estate parati

Standard

Si lo so che si dice “estote parati” gnè gnè gnè ma volete mettere il gioco di parole sul gioco del pallone e la stagione in corso? Tra i vaccini e l’aiutiamoli a casa loro, il torment-topic sui social per qualche settimana è stato il caso del portiere (per questo parati) diciottenne che, alle prese con la matura, ha preso baracca e burattini e se ne è andato in vacanza (per questo estate) prima di terminare con l’assessment finale il suo percorso formativo. Si chiama Donnarumma e perdonatemi se, prima di oggi, non l’avevo mai sentito nominare, per me il calcio è solo quello giocato con le dita e che risponde al nome di Subbuteo.

Comunque questo Donnarumma dev’essere anche uno bravo se persino le alte cariche dello stato si sono spese per invogliarlo a mettere, davanti alla sua carriera di pallonaro miliardario, quella di studente come tutti gli altri suoi coetanei, almeno per rispetto di quelli che miliardari non lo possono essere. Vi faccio l’esempio invece di una campionessa sportiva, che risponde al nome di Paola Egonu. Se non la conoscete, ieri l’altro ha superato il record di punti fatti nella nazionale italiana femminile di volley, portando il primato a ben 39 palle messe a terra. Ma a Paola le prestazioni da record non impediscono di far bene a scuola, tant’è che è impegnata o ha appena sostenuto gli esami senza rinunciare alla sua carriera di campionessa. Non so come sia finita la sua maturità, le auguro con tutto il cuore di aver superato la prova nel migliore dei modi e di aver stabilito un nuovo record sui banchi di scuola. La storia di Paola Egonu (ma c’è anche quella di Alessia Orro, la palleggiatrice della nazionale ed ex compagna di squadra della Egonu nel Club Italia, che è uguale) dimostra che, a differenza delle personalità dello show-biz come questo Donnarumma, i veri campioni dello sport non si tirano indietro di fronte alle complessità della vita.

EDIT: un ciaone a quelli del Corriere che, giustamente, prendono spunto anche da quello che scrivo io. Nell’Internet il concetto di l’ho fatto prima io non esiste per un cazzo.

io tifo contro

Standard

Comunque sappiate che io tifo contro. Se va bene, proprio me ne disinteresso, ma poi vedo quanto i Mondiali di Calcio vi prendono e allora apposta spero che l’Italia venga eliminata al primo turno. Anzi, perda in finale o umiliata con lezioni di supremazia sportiva dalle squadre tradizionalmente più invise ai nostri tifosi, la Francia in primis ma vanno bene anche Spagna, Inghilterra e Germania. Ma anche una sconfitta severa ma giusta da qualche compagine africana o asiatica nel girone eliminatorio, giusto a rimarcare il fatto che è bene lasciare il successo a chi ne ha bisogno.

Non seguo più il calcio dall’Inter di Bersellini e la nazionale dalle notti magiche inseguendo un gol. Anzi una volta ci sono pure rimasto male perché ero in Corsica in vacanza e non ricordo quale incontro ci fosse tra le due selezioni – Francia e Italia – e per quale trofeo. L’Italia perse proprio mentre seguivo involontariamente la partita in una brasserie e la mia fidanzata di allora ed io fummo dileggiati dal resto degli avventori in quanto avversari battuti, con fischi e classici canti da curva degli ultras. Mi spiace non conoscere il francese, se no avrei spiegato loro il mio disinteresse per gli sport di massa riconducibili ai numerosi status symbol che fanno del nostro paese il posto di tamarri che è, a partire dagli accoppiamenti tra giocatori e nullità televisive fino alla letteratura sportiva che supera qualunque altro tipo di informazione ed entertainment fino alla comicità dedicata ai fenomeni di costume che dilagano tra chi segue il calcio, grazie al culto di certe personalità che, in altri contesti, avrebbero necessità di assistenza o sostegno.

Se fossi stato in grado di esprimermi nella lingua di Platini avrei detto a quel nutrito ed esagitato gruppo di turisti interni (non c’entra ma vi siete mai chiesti perché la Francia è autosufficiente dal punto di vista turistico?) che, pur non avendo seguito la partita perché preso da un piatto di bouillabaisse, potevo unirmi al loro canto di vittoria tanto mi sentivo distaccato da quel campione di italianità fatto di tatuaggi, tagli di capelli discutibili e riti post-rete presi a esempio come standard di esultanza civile. E la cosa era continuata lungo la strada del ritorno dalla brasserie a casa ogni volta qualcuno notava lo stato di appartenenza della targa della mia utilitaria.

E se ogni tanto mi scappa di tentare un riavvicinamento, vengo a scoprire cose come quella che ho saputo poco fa che mi indurrà, anche quest’anno, ad esultare in caso di una nostra sconfitta. Perché comunque se cercavate un’occasione per smetterla di interessarvi al calcio e di seguire la nazionale ai mondiali, la cover di “Un amore così grande” dei Negramaro come inno degli azzurri ve la sta servendo su un piatto d’argento.

un lavoro di squadra

Standard

La prima cosa che mi chiesero fu se fossi doriano o genoano, in perfetta linea con il desiderio primitivo di categorizzare il nuovo membro del branco secondo quella dicotomia calvinista tipica di alcune città divise a metà da un muro ideologico, più che fisico. Io però non seguivo il calcio almeno da quando Berlusconi era entrato a gamba tesa nel campionato italiano e anche quella era stata una parentesi. Mi avevano entusiasmato qualche anno prima alcune prodezze sportive dell’Internazionale che aveva conquistato uno scudetto con un punteggio record in classifica, un’infatuazione durata pochissimo e terminata con la cessione di Diaz che lasciò il posto a Jurgen Klinsmann e la conseguente rottura dell’equilibrio che aveva portato i nerazzurri a un successo così ampio. In tutto una ventina di mesi di tifo. Prima di quello, l’ultimo ricordo che ho di me davanti a un schermo intento a seguire una partita risale ai mondiali del 78, io in lacrime dopo i due gol che Dino Zoff aveva subito contro l’Olanda da due tiri da lontano e mio padre che mi minacciava dicendo che non mi avrebbe più lasciato seguire un incontro se non avessi imparato a dare la giusta gravità a una sconfitta della nazionale.

Così quando in occasione della prima uscita a pranzo con i nuovi colleghi mi venne rivolta questa domanda dall’ingegnere che era anche uno dei due soci dell’azienda con cui avevo da qualche giorno iniziato a collaborare, rimasi sbalordito perché erano quasi dieci anni che saltavo a piè pari le pagine sportive di Repubblica e anzi al lunedì non compravo nemmeno il giornale perché ritenevo la percentuale degli articoli dedicati al campionato indegna per una società sviluppata dell’occidente europeo come la nostra, o almeno come mi illudevo che fosse. Ma dovevo aspettarmelo che iniziando a lavorare per una software house ad alto tasso maschile e ingegneristico le probabilità di essere messo di fronte a domande come quella potessero essere elevate, è che speravo che il momento non arrivasse così presto. Così proprio mentre percorrevamo in linea i portici di Sottoripa direzione Gran Ristoro per raggiungere una tavola calda molto più dozzinale della paninoteca più fricchettona di Genova, il boss mi mise davanti alle mie responsabilità e lo fece a tradimento, dinanzi a tutti i miei nuovi colleghi.

Il primo istinto fu quello di inserire un elemento di discontinuità dichiarando la mia passione per una squadra oggettivamente più forte, un argomento che avrebbe messo a tacere ogni discussione se non su presupposti campanilistici. Ma non mi andava di dire tengo per l’Inter o la Juve o tantomeno il Milan di Forza Italia. In seconda istanza pensai a un outsider, ricordavo un mio compagno di liceo che era un supporter della Fiorentina ed era ligure quanto me e tu non potevi dirgli niente perché era sempre fuori dalle dinamiche competitive, così pensai alla stessa Fiorentina o al Torino o al Brindisi che aveva una divisa che mi piaceva da morire, bianca con una v blu davanti e avevo anche la squadra del Subbuteo. Ma se poi qualcuno fosse andato in profondità con domande tipo che ne pensi di quell’attaccante venduto o di quell’altro terzino più forte della serie B, avrei potuto fare una figura pessima e precludermi la fiducia se non addirittura la carriera futura. Che con il senno di poi forse avrei fatto meglio a finirla prima di incominciarla, ma questa è un’altra storia.

Così decisi di dire la verità tutta la verità nient’altro che la verità e confessai che, in fatto di calcio, mi ritenevo agnostico. Mai termine fu però più fuori luogo perché l’ingegnere capo aggrottò le sopracciglia forse pensando in quale team potessero riconoscersi i tifosi agnostici, d’altronde c’è anche una squadra di Bergamo che si chiama Atalanta, ma non voglio pensare che non conoscesse il significato della metafora che avevo usato per schernirmi in modo così poco virile. Ed è anche probabile che si sia sentito un po’ preso in giro e lui, in quanto maschio alfa designato per la superiorità di grado, abbia visto attentare alla sua autorità con un vile gesto anarchico del primo venuto. Così l’ingegnere capo liquidò la conversazione con un sogghigno e per riconquistare il territorio perduto si rivolse ad alzare la gamba dove sapeva di trovare terreno fertile per uno scambio di battute sul derby imminente, quell’altro ingegnere che come nelle più classiche storie di vita in azienda si lasciava battere a squash per scalare l’organigramma societario. Sentendomi in colpa e con l’obiettivo di sdrammatizzare il confronto, sfidai la sorte ordinando a pranzo lo stesso piatto che aveva scelto l’ingegnere capo, un secondo scaldato da schifo al microonde, e al suo commento di approvazione a suggello di inequivocabili versi di soddisfazione rincarai la dose, esaltandone le qualità organolettiche ma usando una terminologia più alla portata.