ti va di ballare insieme?

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Un passo a destra e due a sinistra poi si battono le mani, si fa una piroetta, quindi il movimento tipico delle braccia tipo la febbre del sabato sera per due volte e si chiude con un saltello indietro a piedi uniti e, allo stesso modo, due in avanti, quindi si riprende da capo. Ora la domanda è per voi: avete riconosciuto di che ballo di gruppo si tratta? No, vero? E certo, perché me lo sono inventato sui due piedi (è proprio il caso di dirlo) e mentre lo scrivevo ho avuto un’idea fantastica. Mettete una canzone che vi piace, filmate le prove seguendo le indicazioni che vi ho dato e poi inviate il tutto a plus1gmt chiocciola gmail punto com. Una giuria composta da me e basta individuerà l’abbinamento musicale più appropriato, la tecnica più fluida e il risultato più efficace in grado di imporre il ballo di gruppo più fico dell’estate 2017. Non dobbiamo lasciarci sfuggire infatti un’occasione ghiotta come questa. Avete presente Rovazzi e il suo “Andiamo a comandare”? Bene. La pluri-premiata hit della disco-pop demenziale è stata immediatamente ghermita dalla vorace lobby dei divertimentifici vacanzieri, rimasticata e rigurgitata in versione ballo di gruppo. Se siete passati sotto le grinfie di qualche animatore da villaggio vacanze, durante le vostre più recenti ferie, vi sarete accorti del vero spazio riempipista della serata. Un esperimento virale diventato fenomeno sociale diventato espressione culturale di questa Italia che non finisce mai di sorprenderci in peggio. Il punto è però che l’aver raccolto egregiamente l’entusiasmo di un popolo per il caso Rovazzi in una sintesi in quattro quarti regolamentata con tutti i crismi e attraverso movenze strutturate da riprodurre simultaneamente da più persone, è la dimostrazione che qualunque cosa possa diventare un ballo di gruppo. Mi seguite? In quest’epoca di ironia sui social, di primato dell’impiattamento come espressione artistica e di talent come unico modello di affermazione professionale, mentre la danza in generale unisce l’estetica della società dell’immagine con quella della società del corpo, ogni dettaglio della narrazione comune frutto del bombardamento informativo a cui siamo soggetti può avere un adattamento riuscito a ballo di gruppo. D’altronde non è la danza corale a essere stata inventata dai nostri avi come momento di preghiera collettiva? Proviamo a elaborare un adattamento a ballo di gruppo per quello che ci sembra più consono: la riforma della Costituzione ma anche il primo giorno di scuola dal punto di vista di chi prende i mezzi pubblici per andare al lavoro. La simulazione del calcolo della pensione a cui andiamo incontro ma anche la facilità con cui le nostre città vanno in tilt con il maltempo. Un risotto ai funghi. Il dibattito sulla vice Miss Italia curvy. Virginia Raggi. I fruttariani. Il duemilasedici come anno di grandi cambiamenti. I Promessi Sposi. Il campionato di calcio. Sono certo che da qualche parte nell’universo una civiltà evoluta ha già messo da parte parole e numeri e comunica quotidianamente attraverso i balli di gruppo. Non facciamoci trovare impreparati.

il caso rovazzi

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Che la musica non sia più la musica come la intendiamo noi è un dato di fatto e ormai consolidato almeno dai tempi di Napster. Non è la prima volta che succede. Non dico che non sia un danno, ma le cose cambiano perché ci sono miliardi di persone che lo vogliono o sono indotte in qualche modo a volerlo o le cambiano e non se ne accorgono ma funziona così e quando le generazioni che hanno visto la musica come la intendiamo noi saranno cenere nessuno vi farà più caso e, finalmente, l’annosa diatriba sulla qualità, sulla dematerializzazione e sulla svalutazione dell’arte farà compagnia a noi nell’urna come una eco di felici momenti passati sul web a difendere il primato dei Led Zeppelin (il primo nome che mi è venuto in mente, giusto perché ho appena rivisto per la milionesima volta Jimmy Page con gli occhi lucidi alla loro celebrazione al cospetto di Obama di qualche anno fa) e degli ascoltatori dei Led Zeppelin su Rovazzi e gli ascoltatori di Rovazzi.

Punto primo: la musica non è più la musica come la intendiamo noi già dai tempi dei video. I video musicali hanno aggiunto uno strato visivo alla musica che ne ha depauperato il valore immaginifico. E anzi, vi dirò: probabilmente i grandi happening live avevano già strizzato un po’ via dalla musica le emozioni che il solo ascolto ci dava. Con i live di massa abbiamo iniziato a dare un volto alle voci e ai suoni, con il video oltre al volto anche un’interpretazione visiva del contenuto di una canzone. Mi seguite?

Pensate poi anche a cosa è successo dopo: si sono messi a fare musica quelli che non sapevano suonare e cantare e hanno venduto milioni di copie, e via un altro strato. La musica specifica per ballare? Via ancora un pezzo. Poi quelli che mettono i dischi per far ballare si sono persino arrogati il diritto di dire che suonano, e giù un’altra mazzata (attenzione: i miei non sono giudizi etici). Poi come un gigante schiacciatutto si è presentato il digitale con diverse conseguenze: la totale disponibilità della musica sempre e ovunque (che per me è una manna dal cielo), nuovi modi di suonare, comporre, arrangiare, eseguire, interpretare, mescolare. Sedicenti musicisti che prima dell’avvento dei campionatori avrebbero perseguito altri passatempi ingegneristici e che invece sono diventati musicisti digitali e, anche loro, artefici del cambiamento.

Punto secondo: Rovazzi, dicevamo. Cerchiamo di dare il giusto peso alle cose. Le impressioni dell’utente che il web registra con i suoi sistemi di raccolta e analisi dei dati sono intanto approssimate (direi anche approssimative) e poi lo sapete come funziona su Internet, che è un sistema talmente liquido (per dirla come coso là Bauman) e talmente effimero (il ciclo di vita di un qualsiasi fenomeno digitale a partire dalla mio status su Facebook sino al meme del momento è inferiore a quello di un qualsiasi insetto comune) che è fondamentale attaccarsi a tutto per dimostrare il proprio valore e, conseguentemente, farsi pagare il giusto da chi pensa che quell’Internet dell’effimero sia un buon investimento. Vi faccio un paio di esempi veloci: se siete iscritti a quella palla che è LinkedIn, avrete sicuramente ricevuto quegli spassosissimi avvisi del tipo hei amico il tuo profilo sta avendo successo! È stato visitato da 1 persona. La nostra soglia critica è talmente messa male che non ci fa nemmeno più ridere la cosa, ma se qualcuno venti anni fa vi avesse preso per il culo in questo modo non gli avreste dato una testata sul naso? L’altro esempio è il valore di influenza attribuito a gente con decine di migliaia di follower su Twitter o milioni di visualizzazioni su Youtube. Ora, stiamo tutti al gioco dei Social Network per scucire soldi a chi ne ha ancora e va bene. Ma le decine di migliaia di follower su Twitter o i milioni di visualizzazioni su Youtube di uno che indipendentemente da Twitter aveva già un certo peso sull’opinione pubblica rispetto alle migliaia di follower su Twitter o i milioni di visualizzazioni su Youtube di uno che le ha chieste di porta in porta come un piazzista di altri tempi, c’è una bella differenza, non credete?

Punto terzo: oggi la musica io la vedo dello spessore di un foglio di carta velina, anche quella dei gruppi nuovi che mi piacciono di brutto, ma perché della musica in sé senza una pubblicità, senza un tormentone sociale, senza un coro da stadio, senza un radio edit trasmesso tra una gag e l’altra su una radio commerciale a tutto volume in un’auto da guidare in tangenziale, senza un auricolare nello smartphone con cui dividere con un amico il canale destro dal sinistro e chi se ne importa della stereofonia, senza l’evento che riempie di centinaia di migliaia di persone gli stadi a costi che un tempo gli autoriduttori altro che molotov, senza le parole da scrivere sull’asfalto per fare la corte a qualcuno, senza il cantante ormai vecchio che muore, insomma l’esperienza di ascolto, come si dice oggi che tutto – anche fare la cacca al cesso – è un’esperienza di qualcosa, non esiste più.

E in questa complessità che noi non possiamo nemmeno immaginare perché siamo ancora lì con i dischi in vinile e con David Bowie, c’è chi ci sfrangia i coglioni con il senso e il perché e il percome di uno come Rovazzi, quello di “Andiamo a comandare”, quello delle 30.151.781 visualizzazioni su Youtube (dati aggiornati al 9 luglio) che in confronto “Vamos a la playa” è un esercizio compositivo da cameretta, quello che non è musica perché ha fatto solo un pezzo e lo distribuisce solo in streaming, quello che tutti si chiedono ma come è possibile, la musica è morta, quella non è musica, aiuto, aiuto. Certo, quella non è la musica come la intendiamo noi. È semmai il gelato appena uscito, lo slogan che si diffonde come una reazione nucleare tra i giovani, è il nuovo modello di iPhone, il gel per divertirsi a letto, la notizia sulla colonna delle stronzate dei quotidiani online che va avanti per mesi, il trend del momento, la serie americana che bisogna guardare, il caldo che per non collassare bisogna bere molta acqua e non uscire nelle prime ore del pomeriggio, il viaggio a Miami e la pettinatura a cresta. Sono tutti prodotti ma nemmeno del mercato. Sono cose che nascono senza che nemmeno ci facciamo caso e che funzionano così da sempre. Non è musica, ma chi se ne importa, è Rovazzi. È un’evoluzione e che poi sia una merda perché non è un long playing rock con la copertina dei Led Zeppelin chi siamo noi per dirlo?

Conclusione: – Hei che figata cosa è quella cosa lì che scotta? – Boh, me la sono trovata davanti alla grotta stamattina dopo il temporale, ho visto che gli animali feroci scappano, tiene caldo e se ci metto la carne sopra diventa più buona, provala anche tu.