secessione

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Non so a voi, ma a me che si lanci da un palco come quello del concertone del primo maggio lo slogan “l’Europa ci chiede soldi, noi diamo musica” mi sembra enormemente inappropriato. L’ho sentito ieri in diretta – d’altronde pioveva e tutto sommato si tratta di una manifestazione a cui sono affezionato se non altro perché vi ho suonato anche io – e ne ho provato un immediato fastidio, poi sepolto, come si può leggere qui, da altri ben più rumorosi disagi. E poco fa ho riletto la stessa frase sulla home di un quotidiano come sintesi dei messaggi scaturiti dalla giornata di ieri, e a freddo ho capito perché l’ho sentito così fuori luogo. Intanto, e qui torno a ripetermi, dubito che l’Europa voglia la nostra musica, almeno quella che abbiamo ascoltato ieri nella prima parte dell’evento, che per fortuna ha preso una svolta più piacevole con la tripletta Caparezza – Subsonica – Almamegretta, a parte l’inqualificabile esibizione di Mannarino, che poi chi cazzo è Mannarino che suona nella parte più seguita del concerto. E spiace dirlo ma tutti quei gruppuscoli che si sono alternati, alcuni anche con pezzi in inglese, non costituiscono una moneta valida per uno scambio internazionale. Secondariamente, in un momento in cui dovremmo fornire risposte concrete e affidabilità, l’Europa ci chiede soldi in Euro e niente altro, più impegno e meno tarantelle. Quelle teniamocele per noi, anzi per voi, anzi avvisatemi quando avete finito di suonarle.

su coraggio

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È facile per noi vecchi brontoloni piazzarci davanti a raitre, seguire il concerto del primo maggio e dichiarare con estrema facilità che, almeno nella prima parte della kermesse (sono le 19.20 circa), non se ne salvi nemmeno uno dei gruppi e artisti italiani che si sono alternati sul palco. Che tra i Sud Sound System, gli A classic education, Teatro degli orrori e tutto il resto di cui non ricordo nemmeno il nome, ah i Nobraino e Dente e quelli di Scampìa, insomma decretare il più imbarazzante di tutti è impresa ardua. Che si perpetua quel vuoto culturale per le nuove generazioni che ci ha messo tutti sotto tono, perché tra canzoni, musicisti, presentatori, messaggi e contenuti proprio non si salva nulla, ma probabilmente è perché i giovani migliori se ne vanno all’estero ma se potessi scegliere all’estero ci manderei tutti questi qui. Che siamo così piccoli e insignificanti che probabilmente non si giustifica nemmeno la nostra esistenza, tanto che una band italiana la riconosci dalla prima pennata sulla chitarra come un film italiano dal primo fotogramma e un autore italiano va be’ ci siamo capiti. E che, per fortuna, un certo tipo di musica al mondo ce l’abbiamo solo noi. Per fortuna per gli altri.

groupies e badanti

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In realtà, non ho ben chiara la mia opinione in proposito. Vediamo alla fine che quadro viene fuori, per fare un bilancio.

Quando è terminata l’esibizione di Eugenio Finardi, ieri, il set con cui si è aperto il Concerto del Primo Maggio 2011 (sì, duemilaeundici) la prima reazione è stata “uau”. Finardi, classe 1952, quindi alle soglie dei sessanta, si è presentato sul megapalco di piazza San Giovanni accompagnato da una band di agguerritissimi ragazzini (almeno in confronto a lui) rockettari e tecnicamente ineccepibili. In scaletta, oltre all’Inno di Mameli versione rock-blues, Extraterrestre e La radio, due brani composti tra il 1976 e il 1978. Mancava solo Musica Ribelle, e la Sacra Triade dei successi di Finardi sarebbe stata al completo.

Ora, il pubblico sotto palco nemmeno era nato quando Finardi schitarrava con Camerini a Parco Lambro. Non ho nulla contro Finardi, sia chiaro. Ma perché, signor Finardi, quando le è stato proposto di aprire le danze della principale ammucchiata demago-sonora dell’anno non ha risposto con un “ragazzi, sono onoratissimo ma non è il caso. Ho sessant’anni. Vi propongo al mio posto un gruppetto che ho sentito, tutti ventenni, davvero ganzi, si chiamano XYZ e li ho sentiti nel pub sotto casa”. È la solita menata (per usare un termine da musica ribelle) della gerontocrazia, un concetto quanto mai appropriato a proposito di Cramps e Finardi, misto all’assenza della meritocrazia, anche in questo settore.

Perché Finardi non lascia spazio. Non so se la colpa sia sua, o degli organizzatori del concerto, o dei sindacati, di quelli che scrivono gli articoli una volta ricevuto il comunicato stampa, magari anche mia che di anni ne ho 44. Non lasciamo spazio. Ma non mi è chiaro a chi, dovremmo lasciare spazio. Perché nessuno se lo prende? Spulciate qui, è il principale portale di musica italiana “nuova”. Chi mettiamo al posto di Finardi? Perché prima di riappropriarsi dello spazio sul palco, è necessario occupare lo spazio sotto. Quello dei consumatori, chi canta le canzoni, se le scarica, va ai concerti, scrive le proprie opinioni sui blog, chi dice è bello o fa cagare. Schiodare da lì sotto i fans di Vasco Rossi. A quel punto, se staccate l’ipod e riattaccate il jack all’ampli, riuscirete a tornare là sopra, perché quel palco sarà finalmente vuoto. E il punto uno l’ho smarcato, credo.

Anzi no, un’ultima domanda: quindi lei, signor Finardi, se dovesse sintetizzare la sua vita artistica in 15 minuti per un pubblico vasto, eterogeneo, ignorante e non, come quello di ieri, rinnegherebbe così il resto della sua carriera? 35 anni di attività e sempre la Sacra Triade dei successi di Finardi dei tempi di Calloni e Lucio Fabbri? Tempi bellissimi. Ma così remoti. Mi viene in mente infine la rappresentazione grafica dell’artista-uomo-rocker. Una curva. Nasce cattivo, poi verso i quaranta scopre di invecchiare e si fa mistico, ammorbidito, pop se non adepto. E la curva discende verso l’asse orizzontale. Poi l’artista-uomo-rocker capisce che c’è tempo per l’andropausa, che l’ispirazione gli tira ancora e si butta nell’ultima impennata rock, difficilmente non patetica. Ma che lo riporta su. Con la panza e i capelli bianchi. Mi perdoni, signor Finardi, se la uso come capro espiatorio, sono certo che lei è quello che meno di altri fa fatica a restituire le chiavi dell’affitto dello spazio pubblico che ci è concesso in questa fugace società dello spettacolo.

Ma non è tutto. Poteva continuare peggio, il resto del Concerto? Sì. Bennato, Dalla, De Gregori, addirittura Gino Paoli. Gino Paoli, sì, lui, classe 1934. Luca Barbarossa. Ragazzi, ma chi diamine è Luca Barbarossa, come si fa a metterlo sul palco a impersonare, oltre se stesso, una società, una cultura o una visione?

E gli artisti emergenti? C’erano. I Subsonica, il cui chitarrista è del 63 e Caparezza, che è del 73. Bravissimi, io li adoro. Ed è giusto che ci siano le loro generazioni a rappresentare i tanto vituperati giovani, perché quelle sono sono state le ultime, in Italia, ad aver qualcosa da dire con più di 160 caratteri. Insomma, ho detto tutto e il contrario di tutto e, alla fine del post, non ho ancora una opinione in proposito.

Anzi, sì. Date un’occhiata al video qui sotto, che ho scoperto grazie a Inkiostro.

Ho visto il video prima di leggere l’articolo a corollario, non ho colto subito l’intento ironico (sono i papà dei 2 membri della band) e non ho rilevato particolare fastidio nel contrasto tra il colore dei capelli dei protagonisti e il loro stile di vita. Perché da queste parti, una cosa così, potrebbe benissimo succedere.

un amore di gruppo

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Ho deciso che se rinasco e mi viene data l’opportunità di rifare tutto da capo, cosa di per sè molto probabile, non cambio la mia vita nemmeno di una virgola se non alla voce “hobby e interessi”. Già. Penso che anziché imparare a suonare uno strumento musicale, nel mio caso pianoforte, tastiere, sintetizzatori analogici e ogni diavoleria sonora immessa sul mercato con l’avvento del digitale, connettibile al pc tramite interfaccia midi, prima, e usb, in tempi più recenti, mi dedicherò a un passatempo meno costoso, che so, la Formula Uno, e meno carico di aspettative, che so, fare il blogger. Anzi, ho intenzione di scrivere una lettera a mia figlia, nella quale spiegare che è meglio dedicarsi allo sport, alla lettura, ad amicizie normali e ad attività più salubri, rispetto a contornarsi di idioti perditempo (non solo batteristi) con i quali passare serate in scantinati e garage dall’inconfondibile fraganza di muffa, rincorrere personaggi dubbi quali organizzatori di concerti, impresari e discografici con cui si è disposti a scendere a ogni compromesso, e sognare una vita facile fatta di tour intorno al mondo e grupies consenzienti. Caro sangue nel mio sangue, ecco una lista alla Saviano di tutto quello che, se mi dai retta, nella buona e nella cattiva sorte potresti risparmiarti. Fai tesoro di quello che ha passato papà, e continua con scoutismo, yoga, pallavolo e nuoto, che ce n’è già abbastanza.

In ordine sparso: gestori di locali che non vogliono pagarti a fine serata; chilometri macinati in furgone, stipati come sardine tra corpi sudati, piedi puzzolenti e ampli polverosi (nel peggiore dei casi aste dei piatti che crollano addosso ad ogni frenata); numero di spettatori inferiore a quello di persone sul palco; tecnici del suono metallari residenti, non avvezzi all’amplificazione dei synth analogici; pomodori che lanciati dal pubblico fanno centro sulla tua maglia, nella piazza principale della tua città; cantanti che non si ricordano i testi; batteristi che non si ricordano la struttura dei pezzi, con i quali devi instaurare un sistema di messaggistica anticipata fatta di sguardi e curvature dell’arcata sopraccigliare.

Un bicchiere di vino bianco fresco e quattro chiacchiere piacevoli con Mara Redeghieri, a tavola il giorno dopo un concerto; chitarristi che si alzano di un paio di tacche rispetto al sound check; batteristi ostinati che considerano l’uso del metronomo un affronto ai loro studi jazzistici e prendono i pezzi ad un bpm totalmente aleatorio; fidanzate che passano dal cantante al tastierista e poi di nuovo al cantante, causando lo scioglimento del gruppo; gelati mangiati in autogrill prima di arrivare alla cassa.

Quelle sagome dei Tiro Mancino; pastori tedeschi della finanza che non ne vogliono sapere di uscire dal furgone fermo al posto di blocco, mentre fuori fa freddo e sono le 4 del mattino e vorresti tornare a casa, ma l’odore nell’abitacolo è inequivocabile; i materassi, riciclati chissà da chi, sui quali devi stenderti, se la paga è il rimborso minimo ovvero essere ospitati in un centro sociale; i bagni del centro sociale; il centro sociale; Carmen Consoli che prova i pezzi nel camerino con la chitarra acustica; i fattoni che ballano sotto il palco canzoni che sentono solo loro; il pubblico francese, misto, multietnico e di tutte le età, che sta ad ascoltarti malgrado il tuo sound tenda al punk noise industriale perché comunque è la festa della musica, ed è una festa; le serate di cover per tirare su qualche lira, oggi euro nelle tribute band; i turnisti che suonano senza cuore; i turnisti che suonano però meglio di tutti e che non riesci a convincere a sposare la causa; Luca De Gennaro e Paolo Conforti che ti fanno passare la voglia di frequentare l’ambiente dei gruppi underground.

I chitarristi punk morti di overdose; i chitarristi punk che prendono il metadone; quelli che suonano in canottiera; quelli che si presentano al concerto nel locale figo vestiti da ufficio; i genitori del più giovane della band che hanno la tua età; le sbronze prima del concerto; le sbronze durante il concerto; le vomitate dopo il concerto; le congestioni prese a fumare fuori dal locale in pieno inverno; Cecchetto che cazzia brutalmente regista e presentatore della trasmissione radio alla quale devi rilasciare l’intervista per un buio di una manciata di secondi; cannare in pieno la parte di piano di Because the night; cannare in pieno l’inizio di piano di Virtual insanity; convincere gli altri che suonare i synth non significa essere un pianista; la SIAE che ti fa la multa; l’inaugurazione del locale dove vanno le modelle; Giuliano Palma e Aliosha con le modelle che hai visto la settimana prima all’inaugurazione del locale; i batteristi che votano Bossi; mantenere una fedeltà alla linea; i parametri per essere considerato new wave.

Suoniamo prima dei Portishead, che poi significa suoniamo prima di un dj che ha aperto i concerti per i Portishead; Madaski che ti fa usare il suo mixer per le tue tastiere; la dinamica di diffusione di una rissa nel locale, che assomiglia alla meiosi cellulare; la pioggia che ti fa saltare il concerto e la paga della serata; Piero Pelù che viene nei camerini della Flog a complimentarsi con il tuo cantante; il liscio per mettere insieme uno stipendio; il furgone sepolto dalla neve, che ti costringe a tornare a casa in treno la mattina di capodanno; l’affidabilità, questa sconosciuta; fare 300 chilometri per essere intervistato telefonicamente da un giornalista che abita a 5 minuti da casa tua.

L’umidità che fa impazzire i circuiti elettronici vintage; i problemi alla schiena dopo decenni di strumenti trasportati ripieni di circuiti elettronici vintage; chi paga la sala prove in ritardo; chi dorme con la tipa in sala prove; le prove di mattina; le interminabili sessioni di registrazione; le interminabili sessioni di missaggio; Roy Paci che dà una dritta al tuo trombettista; ringraziare mamma e papà sul booklet; i cantanti maledetti; i cantanti che poi si mettono a fare i solisti; i cantanti che se ne vanno; i cantanti.

Dulcis in fundo, una reminiscenza perfetta per la chiusura di un post, un amarcord per il quale una battuta di una riga non basta, un rilancio da usare con gli amici durante le discussioni alla io ce l’ho più lungo. Un episodio che si trova meritatamente nella top ten dei momenti storici della mia vita. Magari anche nella vostra, in questo caso potrete capirmi se sapete di cosa parlo. E ve la tirereste anche voi. Siete pronti per il (o la) climax?

Il primo maggio del 1996 ho aperto il concerto omonimo, in piazza San Giovanni, a Roma, davanti a una folla di 400mila persone. Persone sicuramente distratte, a cui eravamo sconosciuti, accaldate e bruciate dal sole. Ma pur sempre 400mila. E c’era Sting, quell’anno, che ha accennato Message in a bottle al sound check, illudendomi, e poi ha suonato le sue solite melense canzoni pop da solista, se ami qualcuno lascialo libero e similia, con il suo gruppo di virtuosi. Sting, che nei camerini, fottendosene di chi avrebbe voluto avvicinarlo e del volume della musica che arrivava dal palco, se ne stava sdraiato su una chaise longue a leggere un libro all’ombra delle sue guardie del corpo. E poi è arrivato il nostro momento, il palco tondo che ruota e ci sbatte in faccia quell’oceano di mani che salgono. Pochi minuti, il palco ruota ancora, questa volta verso le quinte, e già devi scendere. Tornare a casa. E finisce così. E pensi che sarà per la prossima vita.