la donna avventuriera

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La donna avventuriera: il cappello è un sombrero messicano, ha il viso di un’indiana con il terzo occhio, il vestito parigino e gli zoccoli olandesi.

per quest’anno non cambiare

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La fine può costituire un deterrente all’inizio di una qualsiasi cosa. Non si adottano gatti in casa per la paura che muoiano, d’altronde succede, prima o poi. Non si intraprendono storie d’amore complesse perché si è consapevoli che almeno uno dei protagonisti ne soffrirà. Non si va in vacanza perché un giorno poi si deve prendere la nave o l’aereo o l’autostrada del ritorno, e nel giro di 24 ore si è di nuovo qui, a scrivere che era meglio non partire nemmeno per poi stare così male alla fine. Ecco, quello delle vacanze potrebbe essere l’unico caso in cui si può scegliere la trama, decidere il proprio destino. Homo faber est suarum quisque feriarum.

Invece no. Tutti, ma proprio tutti, chiudiamo in agosto. Si stacca la corrente, ogni esistenza e relativo riporto passa in modalità stand-by, interi dipartimenti aziendali si trasferiscono in blocco. E non sapete quanto vi invidio, voi tre che vi siete fermati alle strisce pedonali per farmi attraversare. In tre nella cabina di guida di un camper, madre, padre al volante e ragazzino in mezzo, un camper da almeno 6 posti che lasciava supporre la presenza di altri familiari dentro. Tutti con quella faccia da predestinato, da chi può permettersi di partire un mercoledì mattina alle 8.30 da Milano per andarsene chissà dove senza il rischio di trovare traffico (tangenziali a parte), code all’imbarco dei traghetti, lidi affollati, italiani in viaggio e bancarelle fricchettone.

Ma sappiate, voi tre o quanti eravate davvero su quel camper, che la fine della vacanza arriverà puntuale, la fine è tale e non ammette proroghe. Chissà, potrà coincidere con il giorno della partenza dei comuni impiegati, il 15 agosto, quando i comuni impiegati si incolonneranno in direzione di Civitavecchia a prendere l’unico traghetto per la Sardegna trovato a un prezzo accessibile, e ci sarà anche il resto del mondo degli impiegati comuni, perché non si può triplicare il costo di un viaggio in nave in 12 mesi.

E poi, una volta allestita la tenda nella piazzola – prenotata a febbraio con difficoltà perché tutti vogliono essere lì in agosto – in Costa Rei dopo solo 36 ore di viaggio, i comuni lavoratori, dipendenti e non, possono bearsi della vista delle tende dei vicini, con il classico piglio invidioso per i tedeschi e i francesi, numerosissimi, silenziosissimi, attrezzatissimi e austeri. E gli italiani, impiegati comuni, arrivano stremati come ogni anno, a quella data, perché le ferie andrebbero fatte come le fate voi tre camperisti, a giugno, appena i bambini finiscono la scuola e, in una realtà ideale, quando dovrebbe finire anche tutto il resto.

La scena è quindi facile da immaginare: c’è un ragazzino seduto in mezzo a genitori camperisti e fabbri del proprio destino, perché se sono lì al suo fianco in canotta alle 8:30 di un giorno di metà giugno è perché hanno in qualche modo riscattato il proprio tempo e la propria vita come si fa quando estingui un mutuo perché hai vinto un’eredità grazie alla morte di un tuo parente, con la quale magari ti sei comprato anche il camper. Un ragazzino che mi guarda con quell’espressione perplessa che a quell’età resta accesa non più di qualche istante, forse perché, attraversando la strada sulle strisce, gli sto rubando una manciata di secondi di estate.

una giornata particolare

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Oggi è una giornata particolare. Inutile che fai finta di niente: siamo troppo abituati a vederti in abiti civili, come li definiamo noi. D’inverno si nota il tuo sforzo di apparire normale, molto spesso con camicia, pullover a vu o girocollo, quasi sempre jeans scuri o pantaloni di velluto e clarks. Ma è con il caldo che ti vediamo in difficoltà, perché sappiamo che, se fosse per te, indosseresti i bermuda grungi e una delle tue magliette a righe. Roba che hai acquistato almeno quindici o venti anni fa, quando avevi appunto quindici o vent’anni di meno. Ora i capelli grigi, ti sei fatto pure crescere la barba, insomma non puoi più nascondere la tua età, sicuramente più di quaranta. Così, almeno da un paio di estati a questa parte, apprezziamo lo sforzo che fai per non dare l’idea di essere uno di quelli di mezza età che cercano di darsi un tono da giovani ma che risultano patetici e trasandati. Soprattutto in un ambiente di lavoro.

Il problema è che sembri avere un fisico adatto solo a quel genere di abbigliamento, perché con ogni altra combinazione dai proprio l’idea di non essere a tuo agio. Hai il portamento e la postura di chi sta in piedi a chiacchierare di musica alternativa fuori da un club con una birra in mano e una sigaretta nell’altra. Aggiungi poi un guardaroba completamente inadatto alla stagione calda, si vede lontano un miglio che soffri. Non molli i jeans nemmeno a ferragosto, quelli blu scuro con la trama spessa, i 501 per intenderci, scarpe da mezza stagione (non oso pensare alla sofferenza di stare tutto il giorno in quelle trappole), camicie e magliette le più anonime possibili. Sì, passi inosservato ai più, ma chi ti conosce comprende il tuo disagio.

Poi ci sono le giornate particolari, nelle quali è chiaro che sta per accadere qualcosa di importante. D’inverno con un completo di fustagno color tabacco, in estate con camicia azzurra e pantalone di tela blu ma, soprattutto, la cravatta. Ma, ripeto, non è proprio la tua tazza di tè, come direbbe un inglese. Non hai il portamento, sembri un gatto preoccupato che si dimena per sfuggire all’abbraccio di un bimbo un po’ rude. Sembra proprio tu voglia, con un unico gesto, strapparti via quella divisa di dosso e rimettere il tuo involucro confortevole, perfettamente in linea con il tuo modo di fare, tra il dinoccolato e l’imbranato, con le spalle un po’ curve. E oggi, vestito così, è chiaro che stai per incontrare qualcuno, una riunione importante o, lo spero per te, un colloquio di lavoro. Allora, buona fortuna.

l’uomo nuvoloso

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L’uomo nuvoloso: la sua faccia e il suo corpo sono nuvole, gli occhi e il naso sono gocce, le braccia sono lampi, i piedi e il collo sono fulmini.

le vibrazioni

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[suoneria con uno dei millanta riff degli ac/dc tutti uguali]
– sono in galleria, non so quanto riesco a parlare
– […]
– Si, ti dicevo, sabato ho fatto quel lavoretto di cui ti avevo accennato, ti ricordi? La festa in piscina
– […]
–  No, quello era la festa della birra
– […]
– Esatto. No, qui dovevo fare tipo la presentatrice, fare un po’ di annunci dal palco, oltre a ballare e fare un po’ di pierre e le solite cose
– […]
– Sì. No ma senti. Mi chiama il moroso della mia amica e mi dice se ero libera per fare una comparsata a questa festa in piscina, vestirmi da metallara perché è una festa di bikers. Figurati, ogni tanto qualcosa di diverso, il compenso è buono, c’è il gruppo che suona e devo presentarli, non ho capito se poi c’è una specie di gioco a premi e devo dire le cose al microfono… Va beh, non c’è problema. Insomma che il posto è bello, pieno di ragazzi e ragazze ma anche gente di una certa età, sai i motociclisti come sono. Hai presente il cantante dei Motorhead? Tutto in tema Harley Davidson, nel parcheggio ce n’erano centinaia bellissime, dentro vicino alla piscina c’era il gazebo con la birreria e la tipa metallara che spillava medie e a non finire.
– […]
– Non ne ho idea, sicuramente il posto è grande e merita. No ma senti. Ero con Grazia e ci siamo fatte un giro, la musica era altissima, ma a un livello assurdo. Poi mi chiama l’organizzatore e mi da un foglio, con il nome del gruppo. Vado a presentare il gruppo, il digei toglie la musica, prendo il microfono e faccio l’annuncio. Non ho fatto caso ai feedback, un po’ perché ero emozionata, un po’ avevo appena bevuto una birra.
– […]
– Nono, eehh… un sola, mica…
– […]
– Purtroppo mi ricordo. Vabbè, dicevo, non ho fatto caso subito ai feedback della gente, ma sentivo che c’era qualcosa di strano. Insomma, il gruppo suona, e mentre prima la musica la metteva il digei e non c’erano pause tra un pezzo e l’altro, questi suonano e i pezzi finiscono. E quando finiscono i pezzi c’è un silenzio strano, ma ancora non ci faccio caso più di tanto, ero con Dani e…
– […]
– Sì proprio lui, si chiama Dani. Insomma il gruppo finisce di suonare, nel frattempo il tipo mi chiama sul palco per fare un po’ di ringraziamenti. Così mentre i musicisti mettono via gli strumenti, urlo un “e ora facciamo tutti un grande saluto agli Hell’s Angel di Novara”. Vedo tutti che si sbracciano, qualche applauso, ma pochissime voci. Lì mi sono preoccupata, vado nel panico e guardo l’organizzatore. Ma vedo che non ha capito perché mi sto preoccupando. Vado con un altro saluto, stessa scena.
– […]
– Ma no, eehh magari, peggio. Cioè peggio, è incredibile. Senti. Scendo dal palco, e vedo un tipo che parla a gesti con un’altra, e lì mi viene il dubbio. Mi guardo intorno. Tutti si esprimono allo stesso modo, fanno gesti e parlano solo con le espressioni del volto. Uno addirittura vedo che si interrompe, fa un’espressione di meraviglia di fronte a una ragazza che lo sta raggiungendo, e fa l’inequivocabile gesto di quando non vedi un amico da secoli. L’organizzatore viene vicino. “Non ti avevo detto che era un raduno di bikers sordomuti”?

una splendida giornata

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Sottotitolo: il post definitivo (mio, e chi mi credo essere…) su Vasco Rossi e sul suo ritiro.

Sei un fan di Vasco? Sei un mio amico e sei fan di Vasco? Allora questo post non fa per te. Nel primo caso, non puoi essere sufficientemente obiettivo da condividere il mio parere. Nel secondo caso, potresti essere tentato di farne una questione personale e, chiunque tu sia, sappi che personale non è. Cerca di non riconoscerti tra queste righe, e se cogli qualche riferimento privato parliamone, saprò convincerti del contrario. Inoltre, di alcune cose ne ho già parlato più volte in questo blog, ma perché non affrontare nuovamente il problema sfruttando la notizia del momento? Quindi, apriamo le buste. Tema: Vasco lascia le scene per manifesti problemi anagrafici, e non solo. Svolgimento.

È facile identificare il momento in cui ci siamo accorti che Vasco Rossi era diventato un qualcosa di più che l’ennesima rivelazione emersa da un sottobosco di rock italiano ancora fermo alla generazione precedente e che per nulla riusciva a rappresentare il nuovo modello di giovane di allora: disimpegnato, non tanto tossico quanto sconvoltone, ai tempi si diceva “sballato”, un aggettivo così anacronistico da farmi vergognare di averlo scritto, poco raffinato ed equidistante sia dai Clash (per non parlare del post-punk italiano, nemmeno preso in considerazione a questo livello) che da un qualsiasi cantautore dell’epoca che iniziava ad essere fuori luogo, più che fuori tempo.

Quel momento è stato quando abbiamo incontrato un amico chitarrista vestito e pettinato tale e quale a Vasco Rossi. Siamo nel 1982. Tanto che negli ambienti della cultura giovanile di allora, come l’ARCI, indossare una maglietta con l’effigie della copertina di Siamo solo noi era oltremodo disdicevole, ed era un attimo a prendersi botte di “stronzo borghese” (cit.). Quasi più rischioso che sfoggiare spencer dalle spalle imbottite e spacciarsi New Romantic.

Insomma, per farla breve, Vasco Rossi piomba in una generazione senza anticorpi e in effetti, se non ci pensavi più di tanto, il genere così un po’ rock con qualche pezzo addirittura reggae ti poteva trarre in inganno. E come biasimarci. Le parole in un italiano così diretto come nessuno mai era riuscito a scrivere hanno scardinato trasversalmente un po’ tutti. Passa poco tempo, ed ecco il manifesto del pensiero rossiano, la vita spericolata a rischio ritiro patente per etilometro, che dalla vetrina di Sanremo spicca il volo per raggiungere una vetta senza ritorno, a cui, nemmeno oggi a distanza di vent’anni, nessuno, nemmeno Ligabue (ecco forse quasi avrei preferito si fosse ritirato lui) è arrivato.

Non mi piace Vasco perché ha catalizzato, monopolizzato e gestito in modo poco proficuo, per lo sviluppo e la crescita di almeno 3 generazioni di giovani, energie positive e costruttive con le quali si poteva tranquillamente fare altro che una rivoluzione. Ma mi sarebbe bastato una presa di coscienza, qualche parola su qualcosa che andasse oltre le sue tematiche standard. Che poi magari bastava solo una parola sbagliata o un pezzo sul piacere della cosa pubblica anziché la monotonia del vivere chiusi nel proprio guscio di periferia (qualcosa di più di cosa succede in città, sia chiaro) ed ecco che ti giochi un parte del tuo bacino di consenso. Che poi, a dirla tutta, secondo me, una volta che hai fatto innamorare di te così tante persone ti seguono ovunque vai. E allora, diamine, e dì qualcosa di sinistra anche tu.

you were a kindness: the national

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Quando la giornata inizia così.

sincronizzami tutto

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che disse alla sua serva raccontami una storia la storia incominciò

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Ci sono state interminabili sfide a tennis da camera, con le racchette da badminton e la palla di gommapiuma. Il gioco era: battuta completamente fuori traettoria, io che mi chinavo a raccogliere la palla, quindi battuta più o meno calibrata e risposta sparata sul soffitto, quindi palla da recuperare, carponi, sotto l’armadio. Questo ripetuto per intere mattinate casalinghe d’inverno, a non più di 2 scambi per volta. La variante estiva era sul bagnasciuga con i racchettoni e la palla di gomma sparata ovunque, e io avanti e indietro a cercarla. Mai più di una manciata di secondi di azione di fila.

Ci sono state feste di compleanno da preparare, con la fantasia, nella grotta di Yoghi, in cui tu eri sempre la festeggiata e io il resto del mondo a imitare le voci dei tuoi personaggi preferiti. Poi, per fortuna, da Hanna & Barbera sei passata alla fase Peanuts, in cui era tutto più facile perché le voci di Charlie Brown e amici, non essendo così caratterizzanti come quella, per esempio, di Svicolone, potevo farle senza inflessioni dialettali.

Poi le storie da inventare, perché ti eri appassionata alle malefatte del professor Augenthaler che ne studiava sempre di nuove per soverchiare con angherie di ogni genere una intera classe di una scuola materna ma che, essendo composta da bambini dall’intelligenza acuta e sopraffina, alla fine capitolava sempre ma senza mai farsi arrestare, così che si potesse ricominciare da capo la volta successiva. La difficoltà aumentava se la storia era da inventare rientrando a casa, alle sette di sera, dopo otto ore in cui mi ero già abbondantemente spremuto il cervello per scrivere storie meno interessanti per la comunicazione aziendale.

E sono stato anche un mezzo di trasporto, perché il passeggino non l’hai mai usato se non come carriola da spingere contro le persone a spasso. Hai camminato ovunque sulle mie spalle, e giocavamo a fare Rospù in groppa di Azur che si finge cieco per non svelare i suoi occhi azzurri durante la ricerca di Asmar. Con questa tecnica abbiamo macinato chilometri ovunque, e se non lo facciamo più è solo per i due dischi che mi si sono schiacciati a forza di essere le tue gambe, con mio immenso dispiacere. Anche se ora, alla tua età e con la tua altezza, avremmo comunque dovuto smettere. Tante altre cose fatte insieme, indovinelli e serpenti con le mani, disegni da colorare e battaglie tra formiche e cavallette e chissà che altro faremo ancora.

Ma, più di tutto, abbiamo letto centinaia di libri. Ho iniziato io a farlo per te, perché tu non avevi ancora imparato; libri di tutti i tipi, più o meno adatti ai bambini, i primi con tante illustrazioni e poche parole, poi pian piano sempre meno disegni e sempre più storie da interpretare, fare le voci diverse nei discorsi diretti. Tanto che hai imparato molto presto, e hai iniziato farlo per conto tuo. Così è bello stare tutti e tre insieme, ognuno il proprio libro, la mamma spesso con il quotidiano.

Ma sappi che se posso, se vuoi, mi piace ancora leggere per te. Oggi eravamo coricati sul tuo lettino, eravamo alle prese con la storia della vita di Paperone, un’edizione supereconomica con i fumetti talmente piccoli da essere al limite della riconoscibilità. Mi dimentico sempre di buttarlo via, non so nemmeno come sia finito sui tuoi scaffali. Comunque, tenendo l’albo a pochi centimentri dagli occhi, appena oltre i parametri della presbiopia, cercavo di dare un senso alla narrazione. Ma avevamo finito da poco il pranzo e a fatica finivo le frasi senza assopirmi. Così mi hai preso di mano il libro e mi hai detto che lo avresti letto tu, per me, per farmi addormentare. Ed è stato bellissimo, peccato essere crollato così in fretta.

jazz di stagione

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