boia chi bulla, buoi a chi bolla, bulli a bollate

Standard

L’errore mio è stato andare in play sul solito reportage sommario ripreso in verticale, attirato solo dalla location che è a poche centinaia di metri da dove sto scrivendo, nel comprensorio scolastico che ospita gli impianti sportivi in cui mi reco bi-settimanalmente a sgranchirmi le ossa grazie a un’attività motoria globale che né più né meno costituisce il penultimo stadio, l’anticamera della ginnastica antalgica.

Non voglio minimizzare il ribrezzo per la violenza dal vero, che sull’Internet in quanto a popolarità è seconda solo al porno amatoriale e precede di qualche punto gli esperimenti idioti sulla propria persona, una pratica che fa sembrare le mentos nella coca cola che erano in voga ai tempi di myspace un summit del CNR. Né, il mio intento, vuole spostare l’attenzione su un riuscito condensato della nostra società e dei meravigliosi tempi che il caso ci ha concesso di vivere: gente che insulta e mena altra gente, quelli intorno che si fanno gli affari loro, il genere maschile che interpreta l’episodio come un folcloristico evento eccezionale, una donna che mena un’altra donna è roba che nemmeno al circo e che ricorda la lotta nel fango in top e mini-mutandine, dispositivi personali che permettono di registrare e condividere soprattutto fatti come quello in tempo reale, indipendentemente dalla nobiltà dello scopo.

Già. Chi ci tiene a documentare il tutto, che, per carità, è grazie al suo istinto di reporter che è scoppiato il caso, conferma la mia visione del futuro con un partito dei giovani che avrete letto mille volte se mi seguite: vecchi denutriti concentrati in uno stadio, prima di una soluzione finale per risolvere radicalmente il problema della densità demografica e dell’insostenibilità della spesa sanitaria pubblica, e tutt’intorno ragazzi che filmano e fanno foto con gli smartphone per poi postare il tutto sui social e commentare ma in maniera asettica.

Poi i profili Facebook della carnefice e della vittima, quelli autentici cancellati e poi ricomparsi come fake a dimostrazione che gli sciacalli del web vivono e lottano insieme a noi e si nutrono di clic, sempre pronti nello sfruttamento delle tragedie altrui tanto che mi viene da pensare che davvero, la disoccupazione ci ha da dato un bel mestiere, mestiere di merda che è che c’è un sacco di gente che davvero non c’ha un cazzo da fare e sta lì ad aspettare sul web di essere nel posto giusto al momento giusto, né più né meno come quelli che attendono agli angoli delle strade che i caporali li chiamino per raccogliere i pomodori.

A me, che sono una persona superficiale, è rimasto invece il contorno di tutto questo, una serie di fattori di natura estetica. L’accento e la parlata tamarra misto meridionale da periferia milanese che colloca il piglio vendicativo e la cattiveria proferita a parole nel novero della mala dei poveracci, a fare il paio con i toni e le accuse da programma di Maria De Filippi in versione però nord-ovest, che a dirla tutta quando i romani e i napoletani si insultano con i loro accenti a “Uomini e Donne” alla fine tranquillizzano, tanto costituiscono uno specifico della comunicazione televisiva.

L’abbigliamento da negozio in franchising da centro commerciale, quei pantaloni che ti fanno sembrare un sub-normale che per fortuna è tutta roba talmente di scarsa qualità che dai due calci in testa alla tua rivale in amore e sono già da buttare, e che conferma che la moda che c’è adesso in giro, ragazzi miei, fa davvero cagare.

Infine la splendida cornice. Fermata dell’autobus con pavimentazione da sobborgo dimenticato da dio, facile ricovero di deiezioni animali. Edilizia suburbana da anonimato periferico degno di Padania Classics. E poi non so se erano le condizioni meteo o il coloring involontario di quella ripresa improvvisata, ma i toni dello squallore da commistione tra urbanizzazione e campagna trascurata, che non credo che abbia simili al mondo, che ogni volta che lo noto mi fa pensare che davvero dovremmo essere pagati per vivere in posti come questi, e avere anche un extra per farci vivere i nostri figli.

Anzi no. Io l’extra lo userei per mandare mia figlia a studiare all’estero, in Germania o in Olanda, per risparmiarle una scuola superiore come quella lì e tutte le sue frequentazioni, ragazze che ti aspettano fuori per fare i conti e insultarti e menarti e amici che se ne fottono, anzi, ci ridono su mentre qualcuno ti prende a calci in testa.

e pupe

Standard

Papà, ma quando tu andavi a scuola esistevano i bulli?”. Con mia figlia si sta parlando di un nuovo compagno di classe, un dono inaspettato che arriva fresco fresco da un’altra scuola da cui probabilmente o è stato allontanato o, palesando il dissenso con la linea didattica del comprensorio, è stato ritirato dai genitori stessi. Un dono di cui è stata omaggiata la terza di mia figlia, l’unica terza a essere priva al momento di casi problematici. E in realtà il pacco in questione, per insistere sulla metafora del regalo, non è che sia un bullo, bensì un piccolo cretinetti viziato, con un vocabolario di scurrilità alimentato a grandi fratelli, strisce le notizie e mediasettate varie. Uno di quelli che appena la maestra si assenta dall’aula comincia con il suo show di “bombe atomiche” (che non oso pensare in cosa consistano) e insulti gratuiti, anche pesanti, anzi fortunatamente talmente fuori misura da non essere colti nemmeno dai compagni di classe (papà, cosa vuol dire titoloirripetibile?), che già l’hanno bollato come uno svitato. Ma che talvolta “alza le mani”, probabilmente perché a casa nessuno gliele ha mai “scese addosso” abbastanza. Così, non riuscendo a capire il motivo per cui l’armonia di un gruppo debba essere guastata da un cane sciolto – cara mia, mi vien da dirle, ricorda che questo sarà una costante della tua vita sociale – mi chiede come si stava da studenti in quella dimensione atemporale che è il passato dei suoi genitori.

A pensarci bene, i bulli non esistevano nella mia scuola, perché se fossero esistiti sarebbero stati annientati dai piccoli delinquenti che la frequentavano. Ben altre complessità. Il quartiere in cui vivevo condivideva la scuola elementare e media con uno dei peggiori agglomerati urbani della mia città, popolato da famiglie numerosissime, la maggior parte immigrate dal sud, dai cognomi tanto pittoreschi quanto allarmanti e spesso presenti sulle pagine di cronaca locale e noti per una gamma completa di crimini comuni. Il tutto in un’epoca in cui non esisteva alcuna sensibilità per questo tipo di disagio, né a tutela degli interessati e né a difesa di quelli che, come me, lo subivano. Ricordo in prima media compagni di classe di 16 anni, pluri-ripetenti con cui lo scontro individuale era fuori discussione a priori, sia per la differenza di età sia per il fatto che erano ragazzi costantemente muniti di coltello a serramanico e catene. Stesso discorso con quelli più abbordabili dal punto di vista fisico, con il rischio di vederli poi tornare accompagnati dai numerosi fratelli maggiori, in scala come i Fratelli Dalton. E la partita non poteva essere certo sospesa per manifesta inferiorità dell’avversario. I professori stessi erano a rischio, ricordo casi in cui il limite non è stato superato di poco. Non vi dico il trattamento per quelli un po’ babbionelli come me. Sì, mi direte, anche questo è bullismo, ma il materiale umano dava adito a poche speranze di recupero, tanto che in molti hanno seguito, come da copione, lo stesso destino che la famiglia di origine aveva loro riservato in alcune varianti: con eroina, quindi morte entro i trent’anni o conseguenze croniche sulle spalle della collettività, o senza droghe pesanti ma con un maggior orientamento al crimine, quindi carcere o affini, ancora sulle spalle della collettività.

Da qui, la mia risposta è stata che il bullo in questione, con i capelli dritti sulla testa e le scarpe che si illuminano quando corre, è sicuramente da tener sotto controllo, ma la sua pericolosità è relativa è può essere annientata dalla vostra intelligenza, dalla coesione di tutti contro uno, dal ridurre al minimo lo spirito di emulazione degli altri maschietti e dall’evitare che il fascino della cattiveria possa essere motivo di attrazione anche dalle bambine. No papà, mi dice mia figlia, a me sembra solo un deficiente. Ecco, brava, penso io, lascia perdere i deficienti.