviste e negli spot comparirà il bollino “visto su Internet”. Hai visto su Internet? Figata, eh?

quando è in gioco il futuro

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Sostenere colloqui non è un’attività che mi faccia impazzire. Nel senso di tenere il coltello dalla parte del manico, ovvero selezionare personale, scremare le papabili risorse umane per l’agenzia in cui lavoro. I motivi sono molteplici e anche facilmente intuibili. Intanto non è il mio mestiere, non ho studiato per analizzare profili e sintetizzare risultati conto terzi su personalità che potrebbero anche rivelarsi controproducenti verso il mio lavoro, una responsabilità che preferisco non accollarmi. Voglio dire, il mio metro di giudizio sul prossimo è personalissimo, non riesco a rappresentare il pensiero di una collettività come questa in cui le metriche e le variabili che applico nella scelta delle relazioni interpersonali da mantenere, o un banale tu mi sei simpatico e tu no, non hanno il valore oggettivo, determinante e utile allo scopo. Penso che ci siano caratteristiche che vanno oltre l’impatto a pelle che porti a casa da un incontro, no?

In seconda istanza, mi sento in imbarazzo, qui i criteri selettivi hanno alla base il “basta che costa poco”, congiuntivo mancato incluso, vige l’imperativo di lesinare proprio sull’aspetto più importante di una organizzazione impegnata esclusivamente nello svolgimento di un lavoro fatto con la testa, con la fantasia, con la precisione e il metodo, intendo il personale più adatto. Non invidio chi deve prendere una decisione così importante con così pochi elementi e in così poco tempo, comunque accorgersi di aver sbagliato profilo dopo un periodo di prova più o meno lungo può essere frustrante per tutti, a meno di non identificare subito lacune vistose sul lato esecutivo e pratico, quelle le noti in poco tempo e ti consentono un arrivederci e grazie anche nel giro di una giornata.

Ma per alcune mansioni, quelle creative, per esempio, è oltremodo complesso. E mi imbarazza anche il fatto di dover proporre stage, so che là fuori c’è la fila di ragazzi disposti anche a questo tipo di abnegazione, ma non ho i peli sullo stomaco sufficientemente folti e lunghi da mettere sui piatti della bilancia curriculum di studi e di esperienza, investimenti e sacrifici pagati con il lavoro dei genitori, aspettative e sogni da una parte versus un contratto di parcheggio durante il quale il prescelto non imparerà nulla di più di quello che sa, se non come lavorare in questa realtà che, come ogni azienda, è diversa dalle altre e quindi, quando lo stage finirà, dovrà ricominciare da capo in una nuova organizzazione con altre procedure, altre dinamiche, altri colleghi e, speriamo, altri trattamenti economici. Quando noto un eccessivo squilibrio tra la posizione ricercata e la persona che ho di fronte, cerco di mettere al corrente della situazione, sai ti troveresti a fare bassa manovalanza pagato male per poi non ottenere nulla, non mi sembra il caso.

E poi, indipendentemente dalla posizione ricercata, mi viene da fare domande che con il lavoro non c’entrano nulla. Ma mi immagino il trascorrere insieme tante ore al giorno per ogni giorno, la seconda vita che si vive parallelamente alla prima qui in ufficio, penso sempre che sia bello lavorare con persone con cui si va d’accordo. Che libri leggi, quali sono i tuoi registi preferiti, che musica ascolti, quali sono i tuoi interessi. Insomma, se devi lavorare con le parole, digitali o no, è importante comunque avere qualche punto di riferimento. E solo dopo aver sentito le risposte mi rendo conto di quanto sia inutile cercare se stessi negli altri, capisco che è sempre più nutrita la schiera di quelli più giovani di me e più giovani tout court, è un processo incontrovertibile, scambiare qualche battuta sullo scrittore in comune probabilmente non è così importante. Non lo è nemmeno sapere che tra le passioni di un candidato c’è giocare con la PS, anche se l’immediata associazione è con i compagni di classe di mia figlia, terza elementare, chiusi nella cameretta a sfogarsi sui videogame, sudati, nemmeno una pausa per un bicchiere di succo o un morso al pane con la nutella. A quel punto il colloquio è finito, cambio canale perché l’empatia si interrompe così, fine delle trasmissioni, grazie ti facciamo sapere. Game over.

segni dell’antica fiamma

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Sinceramente non ricordo quando sia successo a me, ammesso che a me sia successo. Sta di fatto che qualche giorno fa, mentre eravamo a spasso freschi freschi di vacanza, mia figlia a sette anni e mezzo e quasi in terza elementare ha fatto un po’ di domande sull’amore, sui sentimenti e sulle relazioni al suo papà. A me. Ammetto che è dal giorno in cui ho scoperto il sesso della creatura che si stava sviluppando dentro mia moglie che aspetto con angoscia momenti come questo, un temibile elenco di incontri ineluttabili con il destino che comprende, in ordine cronologico, altre scadenze quali il primo ciclo mestruale o il suo primo appuntamento.

Ma verso questi ultimi due, sarà che mi sembrano ancora lontani, non nutro una particolare ansietà. Giuro. Nel primo caso si tratta di un passo dello sviluppo naturale, come lo svezzamento o i denti da latte che lasciano il posto a quelli da adulti. E per quanto riguarda il primo appuntamento, per ora, mi limito a un boh, cioè nel mio immaginario ci sono numerosi film americani in cui i padri guardano le figlie in attesa che il campanello suoni e che dicono loro che sono bellissime tanto da poter far girare la testa a chiunque, mi viene in mente per esempio Pretty in pink. Ecco, magari la fatidica sera schiatterò di gelosia ma mi sforzerò di comportarmi così, e, appena uscita, metterò su i Psychedelic Furs, mi attaccherò alla bottiglia di Cognac e piangerò sulla spalla di mia moglie, che più razionale di me mi consolerà mettendomi al corrente di tutte le informazioni che ha raccolto di nascosto sul (o sulla) mini-pretendente.

Invece, b-movie americani a parte, ammetto di non essere stato abbastanza pronto a sostenere una conversazione sull’amore proprio ora, cioè così presto, temo di non aver reagito con la acuta sagacia che ha contraddistinto fino ad ora il mio ruolo di padre (ehm). Ma forse non era ancora la volta decisiva, cioè si è trattato di una chiacchierata sui generis, volta a soddisfare la curiosità scaturita dalla sua ennesima lettura vacanziera. I termini con cui mia figlia ha presentato le sue argomentazioni sono rispettabilissimi ma ancora nella sfera un po’ caotica della prima infanzia. Dove cioè l’amore è quella cosa che i bimbi vedono nell’unione dei genitori (quando sono uniti, naturalmente) e che si alimenta da fonti aleatorie quali i cartoni animati, le porcherie della pubblicità e della tivù, le canzoni, i libri, i fumetti, le copertine delle riviste da grandi (e purtroppo da adulti) nelle edicole, i racconti dei propri fratelli/sorelle maggiori o dei fratelli/sorelle maggiori dei compagni di classe, i compagni di classe che mediano, anzi, distorcono tutto quanto, probabilmente la fonte più pericolosa.

Ogni bambino ha una sua innamorata, a quanto pare, e non tutti sono corrisposti, fortunatamente. Perché c’è Tizio che dice di amare tutte, ma solo in due ammettono di essere fidanzate con lui. Ci sono già le classiche catene, A che ama B ma B è innamorato di C che però ama D che vorrebbe stare con E a cui è antipatico A. Eh, bambina mia, c’est la vie. Ne vedrai di ogni. E le bambine che vogliono baciare altre bambine non necessariamente, cerco di spiegarle, hanno un orientamento omosessuale. Gli esseri umani si abbracciano e si baciano anche perché si vogliono bene, ci sono numerosi livelli di amicizia, l’amore è un’altra categoria, non necessariamente al culmine di intensità. E c’è Caio che dice di essere ossessionato, ama mia figlia dalla scuola materna. Tranquilli, tutto sotto controllo, so a chi si stia riferendo, sono mesi che non si vedono più, non c’è pericolo di un fidanzamento prematuro.

E poi, le dico, da qui alla terza media, età in cui più o meno avvampano le prime cotte serie, c’è tempo, chissà quanti bambini o ragazzini avrai conosciuto e avrai considerato simpatici. Ma a quel punto sono un po’ scosso, chissà se davvero sono stato esaustivo. La guardo, lei mi sorride e mi prende per mano. Papà, prima di salire in casa giochiamo un po’ a ping-pong? Whew, tiro un sospiro di sollievo, forse sono ancora ai primi posti della sua classifica. E ho ancora qualche mese di tempo per prepararmi meglio.

unhappy hour

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Oggi tutto sembra essere tornato alla normalità, dopo la pausa estiva. L’aria torna a essere irrespirabile, per esempio. Ora, di Milano tutto si può dire tranne che ci sia l’aria buona. Ma oltre il danno, la beffa è la fragranza e le sue sfumature che ogni giorno siamo tenuti a cogliere, tanto che in casa è quasi meglio tenersi l’atmosfera viziata dell’alba piuttosto che spalancare le finestre allo smog nelle sue varie essenze. Effluvi chimici all’inconfondibile flavour di letame misti ai gas di scarico, un mix la cui risultante stamattina non era nemmeno troppo spiacevole. Ricordava il Vernidas, la vernice protettiva con cui da bambini mettevamo fine alle nostre inconfondibili creazioni di plastilina alle elementari. Insomma, tutti si sono rimessi in moto, anzi in macchina, ed è un segno che inesorabilmente stiamo tagliando i ponti con l’estate. Ma qualcosa di diverso da prima c’è.

Uno dei numerosi bar dell’isolato, quello all’angolo, non ha riaperto dopo le ferie. Il cartello che informava della chiusura estiva è stato sostituito da un avviso della Polizia Tributaria, che ha messo i sigilli alle serrande e la cui rimozione viola la legge tanto quanto i gestori o i proprietari dell’esercizio pubblico che qualcosa, per essere soggetti a indagini, devono pur aver combinato. L’annuncio dei finanzieri spicca nella sua sobrietà sotto l’insegna colorata del suddetto bar, il cui nome in lingua spagnola richiama luoghi esotici, divertimento, tapas a volontà, quel matto di Pablo che balla sui tavoli e altri ameni luoghi comuni caraibici. Il palazzo, con quella saracinesca chiusa in uno scenario che ha ripreso la sua consueta vivacità feriale, sembra ora orbo da un occhio, ricorda un volto con una benda nera come Moshe Dayan, un corpo con una ferita ricucita male, una bocca tappata forzatamente.

Gli ex consumatori abituali del caffè prima di mettersi al lavoro e del cappuccino con brioche alla crema gonfiata nel microonde, ma anche gli sbevazzoni che, madidi di sudore dopo una giornata al pc, si alternavano in giri di aperitivi alcolici, si avvicendano nella lettura di quella sorta di necrologio, si chiedono cosa sarà mai successo, tutti i giornali parlano di lotta all’evasione, vuoi dire che hanno cominciato proprio da qui? Ma no, hai voglia a far entrare in vigore la manovra. E la vita continua, dai andiamo al bar più avanti, oggi tocca a me pagare, dice l’avvocato con i suoi assistenti, e via con il Giornale sottobraccio. Inizia una nuova stagione, ma la serranda resta giù a coprire le vergogne di scontrini mai battuti, camerieri mai messi in regola pronti a far finta di essere clienti in caso di controllo, occasioni di ristorazione perdute, di pause che ora chissà dove si consumeranno. Sì, è mio, no grazie, lo prendo senza zucchero.

genera mostri

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Anche se sto dormendo me ne accorgo, perché il giorno dopo ricordo quasi sempre tutto. Il ritmo della causa scatenante che aumenta, il desiderio di liberazione che matura, la preparazione del verso, una sorta di riscaldamento piuttosto agitato, quindi spalanco la bocca e il grido esce, con intensità variabile a seconda proprio della sequenza delle fasi, che funziona più o meno come quando lanci un elastico, che più lo carichi tirandolo verso di te e più lui vola in avanti. A quel punto il danno è fatto, e nel silenzio della notte riecheggia l’urlo o la parola con cui si sancisce il dominio della tensione dell’inconscio in azione sul conscio dormiente. Le cause scatenanti sono varie, dipendono da stress, stanchezza, quantità, qualità e pesantezza della cena. Ma anche un letto posizionato diversamente o il totale delle ore di sonno macinate, paradossalmente più dormo e maggiore è il rischio. Dietro c’è comunque sempre un incubo di varia natura: la casa di campagna dei nonni, isolata e desueta, l’uragano che vuole entrare dalla finestra, i nazisti che mi fucilano o mi puntano la rivoltella alla tempia e poi sparano, la sensazione di soffocamento mentre cerco di nascere dal corpo di mia mamma, e una più banale manifestazione di conoscenti morti che mi vengono a salutare nel sogno e che non mi lasciano mai nemmeno un pronostico per mettere al sicuro la mia vecchiaia, ma forse lì l’urlo è uno sbotto per l’occasione sprecata. Mia moglie a volte riesce ad accorgersi che sono lì lì per svegliare tutto il condominio, e cerca di farmi riprendere conoscenza in tempo. Ma spesso ce ne rendiamo conto a danno compiuto, ho gridato ancora nel sonno? Qualche secondo, mi giro dall’altra parte e riprendo a dormire. Mi alzo a bere un bicchiere d’acqua o a fare pipì. Accendo la luce e cerco di calmarmi. La mattina dopo ci scherziamo su, la pizza con le acciughe o i peperoni, sì, anche questa volta, devo ricordarmi di prendere qualcos’altro. Ma entrambi sappiamo benissimo che non è quello, per lo meno non è solo quello.

sol dell’avvenire

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palindromo

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C’è una piazzetta piuttosto affascinante poco lontano da qui, che più che una piazza è uno slargo ricavato da un incrocio che ha ricevuto non so quando la dignità e lo status di piazza, ma che sarebbe lo stesso uno slargo carino perché è cinto da una schiera di casette d’epoca a due piani tutte colorate diversamente. Le casette formano una macchia di vivacità architettonica in un quartiere nel centro di Milano abbastanza omogeneo e monocromatico, un quartiere comunque distinto e suggestivo dove fare quattro passi prima di riprendere il lavoro dopo pranzo tutto sommato è piacevole. È uno scorcio anche scenografico e telegenico, tanto che talvolta lo si riconosce come sfondo in film e anche alla tivù, anzi ti viene più da guardare lo sfondo e le casette colorate che le mimiche dell’attorucolo di turno che si sforza in pose standard e di maniera intorno a parlate e dialoghi spesso imbarazzanti. Qualche volta capita di passare da lì e sbirciare le riprese, ed è inevitabile cercare di capire di cosa si tratti per poi riempirsi la bocca di questa o quell’altra starlette intravista seduta sulla panchina, al chiarore della luce artificiale.

Oggi la scena, però, era surreale. Sembrava la rappresentazione in carne e ossa di un quiz della Settimana Enigmistica, il Corvo parlante, un insieme caotico di oggetti, foglie, animali e persone posizionati a casaccio per nascondere altri oggetti, foglie, animali e persone che il lettore deve trovare per risolvere l’arcano. Mancava solo il pennuto e il suo strampalato vaticinio diviso in sillabe messe a soqquadro. Anzi, a pensarci bene, dava l’impressione di un film di Todd Solondz, con le varie storie grottesche che si intrecciano ma, in quel momento, visualizzate tutte insieme, un coacervo di solitudini, disperazioni e infelicità paradossali.

La scena principale, quella che davvero poteva essere l’oggetto delle riprese, era occupata da un gruppo di cinque o sei persone, maschi e femmine tra i sessanta e settant’anni, vestite in tuta Adidas amaranto con strisce bianche, cappellino con visiera e scarpe da tennis (Adidas), pesanti catene d’oro al collo con vistosi medaglioni. Due di questi seguivano le disposizioni di una sorta di coreografo che sembrava insegnare loro una mossa di break dance. Gli altri, probabilmente con un passato da ballerini, stavano provando alcuni movimenti, dello stesso tipo. Lo stile era quello dei video old school, Public Enemy per intenderci, chiaramente vista l’età del corpo di ballo (ma se la cavavano comunque piuttosto bene) nessuno si cimentava in rotazioni sulla testa o altri movimenti acrobatici, per nulla imbarazzati dai numerosi operatori, truccatori, direttore di scena, gente con il cellulare che si faceva i fatti propri, tutti comunque piuttosto concitati per portare a casa nel minor tempo possibile il risultato migliore. Intorno, l’immancabile cerchia di curiosi, probabilmente attirata (come me) dalla bizzarria della situazione, o forse consapevole della presenza tra di loro qualche VIP, a me sconosciuto.

A lato del set, e non ho capito se facesse parte del cast o fosse lì per caso, un capomastro nordafricano stava cazziando in malo modo due giovani muratori dell’est, urlandogli in faccia le loro manchevolezze, dovete lavorare di più, avete capito? Dovete andare a lavorare e finire, sennò non vedrete nemmeno un euro. Ma i due ragazzotti, per nulla consapevoli della loro inadeguatezza, fumavano guardando le costose attrezzature cinematografiche che alcuni lavoranti stavano estraendo da un camion.

Nel frattempo il cingalese che, sul marciapiede di fronte, monta abusivamente il suo chioschetto di fiori, stava smantellando il suo esercizio mobile preoccupato dell’arrivo della Polizia Urbana, che solitamente presenzia le eccezioni alla viabilità di questo tipo. Per nulla preoccupato invece di quello che stava accadendo e della cerchia di impiccioni che a malapena un improvvisato servizio d’ordine stava educatamente tentando di sgomberare, un mendicante con la maglietta di Emergency continuava imperterrito il suo giro di elemosina, chiedendo soldi agli anziani ballerini di break dance, ai cameraman, ai muratori e al capomastro, al fiorista cingalese, e a me, fiero del suo finto sponsor che, in effetti, gli è valso qualche spicciolo in più.

io personalmente

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Io personalmente è un chiaro segno dei tempi. Un tentativo di rafforzare una qualsiasi propria posizione su una qualunque cosa, o forse più un modo per limitare la responsabilità di una opinione entro i limiti della propria fortezza individuale, un mettere nero su bianco che oltre il ponte levatoio che raramente si lascia aperto – e comunque onde evitare spiacevoli inconvenienti ci sono coccodrilli travestiti da avvocati pronti a prendere le difese intorno – il concetto che si sta per esprimere non ha nessun valore, è pura interpretazione dell’ascoltatore. D’altro canto, io personalmente è anche il copyright sull’idea, sul principio o sul parere, come me non c’è nessuno io sono l’unico al mondo, l’introversione di ogni possibilità di confronto, la massima chiusura nel bunker, tiro la sicura poi lancio la bomba dalla feritoia quindi mi tappo le orecchie e aspetto il botto, tanto ho detto io personalmente e sono cazzi tuoi. È una iper-prima persona singolare, un ego spropositato che non ammette confronti, un “mio Io, senti cosa sto per dirmi”. Oltre che un bel errore di grammatica. Io personalmente lo detesto, quasi più di un attimino.