non serve a un tubo

Standard

Questo inizio di secolo votato alla nostalgia avrà enormi conseguenze sui posteri. Negli anni quaranta, nel senso di duemila e quaranta, qualcuno si guarderà indietro per trovare dei punti di riferimento culturali e invece troverà predecessori voltati a loro volta indietro a cercare i propri punti di riferimento culturali e in questo gioco di rimandi al contrario non avete idea di quante saranno le generazioni col torcicollo in cui ci imbatteremo. Anzi, vi imbatterete, ma voglio essere ottimista e contare sul fatto che, nel duemila e quaranta, sarò ancora tra voi a scrivere corbellerie sui socialcosi.

Vogliamo dare o no un po’ di dignità culturale a questi anni? Vogliamo o no diventare protagonisti del nostro tempo? Vogliamo o no emanciparci dal passato come si deve? Da troppo è tutto così terribilmente anni ottanta e chi ha vissuto gli ottanta non ne può più. Domenica scorsa stavo sonnecchiando sul letto della cameretta in cui sono cresciuto, a casa dei miei, e, oltre alla sofferenza generata dalla consueta iconografia delle popstar del tempo che nessuno ha ancora avuto il coraggio di rimuovere dalle pareti, l’occhio mi è caduto sul tubo in plastica marron che usavo alle medie e forse anche alle superiori per trasportare da casa a scuola e ritorno i fogli da disegno tecnico che non stavano in cartella. Non so se i ragazzi oggi li usano più, perché comunque la carta ne soffre e poi a spianare le tavole ci vuole altro che una pressa industriale. Per questo vedo in giro ragazzini con cartellette sovradimensionate, anche dal punto di vista economico.

Così ho guardato dentro a quel cimelio di giovinezza sperando di ritrovare un’assonometria o una proiezione ortogonale ma purtroppo non c’era nulla, a dimostrazione dell’inutilità doppia dell’arnese. Inutile allora, per contenere mediocri prestazioni scolastiche. Inutile oggi, che a casa di mia mamma nessuno tiene in mano un rapidograph almeno dal 1985. Un tubo porta-tavole in plastica marron senza nessuno scopo. Mi chiedo quale riutilizzo possa avere un articolo del genere, ma è una domanda che rivolgo a me stesso, non sentitevi in dovere di rispondere, grazie.

non è difficile rubare in un’auto chiusa

Standard

La storia della dichiarazione di intenti tutt’altro che amichevole sulla schiena del trench di Ian Curtis, diventata un pretesto di moda fai da te dopo il mediocre film sulla vita del cantante dei Joy Division di qualche anno fa, aveva già dato ispirazione a diversi modi per pasticciare cappotti e chiodo. Giorgio, che oltre alla cricca dei post punk faceva politica attiva, si era addirittura scritto Craxi ladro con il pennarello bianco indelebile ed è rimasto immortalato così in quella foto in cui è rimasto per scherzo. C’era una darkina con cui era stato molti anni prima ma si erano lasciati in un modo piuttosto rocambolesco, e da allora non l’aveva più vista. Poi l’ha notata in posa a fianco del poster del gruppo new wave che avrebbe suonato di lì a poco in quel posto dove ci vedevamo per ascoltare musica persino al sabato pomeriggio, con le scalinata neoclassica nel cortile su cui nelle serate meno fredde le coppie si facevano di tutto al buio con la musica dei Bauhaus che colava dalle porte dell’uscita di sicurezza a causa dello scadente materiale fonoassorbente, per quello poi di lì a poco quel posto ha chiuso e chi si è visto si è visto. Sua sorella le stava facendo una foto con lei in posa e lui è corso all’altro capo del poster e a tutti è scappata una risata, e quella foto è rimasta famosa e una copia sbiadita devo averla ancora da qualche parte. Era il poster di un concerto che ricordo bene perché avevo un cappotto lunghissimo e nero che avevo lasciato sul sedile posteriore nella macchina parcheggiata sotto la sopraelevata, non avevo scritto “Hate” dietro perché non volevo rovinarlo e costava un botto. Dopo il concerto sono tornato a prendere l’auto e il cappotto dentro non c’era più, ma le portiere erano comunque chiuse e non ho mai capito come sia potuto succedere.

ecco perché gli anni ottanta hanno rotto il cazzo, ma anche i saldi non sono da meno

Standard

Non mi accorgo subito del pezzo, in genere riconosco le canzoni dalla prima battuta e questa vi posso assicurare che si tratta di una dote che farà di me un volto noto della tv nazional-popolare quando un giorno si decideranno a rifare il Musichiere, ma come potete ben immaginare saperle proprio tutte è quasi impossibile. Ho i miei punti di forza, le mie aree di eccellenza, rimango tutt’ora convinto di essere la persona più competente in ambito musicale che io conosca, ma stavolta ho toppato.

La delusione è duplice perché la signora in coda davanti a me sta ballando a tempo con il suo cane in braccio. Che poi definirlo cane si fa fatica. Se ne è stato per un bel po’ accoccolato vicino al collo della padrona e con il muso invisibile, nascosto nell’ammasso di pelo, immobile da sembrare un collo di pelliccia. Quando inconsapevolmente viene sballottato a ritmo di musica rivela tutta la sua pucciosità, anche se io non la colgo perché non ho un buon rapporto con gli animali ma diverse commesse e gli altri che sono lì in attesa di pagare i capi di abbigliamento in saldo scelti si superano in moine, versi, vezzeggiativi e smancerie che mi fanno rimpiangere i tempi di guerra in cui nessun tipo di bestia veniva risparmiato per sopravvivere alla fame, altro che la crisi in cui versa il nostro occidente industrializzato che, a quanto vedo intorno a me, non sembra voler rinunciare a un ricambio del guardaroba.

Comunque, per non essere da meno e non sembrare insensibile, mi lancio in un tentativo di socializzazione chiedendo alla donna tutta orgogliosa del suo cucciolo a quale razza canina appartenga quel minuscolo esemplare di toporagno che tiene in braccio, a mio giudizio inguardabile e insulso nella sua piccolezza. Se un giorno prenderò un cane, e questo consideratelo un periodo ipotetico dell’impossibilità anche se forse i tempi verbali non corrispondono alla regola, quel giorno prenderò un San Bernardo o un cane di taglia gigantesca, perché così devono essere i cani. Perché altrimenti, se mi fanno paura le dimensioni, continuerò con i gatti.

La signora, lusingata dalle attenzioni di un uomo distinto come il sottoscritto, si rivela proprietaria di un volpino di Pomerania, mica cazzi, un volpino di Pomerania che nella mia ignoranza non ho mai sentito nominare in vita mia e che solo prima di accingermi a scrivere queste righe ho scoperto che Google lo riporta come primo suggerimento non appena si imposta la ricerca con il termine chiave “volpino”. Non solo. Come seconda informazione si trovano anche dettagli sul prezzo, dai € 1300 in su. Non so voi, ma se avessi un cane così in casa passerei il tempo a cercare di non calpestarlo, sai che danno.

Comunque, mentre immagazzino una delle principali nozioni utili della giornata, la canzone di cui non mi sono accorto subito ha svelato la sua identità, e cioè “Dolce Vita” di Ryan Paris, al che non posso che essere severo con me stesso. Avrei dovuto aspettarmelo, dopo “People from Ibiza”, i soliti Via Verdi di “Diamond” e un altro paio di oscenità italo-disco che mi riportano subito ai tempi dei sofferti primi pomeriggi in discoteca: io che bramavo qualcosa dei Depeche Mode o dei New Order per distinguermi un po’ dagli amici tamarri che invece, con la loro competenza da Dee-Jay Television, beccavano molto più di me.

Così, mentre la mia attenzione dal mini-cane si sposta in basso sui leggings fantasia che la signora, obiettivamente, non si può proprio permettere data l’età e la stazza, penso che gli anni ottanta hanno davvero rotto il cazzo. E credo di averlo scritto mille altre volte in questo blog, lo so, ma faccio prima a ripeterlo anziché cercare i post in cui ho disperso le mia invettive contro il periodo che si è consumato a contorno della mia adolescenza. Gli ottanta hanno davvero rotto il cazzo e, soprattutto, musicalmente non ne posso più.

Non c’è centro commerciale in cui vada, non c’è stazione radio su cui mi sintonizzi in cui almeno una volta non venga programmato e diffuso uno di questi brani inutili che sono la mia maledizione. Mi rompevano il cazzo quando sono stati composti, mi hanno rotto il cazzo quando erano già superati ma c’era chi li ascoltava ancora, mi hanno rotto il cazzo quando è iniziato il revival degli anni ottanta e la moda connessa, e ora, trent’anni e rotti dopo, continuano a rompermi il cazzo. E forse l’immobilismo culturale, sociale, politico che è la nostra rovina oggi deriva proprio da qui, da un manipolo di perfidi selezionatori musicali che vogliono far sentire la gente ancora negli anni ottanta perché lo leggiamo anche su tutti i giornali che consumi e sviluppo non sono cambiati da allora.

E la sfortuna vuole che la coda, con quel toporagno canino che cerca di catturare la mia tenerezza ma sono certo utilizzerei in ben altro modo e la sua padrona che si muove a ritmo con la Dolce Vita di Ryan Paris, dura un bel po’. I clienti in fila alle casse sono tanti, le cassiere sono solo due e malgrado la ressa ne approfittano per indurre le persone – come accadrà a me dopo – a fare la tessera fedeltà.

Ma a me la voglia di ballare non aumenta per nulla. Mi viene in mente però l’ennesimo adattamento della celebre barzelletta del bunga bunga, quella che ha dato il nome all’ancora più celebre passatempo preferito del nostro ex ex presidente del consiglio. Immagino me vestito da esploratore legato a un albero da un branco di selvaggi armati di frecce avvelenate che vogliono farmi la festa, e il loro capo mi chiede, con il tono da stereotipo di uomo non civilizzato delle barzellette da colonialismo italiano anni venti, “Hei tu! Vuoi morire o andare per saldi?”. Io, con la voce rotta dal terrore, rispondo: “Morire… morire…”. Lui, soddisfatto, mi mette al corrente della sua decisione: “Va bene, però prima un po’ di saldi”.