un gran bel pezzo di quadro

Standard

Non vedo così come possa suscitare polluzione la vista di una vagina artistica “as is”, avulsa cioè dai contorni pornografici patinati a cui l’immaginario maschile alle soglie della pubertà associa ormai il proprio futuro prossimo obiettivo primario. Ma, è un dato di fatto, la genitrice dei cretini è sempre gravida, e, dato il contesto, non esiste affermazione più appropriata. Continua a leggere. (da Alcuni aneddoti dal mio futuro del 31/03/2011)

Disclaimer: in estate chiunque si barrica dietro un autoreply di chiuso per ferie e mette in sua vece un ologramma giusto per tenergli caldo il suo centimetro quadrato di spazio on line per il ritorno. Sapete, di questi tempi meglio non lesinare in sicurezza, i posti si fanno presto a perdere e mettere un surrogato di sé stessi può essere una strategia vincente. Così noi che apparteniamo a una sottospecie di categoria di esodati ma solo perché abbiamo preso parte come milioni di altri alle partenze molto poco intelligenti, ma allo stesso tempo non vogliamo che vi dimentichiate di noi, abbiamo pensato di pubblicare in questo periodo di vacanza qualcosa di già edito, nostro o altrui, o qualche pezzo a cui siamo particolarmente affezionati. Ciò non toglie che l’ispirazione, dai mari della Sardegna, faccia capolino di tanto in tanto.

radici

Standard

La comune provenienza è un buon argomento di discussione? Non durante un colloquio di lavoro se, come me, siete imbevuti di provincialismo fino alla punta dei capelli. Perché poi è inevitabile sondare le conoscenze, ed è chiaro che se siete entrambi di New York non verrà mai in mente a nessuno dei due di chiedere se l’altro conosce Jack o Stan. A New York ci abitano miliardi di persone.

Ma se il manager che vi sta esaminando è nato in quel paesino dove avete trascorso un periodo importante della vostra vita, vicino alla città in cui siete nati e dove vi recavate al sabato perché c’era quel locale che metteva la vostra musica preferita, e poi ci si andava a rimorchiare, e poi c’era anche il gruppo di amici, la congiunzione di eventi riposiziona su on quell’interruttore che la grande in città vi ha messo in stand-by.

In meno di un secondo la meeting room in cui chi vi sta selezionando, quello che potrebbe essere il vostro futuro capo, vi ha appena servito sotto gli occhi il suo biglietto da visita con quel cognome che lascia fugato ogni dubbio circa i suoi luoghi natii, quella stanza non ha più pareti e va fuori fuoco per lasciare spazio alla panchina sul lungomare di quasi trent’anni prima. E allora voi che non riuscite a trattenervi, nemmeno di fronte al tizio che ha pure le iniziali ricamate sulla camicia e sembra rinnegare origini che gli vanno strette come le punte delle scarpe che calza con orgoglio, gli buttate lì un “ma tu sei di Cogoleto?”

“Si”, risponde con disinvoltura il manager, ed è chiaro che avendo il vostro curriculum sotto il naso vi avrebbe potuto mettere subito al corrente del particolare, e se non lo ha fatto un motivo ci sarà, no? Ma vi va di fortuna che il manager in questione è meno rigido di altri, e smorza la tensione con l’inciso sul paesello, su come era allora, perché tra l’altro siete anche coetanei, e come è oggi.

Ma la débâcle è dietro l’angolo, quando è lui a stuzzicarvi chiedendovi di fare qualche nome, contando sulla conoscenza comune. Perché siete ingenui, e senza alcuna valutazione sulle conseguenze fate il nome di Luca P., con cui avete trascorso nottate inenarrabili. “Ah Luca? Ma è mio cugino!” incalza lui, un sorriso che si spalanca qualche secondo, uno sguardo di intesa che poi si spegne subito, contemporaneamente al vostro, e gli occhi, i suoi, tornano sulle vostre esperienze professionali stampate in un A4.

Luca era un noto pusher, si è fatto anche un paio di giorni dentro, ed è chiaro che l’empatia tra voi e il vostro ex potenziale nuovo capo non può basarsi su trascorsi così torbidi. Anche se sarebbe stato peggio scoprire di aver condiviso la stessa ragazza in una storia d’amore importante per entrambi. Magari pure contemporaneamente. Chissà.

bum cha bum bum cha

Standard

– Leggo qui nel tuo curriculum, tra le varie competenze e attitudini, la voce beatbox. In che senso?
– Beatbox, la batteria con la bocca. So fare la batteria con la bocca, suono con un gruppo hip hop molto noto a livello locale, i Xxxx, non abbiamo strumenti e il dj fa solo scratch e niente ritmo. Prima rappavo anche io, poi quando si è trattato di scegliere se prendere strumentisti o suonare con le basi abbiamo pensato che il nostro stile sarebbe stato più crudo e grezzo senza musica. Solo ritmo. Vuoi che ti faccia sentire qualcosa?
– No, ma….
– Bum tz k tz bu-bu-bum k tz
– Vabenevabene, ho capito, cioè sapevo il significato di beatbox ma non capivo il senso di inserirlo come voce in un curriculum, cioè in un curriculum per candidarti a una posizione di web designer.
– Ah, certo, ma nel curriculum ho messo tutto quello che so fare, ho pensato che non avendo così tanta esperienza di agenzia ma avendo fatto anche tanti altri lavori, il beatbox potesse fare massa.
– Massa?
– Si, fare numero. Se suonavo la chitarra lo avrei scritto (sic), dal mio punto di vista il canto è uno strumento come gli altri, il beatbox lo faccio con la voce, quindi ha senso metterlo nel curriculum. La mia band comunque mi fa guadagnare qualcosina, tra concerti e set, quindi perché no?
– E da quanto tempo ti occupi di beatbox?
– Vivo hip hop da dieci anni, più o meno, ho imparato quasi subito, in freestyle. Sai, senti i pezzi e inizi a tenere il tempo sopra. Con il microfono e qualche effetto le possibilità sono infinite. Vai a vedere il nostro myspace, ci sono un po’ di pezzi, davvero, non è male, abbiamo anche un contratto con un’etichetta indipendente, abbiamo suonato al Yyyyyyy la scorsa primavera.
– E tu fai la batteria con la bocca.
– Esatto, il beatbox. Tu invece che musica ascolti? Non in ufficio, intendevo che musica ascolti in generale.

un gran bel pezzo di quadro

Standard

Avete presente, vero, il dipinto “L’origine del mondo” di Courbet? Quello sul quale si protrae un dibattito a corsi e ricorsi storici, a seconda del livello di bigottismo imperante? Intanto rimando al pezzo di Mantellini, con tutti i richiami al nuovo impasse, ovvero la riproduzione del soggetto su un catalogo di una mostra del Mart distribuito a una scolaresca elementare. Lo stesso target che a 8 anni ha già visto e sentito tutto quel che c’è da vedere e sentire sul sesso in tv, sui cellulari, in internet, nelle edicole, quando i bimbi lasciati allo sbaraglio vanno a comprarsi gormiti e altre varie amenità, e non lesinano sbirciatine a destra (nel senso di Panorama) e a manca (nel senso dell’Espresso).

Non vedo così come possa suscitare polluzione la vista di una vagina artistica “as is”, avulsa cioè dai contorni pornografici patinati a cui l’immaginario maschile alle soglie della pubertà associa ormai il proprio futuro prossimo obiettivo primario. Ma, è un dato di fatto, la genitrice dei cretini è sempre gravida, e, dato il contesto, non esiste affermazione più appropriata. Come al solito lancio il sasso e ritiro la mano, evitando di tuffarmi nel dibattito. Ma trovarmi nuovamente a tu per tu con la nostra comune origine, mi ha riportato alla memoria un colloquio di lavoro che sostenni molti anni fa, quando ancora ero alla ricerca dell’occasione della vita, e, reduce dal fallimento dell’agenzia in cui lavoravo, in piena bolla Internet, rispondevo ad annunci anche non proprio perfettamente in linea con il mio profilo.

Mi ritrovai quindi nello studio di un noto professionista in ambito ricerche di mercato e indagini statistiche. Avevo preparato fino all’ultimo dettaglio quell’incontro: le premesse c’erano tutte, sia in termini di paga che di tipo di prestazione, compresa la possibilità di continuare la mia attività di freelance, che a quei tempi più floridi costituiva la migliore e più proficua alternativa allo stress da lavoro fisso. La persona che mi aveva contattato, inoltre, svolgeva anche l’attività di docente universitario, il che mi avrebbe permesso di approcciare un mercato nuovo. Inoltre, mi avrebbe messo a disposizione un ufficio nel suo studio, da utilizzare a piacimento, anche per altri lavori. Insomma, c’erano tutti i presupposti dell’opportunità della svolta.

Ma appena entrai mi resi subito conto che non sarebbe stata una passeggiata. L’ostacolo principale tra me e il nuovo lavoro era appeso alle spalle dell’intervistatore, e aveva sembianze piuttosto note. Dietro di lui e della sua scrivania, rivolta verso di me, campeggiava una riproduzione in scala uno a uno proprio del dipinto di Courbet, in tutta la sua espressività. Mi trovavo quindi di fronte ad un doppio interlocutore, uno loquace ed uno muto, quest’ultimo di gran lunga più impegnativo, impossibile da non considerare perché sfondo dell’intero campo visivo. Probabilmente faceva parte del gioco, un occhio super partes con la funzione di formulare le domande più difficili: chi sei, cosa ci fai qui, ti ricordi di me, sai da dove vieni, come ti comporti in mia presenza, quesiti prevalenti rispetto a quelli più di routine, inerenti la mia esperienza.

E l’essere a tu per tu con Courbet, per non dire con quel dettaglio, in modo così decontestualizzato, è stato fatale. La vagina ha prevalso con il suo monologo, neutralizzando ogni dialogo tra me e il mio intervistatore. Quindi non i miei lavori svolti, non la mia richiesta economica, non il mio look poco business hanno influito su quella selezione. Il mio sguardo e la mia attenzione si alternavano: lui, lei, lui, lei, lui, lei. Così sono stato smascherato. Avevo fallito il vero test psicoattitudinale, la prova di resistenza allo stress, colto e messo ko da un attacco di Sindrome di Stendhal, ammesso che così possa definirsi.

L’esperienza si è conclusa come da copione, Sono stato liquidato con il solito “le faremo sapere” di circostanza, una stretta di mano, un ultimo sguardo d’addio alla madre di tutti i colloqui, di tutti i giovani in cerca di lavoro, di tutti gli intervistatori, di tutti i docenti universitari, di tutti, e poi via, avanti il prossimo candidato. Vogliate fare tesoro di questa mia esperienza per i colloqui a venire e ricordate: mai sottovalutare l’ansia da prestazione.