venti di cambiamento

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Le celebrazioni si fanno per decenni, ne avevo già scritto qui, ma si fa così indipendentemente dal fatto che io ne abbia scritto , sia chiaro. E in rete sono iniziate le celebrazioni dei vent’anni del grunge. Il 1991 infatti è stato, oggettivamente, l’anno della rottura, da allora in poi, mi riferisco alla musica, nulla sarebbe stato più come prima. Intanto per l’uscita di Nevermind, l’album che ha portato i Nirvana ad un successo senza precedenti. Ma ci sono altri tre dischi fondamentali per quel genere musicale che ha influenzato, in misura minore rispetto a quanto accadde per il punk alla fine dei 70, gli anni successivi. Naturalmente, come per tutti i fenomeni così esplosivi, il corso è stato standard: boom immediato, massima esposizione mediatica, tre o quattro anni di rendita, diciamo fino al 1995, poi giro di boa e riflusso, musica agli antipodi, quindi, a vent’anni di distanza, nascita degli emuli. Ne parlerò più avanti, anche se è un thread trito e ritrito, ma questo è stato il processo che hanno attraversato analogamente, per esempio, il punk, il post punk, la new wave, ma anche il beat e il rock psichedelico, persino il progressive. Materiale da tesi di laurea, chissà.

Ma torniamo ai tre album che dovrebbero, a mio parere, accompagnare Nervermind in una equa celebrazione di quel 1991. Anzi, a dirla tutta, Nevermind è stato si deflagrante, ma oggi è innegabile che le reminiscenze che abbiamo e l’approccio critico siano obnubilati dalle vicissitudini di Cobain, dal mito che la sua tragica fine ha prodotto. Senza nulla togliere ai meriti di quel disco, non dimentichiamo che “Smells like a teen spirit” è uno dei pezzi più belli di tutti i tempi. E, per rimanere nel mainstream degli interventi che spopolano in rete per l’anniversario, ecco un inciso sull’immancabile “dove ero io nel 1991”. Beh, grazie per la domanda. Nel 1991 ero già grandicello, avevo finito il servizio militare e stavo per laurearmi. E per seguire l’ennesima moda underground, con l’unico obiettivo di suscitare il maggior interesse possibile nel sesso femminile, mi ero fatto crescere i capelli lunghi lunghi e vestivo trasandato (ma guarda un po’) proprio come i grungi. Allo stesso modo in cui dieci anni prima vestivo di nero e avevo la cresta, cinque anni prima avevo la zazzera come Morrissey e così via. Ecco come disperdere la propria personalità. C’è un detto che sintetizza questo atteggiamento, ma è tropo volgare perché riguarda la capacità di traino di un particolare vello femminile. Per chiudere qui la parentesi personale scaccia-lettori, i due ricordi più vivi che ho di Smells like eccetera sono una bottiglia di Jack Daniels in due prima di un concerto dei Diaframma con Davide nella sua Opel Corsa con quel pezzo a palla, e un buttafuori di un club di Torino che mi ha, appunto, buttato fuori perché avevo iniziato a saltare pregno del pathos esaltante dal riff di chitarra di Cobain. Fine. Ah, di Nevermind avevo acquistato il vinile, in omaggio c’era una maglietta che ho regalato a una tipa, sempre per il detto di cui sopra.

Ma non dimentichiamo che nel 1991 ha visto la luce anche Ten dei Pearl Jam, innanzitutto. E, in quanto a spessore, i Pearl Jam sono ben altra cosa. La versione meno fashion del grunge. Leggo da Il Post che ci saranno celebrazioni ufficiali dell’iniziativa, comprendenti “un film documentario intitolato Twenty e diretto da Cameron Crowe, regista con assidue frequentazioni nel mondo del rock“. Bene. Eddie Vedder che suona l’ukulele ha comunque un suo perché, non trovate?

Terza pietra miliare dell’epoca è Badmotorfinger dei Soundgarden, la versione un po’ tamarra del grunge. Ma Jesus Christ pose è senza dubbio un capolavoro dalle venature dark, divertente da ascoltare, ballare e suonare. Per vedere i Soundgarden in quella tournée, pensate un po’, ho dovuto per contrappasso sorbirmi un concerto dei Guns’n’Roses, allo stadio Delle Alpi di Torino, gruppo di cui la band di Chris Cornell fece da supporto. Tsk. C’erano anche però i Faith No More. Ma questo accadeva l’anno successivo, sempre per il solito modo di dire scurrile di cui sopra.

Chiude la tetralogia (wow, mai avrei pensato di utilizzare questa parola in un post) la summa di tutto quanto, ovvero i Temple of the Dog. I Temple of the Dog, vi ricorderete, erano un supergruppo di Seattle, comprendente membri di proprio di Soundgarden e Pearl Jam, che si era formato come una sorta di tributo per la morte del cantante di un altro gruppo grunge, i Mother Love Bone, Andrew Wood. Il supergruppo durò giusto il tempo della pubblicazione di un album omonimo, uscito nel 1991, con alcuni pezzi davvero ben riusciti, come la struggente Hunger Strike.

Per chiudere, sono convinto che siamo arrivati al grunge passando anche per i Jane’s Addiction. Almeno per me il percorso è stato quello. Il grunge poi un bel giorno è finito, fagocitato da MTV e dai suoi programmi unplugged, dai filmetti come Singles, superato poi dal ritorno (per mia fortuna) dell’elettronica nel rock. Nel frattempo sono uscite altre band, gli Alice in Chains, gli Stone Temple Pilots e gli Screaming Trees, che avremo tutto il tempo per celebrare. Fino a questo anniversario, un po’ più dirompente.

monsters & co

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Mia figlia si indispettisce spesso quando in casa, tra amici, o al telefono, sente mamma e papà discutere di politica. Quando cerchiamo di seguire un telegiornale, giusto per non dipendere da Internet come unica fonte d’informazione, ma lì la capisco, a quell’ora le piacerebbe rilassarsi sul divano e guardare un cartone dal media player. Quando viene il Beppe, e si discute sul partito, sulla sua riorganizzazione, sulle iniziative per portare la politica al territorio, per farla percepire come uno strumento di governo dal basso e una sorta di pannello di controllo per decifrare quello che succede. O quando siamo su un sentiero di montagna, squilla il telefono ed è l’amica che ci aggiorna sull’ultima schifezza del governo in auge, sul tale o talaltro processo del premier, e via dicendo.

In effetti, mia figlia ha i suoi buoni motivi, per indispettirsi. E siccome è mia moglie quella più dentro alle questioni, io prendo da parte la piccolina e cerco di farle capire che sì, che i grandi parlano di cose che possono sembrare noiose, ma che è come se in classe doveste prendere una decisione importante ed è necessario discuterne, sentire il parere di tutti, convincere tutti a partecipare perché è così che funziona la società, anche una micro-società come quella di una seconda (a breve terza) elementare. Che, insomma, quello che succede intorno a noi, e intorno ai grandi, dovrebbe anche interessare i bambini, perché tutte le decisioni che passano attraverso il confronto politico riguardano anche loro.

Ma lei si imbroncia di più, e mi dice che no, non è vero che riguardano anche i bambini, e che in classe, tra compagni, ci sono argomenti ben più interessanti su cui discutere. Le chiedo di fare un esempio. Lei mi guarda con quella espressione che fa quando sa che sta per dire una cosa che mi contrarierà, un misto tra timore, il fascino della sfida sferrata ai genitori e il dispiacere di dare al nostro dialogo una venatura di contrasto. Quindi mi dice un nome, il nome è Yara.

A casa stiamo il più possibile attenti a lasciare nostra figlia esposta agli input esterni da sola, sia di attualità che di puro entertainment, senza il nostro filtro almeno finché ci sarà riconosciuta l’autorevolezza di fonte e di opinionisti, a costo di subire, come succedeva anni fa, interminabili gag dei Teletubbies, o di testare i film anche più assurdi per bambini con l’obiettivo di evitare le distorsioni della realtà che l’informazione mediata dalla tv è in grado di dare. Per farvi un esempio, l’unica volta che non ho controllato un cartone animato trovato in rete, scelto da mia figlia per una visione collettiva con nonni e zii, si è rivelato essere un film porno, non vi dico l’imbarazzo tra gli adulti seduti sul divano, una domenica pomeriggio, di fronte alla prima scena che stava per svolgersi in giardino.

Stesso discorso per la cronaca nera, che abbonda nella scaletta dei telegiornali. Non abbiamo trattato insieme di fatti inquietanti come l’omicidio di Yara Gambirasio, anche perché, per un genitore di una figlia femmina, confesso essere argomento molto difficile. Ma ammetto l’errore, perché considerando tutta la storiografia che ne è derivata, inerente immigrazione e xenofobia, pedofilia, comportamenti devianti di un branco eccetera eccetera, è facile immaginare come i dettagli possano arrivare a una bambina di 7 anni di rimbalzo a scuola. E la sintesi fatta dai bambini di quella età, mettendo insieme le voci del tg, le interviste voyeuristiche di programmi squallidi seguiti in case in cui la tv si accende oramai per riflesso incondizionato non appena si torna dal lavoro, forse per colmare i silenzi e la mancanza di dialogo, la sintesi contiene il peggio del peggio in diverse varianti. Il marocchino che l’ha rapita per rubarle lo stereo che stava riportando in palestra, l’istruttore di ginnastica adulto che spia le ragazzine durante le gare, il muratore rumeno che la voleva portare in discoteca. E ogni bambino partecipa attivamente al confronto, probabilmente, mettendo del suo, e il suo è quello che ha assimilato la sera prima, durante l’ora di cena. L’argomento deve aver colpito molto l’immaginario infantile, visto che le sessioni di discussione si sono protratte per tutto l’anno scolastico, a quanto pare.

E a quel punto il danno è fatto; perché rimettere insieme le tessere di un puzzle, già di per sé difficile, magari scremando la narrazione dai dettagli più piccanti che possono stimolare la fantasia di un bambino, è una partita persa in partenza. Sono certo, e mi serva come lezione per il futuro, che insieme alle storie che più l’appassionano, sto pensando a Ulisse nell’antro di Polifemo, o Clorofilla di Bianca Pitzorno e alcune amene avventure di animali antropomorfi visti sul grande schermo, tra le reminiscenze dell’infanzia di mia figlia e dei suoi amichetti, una volta cresciuti, troverà posto anche la storia epica di una ragazzina presa e uccisa da chissà quali esseri cattivi. Gli alieni, chissà.

le mura di malapaga

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In tema di vacanze, ecco un viaggio spazio-temporale alla portata di tutti, poco più di un’ora da trascorrere virtualmente non solo altrove, ma in un altro quando. Il film “Le mura di Malapaga” è un gioiellino francese di cinema neorealista tra il noir e il sentimentale d’antan, diretto da René Clément, vincitore addirittura dell’Oscar come miglior film straniero, interpretato dalla star dell’epoca Jean Gabin. Ma la vera protagonista del film è la città che fa da scenario alla trama, una Genova da poco uscita dalla guerra, bombardata, ancora tutta da ricostruire. Una nutrita serie di cartoline in bianco e nero, una delle poche e rare testimonianze visive di una città che – almeno parzialmente – non c’è più. Il porto, con le mura da cui è tratto il titolo parte dell’antica cinta che da porta Siberia si estendeva fino a Piazza Cavour. Le vie strette e buie del centro storico, sì, i caruggi, ancora fitti di botteghe, teatro di vita per comparse vere, i genovesi sopravvissuti alla guerra. Facce da neorealismo e lineamenti di gente che ha sofferto e che, in Italia, non si sarebbero mai più riviste. Gli interni delle case traboccanti di sfollati, tra cui una giovane Ave Ninchi, bambini chiassosi e pronti a riappropriarsi degli spazi che la storia aveva negato ai loro genitori. A contrasto, qualche vista sui palazzi borghesi di Castelletto, quelli a metà delle vie in salita con il doppio ingresso, dal portone e dal tetto tramite passerella dalla strada sovrastante. Un bel film, e un bel carico di tensione da spendersi in estate, quando il bianco e nero ridimensiona l’orgia di colori della bella stagione, la calma piatta dell’interno con tv accesa e contorno di ansia da ignoto attutisce il chiasso del divertimento forzato là fuori, la bulimia di contatto virtuale e la psicosi dell’always on diventano risibili capricci, paragonati al bisogno quotidiano e imprevedibile di una società, quella del dopoguerra, ancora in fase di ridefinizione.

crimini contro l’umanità

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metronomy – the look

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antropologicamente diversi

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Chiediamo una legge sui partiti che garantisca bilanci certificati, meccanismi di partecipazione e codici etici, pena l’inammissibilità a provvidenze pubbliche o alla presentazione di liste elettorali. A differenza di altri, noi abbiamo già fatto molto per predisporci autonomamente a quella prospettiva. Abbiamo in vigore un codice etico più restrittivo rispetto alle garanzie del percorso giudiziario. Abbiamo recentemente approvato un codice da sottoscrivere da parte dei nostri amministratori per garantire trasparenza dei loro redditi e nelle procedure di appalto e di gestione del personale. Abbiamo applicato per i candidati alle recenti elezioni il codice suggerito dalla commissione Antimafia. Unico fra tutti i partiti italiani, fin dalla sua nascita il Partito democratico sottopone il proprio bilancio ad una primaria società indipendente di certificazione.

Sul Corriere una lettera di Bersani che fa la differenza.

quando deframmentare non serve più a nulla

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Sapete quanto ami usare l’informatica come metafora dell’umana natura, ho vissuto tutte le fasi della sua evoluzione e della cosiddetta democratizzazione dei computer, dispositivi ridimensionatisi da elementi di laboratorio per cervelloni a elettrodomestici da poche centinaia di euro alla portata di (quasi) tutti. E non c’è nulla che come un hard disk che mi consenta di raffigurare la memoria di un uomo che, per l’età, inizia a dare segni di cedimento. File che non si trovano, errori di ridondanza ciclica, difficoltà nell’ordinare nella giusta sequenza operazioni elementari. Accorgersi che una persona che conosci da una vita intera, perché è la seconda persona che ti ha visto appena nato, perde di lucidità è un’eventualità spiazzante, cancella punti di riferimento, suona come un’anticipazione di una storia che sta per iniziare, di cui si immagina il finale e si spera sia, comunque, decoroso. Non sono pronto, è la prima cosa a cui ho pensato. Ma chi lo è.

al corriere cercano un photo editor

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la maledizione del 27

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Nella numerologia e nella cabalistica il numero 27 è chiamato a rappresentare l’età del decesso di alcune celebrità. Brian Jones, Jimi Hendrix, Janis Joplin, Jim Morrison, Kurt Cobain, da sabato scorso Amy Winehouse. Non so, non riesco a farmi prendere dalla psicosi, per me resta ancora giorno di stipendio.

da qualche parte bisogna pur ricominciare

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