l’indirizzo è approssimativo

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Un po’ di acqua calda testè scoperta. Vedere luoghi cari su Street View è un toccasana. Si tratta di un piacere di plastica, artificiale, ma la sicurezza dei luoghi, più che degli oggetti, ha un effetto placebo a quei microtraumi da webnauta che si manifestano ogni volta che sposti lo sguardo oltre il monitor e pensi quanto tu sia una la vera periferica del tuo pc anziché la tastiera con cui invii gli input. O, peggio, ad essere una componente hardware, e il tuo processore la vera mente pensante. Voglio dire, ti senti tronfio dell’essere un nodo della conoscenza globale, che poi si scopre un nodo che si fa presto a bypassare, lo stesso tipo di emarginazione che si fa presto a subire nella vita reale? O semplicemente hai quel bit di nostalgia, non hai più le foto o non le hai mai fatte e ripensi a quella vacanza, quella strada, quel appartamento in cui hai abitato da solo la prima volta nella tua vita. Così prendi l’omino giallo di Street View, lo trascini lì nell’incrocio a cui sei arrivato digitando l’indirizzo su Maps, e rivedi il luogo a cui stavi anelando con gli occhi elettronici di qualcuno che ha mappato l’intero pianeta. Qualcuno è passato con la googlemobile sotto casa tua, ha scattato la sequenza di foto all’ingresso del diner di New York che ti era piaciuto tanto, ha immortalato il trullo in cui hai dormito durante il viaggio di nozze. Ma è il connubio tra tecnologia e ruralità che ancora mi sconvolge, la commistione di modernità e tradizione, di acrilico e naturale. Luoghi che per me rimarranno per sempre zolle e fienili sono diventati ritratti digitali, chiunque li può vedere, prendersi nota delle coordinate e visitarli di persona. La salita che consente l’accesso a una casa di campagna, dove, finalmente libero dalla sofferenza di un’ora di tornanti appenninici, mi scatenavo come un pupazzetto a cui è stata appena data la carica o, in senso inverso, percorrevo con una Olmo Forestal a tutta velocità, anche un po’ incoscientemente. Sì, è sempre tutto lì nello stesso punto, nessuno l’ha spostata o vi ha costruito sopra, è tutto sotto controllo. Wow.

piccoli omicidi tra concittadini

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Non so né il come né il perché, ma quella mattina avevamo deciso di fare una gita ad Aci Castello. Oramai Catania l’avevamo vista tutta, l’aereo del ritorno partiva la mattina dopo, ci può anche stare, aveva pensato mia moglie che allora non era ancora mia moglie, un giorno di itinerario casuale, proviamo Aci Castello, d’altronde anche la guida ne parla. E così a metà mattina siamo lì, nella piazzetta antistante la fortezza sul mare, il gusto del caffè e del cornetto ancora sul palato, i denti pelosi, come li chiamava una mia amica, quando fai colazione fuori e non hai con te il necessario per lavarli.

Mia moglie chiama una collega, dopodomani si torna in ufficio dopo questo ponte tra il venticinque aprile e il primo maggio del 2003, un saluto e qualche dettaglio su quello che succede in ufficio. Io mi guardo un po’ intorno, ci sono mamme con bambini in triciclo, anziani a spasso, gente normale. Due amici stanno seduti su una panchina ubicata all’ombra di albero, nel centro di un microgiardino, e mentre chiacchierano noto un tizio che si affretta verso di loro, un po’ concitato, ha in mano qualcosa di scuro e lo punta contro uno dei due. Non ci faccio subito caso, ma sento due colpi piuttosto forti. Uno dei due uomini seduti inclina di colpo la testa in avanti, come se si fosse addormentato sul colpo, l’altro resta immobile. Forse ho capito: qualcuno ha sparato a qualcun’altro.

Mia moglie è tutta presa nei suoi aggiornamenti di lavoro, mi guarda come a dire che cosa vuoi. Non hai sentito? Hanno sparato, dobbiamo scappare da qui. Senti, ti richiamo dopo, dice alla collega. Hanno sparato, non so che succede. Il panico è generale. Le mamme tirano su alla svelta i bambini e i tricicli, i passanti si allontanano di fretta, il tizio con la pistola sempre puntata inizia a correre verso quello che avremo scoperto dopo essere l’ingresso del Municipio. Io e mia moglie, ovviamente, facciamo la cosa più stupida, saliamo le scale che portano alla fortezza, non pensando che se il folle che ha sparato decide di barricarsi in un posto sicuro, continuare il suo massacro o anche solo prendere ostaggi, saremmo stati a sua completa disposizione. Topi in trappola. Per fortuna il castello è chiuso, beati gli orari naif dei luoghi di interesse turistico, e così torniamo verso il luogo del delitto. Di corsa, come tutti.

Una signora apre le persiane di una porta finestra al pianterreno del palazzo di fronte e ci fa entrare tutti. Siamo una dozzina di persone. Arriva anche il figlio, era di là studiare, sarò uno e novanta per centoventi chili. Estrae una bottiglia di acqua dal frigo e inizia a versare bicchieri ristoratori per tutti. Ci scambiamo impressioni con i compagni di sventura, le madri sono le più spaventate, a differenza dei loro bambini che sembrano tutt’altro che preoccupati. La padrona di casa si lamenta ad alta voce, dice che non è mai successo una cosa simile in quel paese. Io e mia moglie, forti dei nostri pregiudizi, ci scambiamo sguardi interrogativi e preferiamo non approfondire la questione con le persone presenti lì, che capiamo essere tutte del posto.

Do un’occhiata fuori, vedo i vigili su luogo dell’omicidio, vicino alla vittima una donna in costume da bagno, un medico che era sulla spiaggia a prendere il sole, sta tastando il polso dell’uomo, ma si capisce che c’è ben poco da fare. Inizio a realizzare il fatto di avere assistito a un omicidio. Decidiamo che comunque è meglio andare via da lì. Arrivano di corsa due poliziotti con la pistola in pugno. Sì, andiamo via. Ci allontaniamo dalla casa rifugio e percorriamo il lungomare, nel frattempo è ora di pranzo. Troviamo un ristorante sul mare con dehor e tv accesa e il cameriere, prese le ordinazioni, ci fornisce un aggiornamento. L’omicida è un folle che dopo aver freddato l’uomo di fronte a me ha ucciso il Sindaco e altre persone e ora è fuggito e lo stanno cercando. Vediamo passare anche un elicottero dei Carabinieri, probabilmente impegnato a dar man forte alla ricerca.

Ci rendiamo conto, per la seconda volta, che non è salutare rimanere ad Aci Castello: se il killer è ancora libero e armato, potrebbe continuare a uccidere, e noi siamo lì. Ormai arriva il pesce, per di più sembra ottimo, mangiamo un po’ di fretta e senza nemmeno prendere il caffè paghiamo e andiamo. Lì a fianco c’è una fermata del bus per Catania, torniamo al bed & breakfast, che è meglio. In autobus ne parliamo ancora, ho visto uccidere un uomo, ho visto un uomo che ha sparato a un altro, gli ha tolto la vita. Meglio chiamare parenti e amici e rassicurarli.

dare avere

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Mi vergogno un po’ a scriverlo, ma io di economia non ci ho mai capito un tubo. Ma proprio niente. Parlo di economia a qualunque livello, dall’abc della contabilità personale, alla dichiarazione dei redditi e il concetto di IVA fino alla borsa e ai mercati globali. Già il fatto di avere messo insieme nella stessa riga economia, finanza e contabilità ve la dice lunga. E mi impegno (non è vero), leggo (non è vero), mi sforzo di ascoltare le notizie (non è vero), ma poi mi accorgo che perdo di vista il concetto, mi focalizzo sull’estetica dei termini tecnici, a quel punto mi sono distratto e devo tornare indietro, o se sto ascoltando una notizia torno a seguire il filo ma ormai il filo è aggrovigliato e perso. Ciao. Non capisco la causa di questo blocco, voglio dire accetto i miei limiti, riconosco le mie difficoltà di apprendimento, ma quello che provo per l’economia è qualcosa di più. Vi faccio un esempio? Non ho mai capito perché, per risolvere i problemi di debito e di povertà o una qualsiasi delle crisi di cui sento continuamente parlare praticamente da quando sono nato, non sia sufficiente stampare più moneta e distribuirla a chi ne ha bisogno. Lo so, è un vero e proprio abominio, tanto che me ne guardo bene da chiederlo a qualcuno, anzi forse una volta l’ho fatto, ma era a una cena, avevo bevuto, e della paziente spiegazione che ne è seguita non mi è rimasto nulla. Per scendere ancora più terra-terra, ammesso che più di così sia possibile, quando svolgevo la mia attività di libero professionista con partita IVA non ne comprendevo nemmeno gli aspetti più elementari, la partita di giro e il fatto che alla fine, di un pagamento ricevuto, ne rimanesse così poco. Se non esistessero i commercialisti, sarei un uomo finito. In un impeto di titanismo leopardiano ho persino tentato un esame di macroeconomia all’università, frequentavo tutte le lezioni, ma poi il docente aveva iniziato a canzonarmi per la mia capigliatura, aveva quindi intuito il mio essere tabula rasa in materia e la difficoltà di farmi rimanere qualcosa delle sue lezioni. Mi chiamava persino alla lavagna a dimostrare le sue teorie, e malgrado la maggiore età mia e sua, alla fine mi sono spaventato e ci ho rinunciato. Devo avere ancora il libro di testo, da qualche parte. Mia moglie, dall’alto della sua intelligenza estrema e inarrivabile, per mia fortuna riesce anche ad assimilare i grandi temi economici del presente, a rielaborarli e a riassumerli in parole povere per cercare di farmi sentire meno impotente di fronte al tiggi. E io, per non deluderla, faccio cenno di sì con la testa, sì, capisco, è vero, incredibile. Però, a parte cogliere le cose che coglierebbe anche mia figlia, e cioè che non stiamo andando affatto bene, il resto vaga nella mia testa alla ricerca di una collocazione appropriata, fino a quando, trovando ostilità in ogni anfratto, compie il proverbiale tragitto tra i due opposti padiglioni auricolari e va in cerca di un uditore degno di tale materia. Ma ho già fatto molti passi in avanti, dai tempi dell’università. Sul lavoro sono stato persino incaricato della gestione di un paio di budget dei miei clienti, anche se non credo che inserire cifre in fogli Excel preimpostati significhi propriamente occuparsi di economia, vero?

grandaddy – jeez louise

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un inglese, un tedesco e un italiano

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In coda per l’ingresso agli Uffizi, una coda lunga, estenuante, di quelle che ti fanno passare la voglia delle gite culturali nei giorni in cui tutti fanno le gite culturali ma, purtroppo, nel tempo organizzato dal sistema socio-economico non ci sono alternative. Ho dietro di me un anziano turista inglese che, probabilmente molto più avvezzo di me alle attese educate, legge il suo libro, controlla lo stato della fila di persone davanti, chiacchiera con la moglie. Mi viene naturale impicciarmi cercando di scambiare qualche battuta con il mio inglese so and so, ma per fortuna il suo italiano è molto più fluente della mia lingua straniera (se non del mio italiano stesso). La ciacola prende corpo, e il mio interlocutore si dimostra persona simpatica e brillante, molto colto e arguto, insomma, l’attesa della visita prende un’altra piega.

Dietro di lui, altrettanto ordinati e pazienti, una famigliola tedesca. Madre, padre, un paio di figli e una nonna. Anche loro chiacchierano, ma il padre ha un tono di voce lievemente sopra la media, ma è comprensibile, deve tenere a bada anche i bimbi che, come è nella loro natura, si annoiano costretti lì tra tanta gente. E ogni volta che il papà parla, noto una smorfia di fastidio nella faccia del mio compagno di coda, l’anziano inglese che stringe gli occhi e corruga la fronte. Lo guardo preoccupato, chiedendo implicitamente una spiegazione. “Ho combattuto contro i tedeschi durante la Seconda Guerra Mondiale, per più di due anni in Europa e anche qui in Italia. Non dimenticherò mai il loro modo di impartire ordini, di rivolgersi agli altri, di parlare con militari e civili”. E a dirla tutta, mentre ascolto la sua difesa, nel mio emisfero ignorante trovo il pregiudizio per cui anche per me il tedesco è la lingua dei nazisti. Sono bastati film, documentari e libri a costruire un ricordo di cose che non ho visto e che non ho subito, e la cosa paradossale è che si tratta di un ricordo ancora troppo vivo. Il turista inglese si sistema il cappellino di tela, con una salvietta si asciuga il sudore, mi fa un cenno come a dire “ora mi passa”, e mentre ora ho attivato l’emisfero razionale, quello in cui c’è Angela Merkel, per esempio, osservo l’uomo tedesco che depone a terra uno zaino e si mette sulle spalle il più piccolo dei suoi figli.

for the young ones who don’t understand

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un taglio all’evasione

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Ci sono quelli che ti fanno la testa a uovo, perché se hai il viso lungo e i capelli troppo rasati sui lati e un po’ meno in cima fanno l’effetto palla da rugby. Poi quelli che alla fine sembri un delta sempre a causa del mento a punta, ma questa volta con l’aggravante della sfumatura sui lati, rasati alla base è più lunghi sopra le tempie, la risultante è una V per vendetta. Non ho mai capito poi quelli che ti fanno lo shampoo prima del taglio, quelli che te lo fanno dopo, quelli che ti bagnano con un vaporizzatore profumato durante.

Quasi sempre c’è la musica, qui sta al gusto personale. Il mio coiffeur storico, da cui vado raramente ora per motivi logistici, è sempre stato all’avanguardia, addirittura faceva i tagli punk, disegnava ragnatele agli skin, tirava su e colorava creste agli albori della cultura alternative. Potete immaginare quello che ascoltava, Bowie del periodo berlinese, new wave, ma anche reggae e comunque sempre roba molto off. Ora si è diffusa la moda della tv accesa, se vai in pausa pranzo ci sono i video musicali a tenere compagnia a chi è seduto in attesa del proprio turno, se vai nel pomeriggio sogni lidi esotici seguendo reportage di viaggi. Altri usano lo schermo solo come veicolo pubblicitario, con trasmissioni a rotazione, sfilate di moda e pubblicità di negozi locali o sponsorship di prodotti di bellezza.

Come non ricordare le botteghe storiche. Ce n’è una bellissima a Genova, ma anche qui a Milano trovi il tipico barbiere di una volta. Fino a poco tempo fa qui vicino era ancora in attività un ottantenne, talmente affezionato alla sua professione che, ormai vedovo, trascorreva anche le due ore precedenti l’apertura pomeridiana in negozio, godendosi il pisolino su una branda nel retrobottega oppure sfogliando il Corriere su una delle sue poltrone d’epoca.

Non ho mai provato i grandi centri estetici unisex, quelli con ennemila lavoranti, ogni volta te ne trovi uno (o una) diverso e fai fatica se sei uno come me, di quelli per i quali il taglio dei capelli è un po’ un rito, perché viziato dallo stereotipo del parrucchiere di una volta, con cui chiacchieri, non ti preoccupi di buttare via il tempo, la tua testa è nelle sue mani e affidata alla sua perizia nel renderti più bello, nei limiti del possibile naturalmente.

Ma il modo in cui si chiudono le sedute dal barbiere è sempre lo stesso, vent’anni fa come oggi, a qualunque latitudine. Ci si guarda nello specchio, di fronte, di lato, si ammira il proprio look quasi sempre soddisfatti, quindi si paga il disturbo e, indipendentemente dal costo che varia da città a città, da bottega a bottega, alla consegna del denaro non si ottiene nulla in cambio e in ricordo dell’avvenuta prestazione, se non il resto dovuto. Ciao, grazie, ci si vede alla prossima.

una polaroid di classe

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ispirazione, espirazione

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Può capitare che nel profondo del profondo del mese più profondo dell’estate, quei due o tre giorni che stanno a cavallo di ferragosto a seconda della sua posizione tra le domenica precedente o successiva, quel buco di c**o temporale (a volte anche con temporale annesso) in cui non c’è nulla, si scelga di trascorrere questo nulla barricati in casa. E sono convinto che molti lo passino così, altrimenti non si spiegherebbe il vuoto fuori. C’era un tipo, per esempio, che una volta è rimasto chiuso in casa per tre giorni, da solo. Cibo e bevande a sufficienza e un intero set di synth più un sampler collegati a un Mac, un PowerPC per l’esattezza su cui girava dignitosamente Cubase. E niente, tre giorni di full immersion in composizioni ispirate grazie alle quali il riservato musicista ha vissuto di rendita per almeno tre gruppi successivi, nemmeno troppo caldo malgrado la strumentazione impilata e accesa nella stanzetta più piccola, chiamiamola studio. La casa aveva infatti una doppia esposizione e, ubicata piuttosto in alto e per di più al quinto piano, era ventilata abbastanza. Ogni suono era ispirazione per un pezzo nuovo, non c’era giorno o notte o alcun limite fisico, le ferie sono state pensate anche per cambiare abitudini e vivere tra parentesi. Alla fine, stremato e spremuto dalla verve creativa, il tipo ha spento tutto, ha fatto una meritata doccia, è salito su una Panda bianca targata AL e ha raggiunto i genitori in una casa sull’appennino ligure, dopo un viaggio in cui ha ascoltato e riascoltato, su nastro, quanto registrato in quei tre giorni, più di due ore di musica che quasi non si ricordava già più.

concorso in omicidio

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