una vita sul grande schermo

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Nel film a lui dedicato chiaramente la musica gioca ovunque un ruolo preponderante, e non potrebbe essere che così, ma l’inizio è sensazionale. La telecamera inquadra per qualche secondo una porzione di uno studio televisivo vuoto ma molto illuminato e con un effetto glitterato. Parte la sigla che è “Sugar baby love” dei The Rubettes, con quell’intro con i cori che sovrappongono le quattro note dell’accordo di settima dominante che poi risolve nella tonalità: il piano si allarga e a ogni nota un membro della band, prima di spalle, si gira di fronte con un solo balzo a ritmo fino a quando il solista si lancia nell’acuto in falsetto che ha reso celebre quel pezzo. Ma al posto dei musicisti veri ci sono tre ragazzini. La batterista è seduta su una sedia e muove le mani percuotendo con un paio di bacchette invisibili tamburi inesistenti. Il pianista pesta le dita su un tavolino. La cantante tiene un manico di scopa inclinato di fronte a sé e lo muove avanti e indietro, seguendo il tempo, con un battipanni a tracolla. Non è nemmeno finita la prima strofa che la canzone e le immagini si fondono in tutt’altra atmosfera. Il pianista ora ha un vistoso set di sintetizzatori davanti, è evidentemente cresciuto, e accompagna dal vivo un cantante che, inquadrato subito dopo, urla al microfono un lamento d’amore ripetendo “I can’t feel love no more”. Non c’è più traccia di quella luminosità glam delle immagini precedenti. La luce è asettica per trasmettere meglio la realtà della nuova scena: un gruppo in concerto male illuminato davanti a una platea di una manciata di persone che ascoltano scettiche una musica troppo poco conosciuta. Ora riprendo la visione così poi vi dico se vale la pena andare a vederlo al cinema o tanto vale aspettarlo alla tele.

tutti insieme appassionatamente

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Mia mamma non si ricorda l’ultima volta in cui è stata al cinema. Cioè non è che proprio non si ricorda, dice così come quando si vuole sottolineare il fatto che è trascorsa un’infinità di tempo dall’ultima volta in cui si è fatto qualcosa. Ci tengo a rimarcarlo proprio perché quando si parla di anziani e memoria è sempre bene andare a fondo delle cose. Mi racconta del concerto di Peppino Di Capri a cui ha assistito con mio papà all’Astor – che era un cinema-teatro che non esiste più – quando erano ancora fidanzati e delle serate trascorse da giovane a vedere film nelle sale sature del fumo delle sigarette accese e della puzza dei mozziconi spenti, a questo proposito pensate a come è migliorata la qualità della vita degli esseri umani da quando è stato imposto il divieto di fumo nei luoghi pubblici. Non ci si crede: qualche giorno fa in treno un tizio un po’ spostato si è acceso una sigaretta seduto sui gradini e il flashback è stato devastante: come abbiamo potuto convivere per secoli con tali esalazioni rimane un mistero. E anche i miei genitori fumavano al cinema, ma questo appunto talmente tanti anni fa che mia mamma non si ricorda di avere visto un film sul grande schermo.

Non credo volesse farmi sapere che le piacerebbe essere accompagnata al cinema, perché me l’avrebbe chiesto direttamente e poi da quando mio papà non c’è più è ancora più restia di prima nel mettere il naso fuori di casa. Ma il punto è che mi ha fatto riflettere su quante volte mia moglie ed io abbiamo accompagnato al cinema nostra figlia. Magari mi sbaglio, ma credo che per un bambino vedere un film con i genitori sia un’esperienza divertente. Anche in questo caso, oramai del passato. Mia figlia si spara tutti quei film per adolescenti che vanno di moda ora tipo Hunger Games o Maze Runner e di certo non vuole adulti tra le palle durante la proiezione ma solo amiche fanatiche come lei. Ma prima che i feromoni prendessero il sopravvento ricordo bei momenti passati insieme a vedere cartoni o film intelligenti.

E dato che probabilmente ci comportiamo con i nostri figli come avremmo voluto che i nostri genitori si fossero comportati con noi, o magari invece facciamo così perché loro l’hanno fatto con noi e la cosa ha funzionato, il passaggio successivo della mia riflessione è stato che anch’io non ricordavo l’ultima volta in cui ero stato al cinema con mia mamma e mio papà. Anzi, se proprio devo dirla tutta, secondo me tutti insieme non ci siamo mai andati. Ho ancora vivi nella memoria certi film visti solo con mio papà nel vecchio cinema Verdi del paesino in cui soggiornavamo in estate. Titoli del calibro di “Dove osano le aquile” o “Il corsaro nero” con Tony Renis, giuro, in cui c’è una scena in cui ci sono degli uomini su una scialuppa e uno chiede al personaggio interpretato da Tony Renis “Tu chi sei?” e quello risponde con il suo nome che non ricordo, e mio papà ha gridato “Ma va, tu sei Tony Renis”. Al cinema in città invece abbiamo visto insieme “Lo squalo”, roba che poi ho avuto paura per il resto della mia vita.

Ma la questione aperta è perché non siamo mai andati tutti insieme, loro, io e le mie due sorelle. Forse perché in cinque al cinema era un investimento mica da dopo. Lo facevamo anche noi: a meno di occasioni speciali o proiezioni al cinema parrocchiale, il cartone animato nel multisala a dieci-dodici euro a zucca lo si vedeva in due, non in tre. Fino a quando poi è subentrato l’espediente del film con le amichette, in cui entrano solo i bambini – quindi si paga un biglietto – e i genitori stanno fuori ad aspettare o vanno ad assistere a uno spettacolo più interessante. Forse la formula dei miei era la stessa, forse non era così comune fare le cose tutti insieme, forse andare al cinema era un’occasione speciale e lo si faceva una volta l’anno magari il pomeriggio di Natale e basta.

home theatre

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Mi sono addormentato al cinema in vita mia solo una volta, ma ho la giustificazione signora maestra. Avevo due giorni e due notti di lavoro consecutivi alle spalle e, pur avendo trascorso il pomeriggio a letto, alla fine mi ero lasciato convincere. Il film era molto divertente, “Fratello dove sei?”, e malgrado tutta la mia buona volontà sono crollato nei primi dieci minuti per svegliarmi poi sui titoli di coda. Ammetto di aver visto il film anni dopo, e pur adorando i fratelli Coen un po’ ho capito il perché di un così scarso coinvolgimento.

E una volta sola ho lasciato la sala a metà proiezione, insomma sappiamo tutti che l’unico modo per ammortizzare la spesa del cinema è quello di andare fino in fondo anche se la storia non convince e si fa di tutto per resistere. E “La mia Africa” non mi aveva convinto per nulla, anzi per dirla tutta mi aveva fatto due maroni che non vi dico, per di più allo spettacolo del sabato sera con la sala gremita. Ho approfittato dell’intervallo per uscire a bere qualcosa, morivo di sete e probabilmente pagavo lo scotto di una pizza con le acciughe, un classico del divertimento gastronomico. Il bar era a fianco del cinema. Lì ho incontrato un paio di amici e non sono più rientrato, lasciando la mia fidanzatina dell’epoca sola con l’altra coppia con cui ci accompagnavamo, ma non ricordo se se la siano presa oppure no. Forse si, tenete conto che è passato tanto tempo.

Poi ci sono alcuni film che non ho proprio visto, sapete come si faceva una volta quando non c’erano molte opportunità per trascorrere momenti a tu per tu con la propria amata. In questa categoria rientrano titoli del tutto irrilevanti del cinema per adolescenti dei primi anni ’80, roba che “Il tempo delle mele” in confronto è Inarritu. Ecco, anche il film che ha segnato la mia generazione a tredici e quattordici anni ha la sua storia, perché ricordo che non riuscimmo ad entrare tanta coda c’era fuori, era un sabato pomeriggio, e proprio a causa della calca sfumò per sempre un’occasione di quelle che poi non capitano più, ci siamo capiti. Chissà se fossi entrato, magari la mia vita sarebbe stata tutt’altra cosa. Ho rivisto anni dopo non lei, quella dell’occasione, ma Sophie Marceau completamente nuda in “Al di là delle nuvole” e finalmente si è spezzato un incantesimo.

Poi ci sono stati gli anni del cinema da solo perché il resto mi annoiava. Le tessere del cineclub con centinaia di timbri e ogni quindici ne avevi uno gratis. Costava poco e mi permetteva di entrare in quella che era la dimensione che preferivo: sedili comodi e poco meno di due ore altrove, un posto differente ogni sera. Un periodo in cui ho visto davvero di tutto, e andavo matto per il cinema dell’estremo oriente, film come “Cyclo” che quando c’è la scena in discoteca con Creep dei Radiohead stavo per piangere, ed ero l’unico spettatore in sala allo spettacolo delle 22.30 e quindi non se ne sarebbe accorto nessuno.

Ma l’esperienza più intensa l’avevo avuta molti anni prima con “The wall”, visto in condizioni diciamo non proprio lucidissime, seduto a terra davanti alla prima fila della platea a causa del tutto esaurito. La scena di inizio, quando i ragazzi sfondano le porte dopo il ronzio della lucidatrice, il tutto a pochi metri dal grande schermo. Un’esplosione che mi ha cambiato i connotati, sono sicuro che non dimenticherò mai quella specie di colpo di frusta che ho preso.

Ora il cinema è vera evasione, nel senso che mia moglie ed io cerchiamo di scappare e lasciare nostra figlia a parenti o amici, quindi ci fiondiamo a vedere i film ma solo quelli davvero imperdibili, che negli ultimi otto anni, da quando siamo appunto genitori, si contano sulla punta delle dita. Non che siano pochi i film, è che sono poche le possibilità. Altro che evasione. Il resto, tutto il resto, lo vediamo qui, ma nemmeno alla tv. Proprio sul portatile, al buio e con le cuffie per non disturbare nessuno, al caldo delle coperte del letto. Che non è proprio la vera magia del grande schermo ma ha un suo perché, credetemi.