la manutenzione della motocicletta e l’arte dello zen

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M. è nato e cresciuto a Genova. Te ne accorgi soprattutto non appena apre bocca. Non per l’alito, o per la dentatura imperfetta, difetti che si trovano a qualsiasi latitudine. Ma per l’accento e per la lingua. Come tutta la sua generazione anche M., che ha poco più che 40 anni, non ha molta dimestichezza con il dialetto. Ma soffre di cocina acuta aggravata da locuzioni tipicamente locali. “È grave e contagiosa, dottore?” già sento chiedere al di là del monitor. Tranquilli, non è una malattia. Ma se parlate, anzi, se fate parlare un genovese potete scoprire a cosa mi riferisco. Tra gli accenti e le parlate locali, il genovese – e ve lo dice un genovese – non è tra le più simpatiche e accomodanti (provate a leggere questo post con l’accento genovese. Magari registrate la vostra voce e poi risentite tutto. Saprete così di cosa sto parlando).

Non ricordo il motivo di questo preambolo. Ah, ecco. M., pur essendo nato e cresciuto a Genova, ha nel tempo coltivato la passione per l’oriente. Anzi, per lo yoga. Ora, sono ignorante in materia quindi la butto un po’ sul pour parler, spero comprenderete però lo spirito del messaggio che voglio trasmettere. Ne abbiamo parlato più volte, e l’oggetto della discordia resta il mio scetticismo di fronte a una disciplina che talvolta mi sembra così inapplicabile nel contesto dell’occidente opulento, frenetico e sviluppato in cui viviamo. Ci sono milioni di persone, penso, solo in Italia, che praticano yoga, quindi sono io dalla parte del torto. M. però una volta ha dovuto darmi ragione. O, meglio, è convenuto con me che l’atmosfera di quanto vi sto per raccontare non era delle più zen.

Una decina di anni orsono, M. si imbarca in una avventura spinto dal desiderio di cambiare completamente vita, spegnere il PC su cui macinava quotidianamente codice su codice, mettere variabili, vettori e funzioni nel cassetto, e provare a investire in una attività più utile alla società, come prima cosa, meno sedentaria, più adatta al suo background culturale e, se possibile, altrettanto remunerativa del programmatore (il che già di per sé costituiva una sfida). M. ha anche un passato da musicista e una laurea umanistica, si sente anche portato per l’insegnamento. La somma di tutti questi fattori ha un nome: Musicoterapia. M. si iscrive così a uno dei numerosi corsi a pagamento per iniziare una carriera di musicoterapeuta.E fin qui non mi sembra ci sia nulla di strampalato.

Tra materie di studio c’è una sorta di – come definirla?- drammatizzazione di gruppo, educazione alla comunicazione corporea, pratica del movimento e psicologia di insieme. Boh. M. me l’ha raccontata pressappoco così. “Eravamo tutti, una ventina di corsisti, in tuta e calze antiscivolo in una palestra che non era una palestra, bensì un’aula di scuola elementare“. M., provenendo dal mondo dell yoga, sa quanto sia importante l’ambiente per le discipline che comportano la concentrazione assoluta da parte dei praticanti. “Già l’ambiente, quindi, si presentava come poco adatto. Arriva quindi l’insegnante, musicoterapetuta diplomato, nonché insegnante di yoga e di educazione fisica. Alto poco più che un metro e mezzo e quasi del tutto pelato. Ma questo è secondario“. Conosco M. Se ha incluso questo particolare nel racconto c’è un motivo. M. da buon ligure, da una parte bada molto al sodo e alla sostanza. Sa però quanto è importante il carisma nel maestro e nella guida. Ma andiamo avanti.  “Ci mettiamo tutti in piedi, in cerchio. E lui, non ricordo il nome, inizia la sua seduta“. Qui dovreste però sentire il racconto di M. dalla sua voce, è ormai un cavallo di battaglia dell’umorismo famigliare, vediamo se rende anche scritto. “Con un pesantissimo accento genovese, ci chiede di chiudere gli occhi, di pensare che siamo degli alberi, con le radici ben piantate nel terreno, le braccia sono i nostri rami, le dita le foglie. Ecco, ora le foglie si muovono nel vento, la vostra testa è nel centro del cielo e state respirando aria pura… e così via“.

M. e i suoi compaghi hanno cercato di non guardarsi per tutto il tempo della seduta, ma è stata dura rimanere seri e concentrati. Non guardarsi e non scoppiare a ridere. M. mi dice di provare a immaginare un racconto new age ispirato, come uno degli spot radiofonici di lifegate, dove al posto della voce profonda che calca su aggettivi come “olistico” c’è Beppe Grillo (il comico di una volta, non il comico di adesso).

Oggi però sono riuscito a sdebitarmi con M. L’ho confortato con il raccondo di C., che si è iscritta a un corso di yoga tenuto presso il CRAL dell’organizzazione in cui lavora. Il pro è solo il costo, praticamente nullo. I contro sono molteplici, principalmente identificabili nella modalità di erogazione, la lezione di gruppo. E vanno dalla fragranza dei calzini, non sempre adeguata, alle emissioni in fase di sforzo, all’eccessivo relax di posizioni che portano al sonno sonorizzato. Il tutto nella palestra di un importante istituto superiore locale, in mezzo a decine di altri corsi serali, dai più silenziosi, come la ginnastica, ai più molesti, come l’aerobica, passando per pallavolo, basket e softball con relativo background audio. La musica d’ambiente si mischia a waka-waka, fischietti e rimbalzi di palloni

Caro M., mi spiace ma credo di aver ragione. Per vivere completamente l’esperienza di una disciplina orientale, occorre praticarla almeno nel triveneto. Qui, o a Genova, siamo troppo contaminati di occidente. Ah,dimenticavo. M. non ha mai smesso di fare il programmatore.