punto sul vivo, dal vivo

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Fondamentalmente, il motivo per cui non mi piace più come una volta andare ai concerti ĆØ il fatto di scoprire che altre ennemila persone hanno i miei stessi gusti e sono lƬ come me per il gruppo che credevo di nicchia ma che invece lo conoscono cani e porci che suona sul palco. Seguito a ruota da quelli che ballano fuori tempo, e se hai la sfortuna di essere uno come me che va maledettamente a ritmo e sente il groove da dio e ti capita davanti uno/a scoordinato/a che prende battere per levare, il rischio di collisione ĆØ assicurato. Non c’ĆØ niente di peggio che il contatto tra arti sudati e pelosi di sconosciuti.

Quindi, e credo di averlo giĆ  detto non ricordo in quale post, ho in dispetto le persone che passano il tempo a digitalizzare il concerto anzichĆ© goderselo come un momento indimenticabile che dopo un paio d’ore finirĆ , e sƬ avrai le tue foto sulla digitale o la clip con un audio impresentabile da postare immediatamente su Facebook tramite la tua app preferita, ma devi star lƬ a inquadrare, e poi ĆØ sfocato, e poi qualcuno ti dĆ  uno spintone, e il pezzo ĆØ bello che finito e tu non l’hai goduto appieno. Poi ci sono quelli/e dal look impeccabile, tremendamente cool che avranno passato ore a scegliere la maglietta più appropriata. Per esempio, una t-shirt dei Joy Division a un concerto di Sizzla. Originale, no? Può essere anche un’idea verticalizzarsi completamente, vestendocisi a tema secondo il concerto. Per esempio in giacca e cravatta agli Interpol. Ci sono i gruppi di amici che si vestono tutti uguali. Che teneri. Quasi sempre si tratta di band che si recano insieme al concerto dei loro principali ispiratori, non saprei altrimenti spiegare una tale abnegazione.

Come non fare un cenno quindi ai gruppi supporter, scelti spesso alla c***o di cane, ma peggio di loro sono quelli che vanno al concerto solo per i gruppi supporter scelti alla c***o di cane, e che quindi sono ancora più di nicchia di me. Che smacco. Mi rovinano la serata; il giorno dopo, per mettermi al passo, come minimo dovrò scaricarmi l’intera discografia e studiare sodo. Non si finisce mai di imparare.

Non reggo quindi l’area vip, quello spazio vuoto tra transenne che resta deserto fino a pochi minuti prima del concerto. E tutti si chiedono chi sarĆ  il vip o il fortunato possessore del biglietto omaggio che assisterĆ  al concerto in quello splendido isolamento. Per esempio, l’altra sera c’era Omar Pedrini. E pensate che c’ĆØ chi lo riconosce ancora; sono contento, mi sta simpatico soprattutto ora che non sta più con elenuar casalegno (in una intervista lessi che il partito più a sinistra che ha votato ĆØ forza italia, sarĆ  anche una bella ragazza ma non ce la farei mai).

Infine, per dirla alla Max Collini, sono sempre il più vecchio nel locale, per questo ho provato a farmi accompagnare da mia figlia all’ultimo concerto, quello di cui sopra, un paio di sere fa al Forum di Assago. Non vi dico di quale gruppo si tratta per non allontanare potenziali stimatori di questo blog che sono capitati qui grazie a keyword quali Tv on the Radio, National e altri gruppi realmente di nicchia, pensando di trovarsi a tu per tu con un vero cultore indie. Insomma, i trucchi di SEM e il SEO possono essere applicati anche cosƬ. Dicevo, 28 euro di biglietto, in tre 56 perchĆ© i bambini sotto gli 8 anni non pagano. Alle 19 mia moglie, mia figlia ed io eravamo giĆ  dentro, in posizione tattica: tribune in fondo, proprio di fronte al palco, prima fila davanti alle transenne, a ridosso dell’area vip. Potevamo anche utilizzare la bambina come scusa: “Hey amico togliti di mezzo, non vedi che la bambina non vede? Ma ce l’hai un cuore?”. Oppure “Ti sposti, vero, quando iniziano a suonare?”. E comunque la band in questione piace molto anche a lei.

Non vi dico la difficoltĆ  di tenere una bambina per 2 ore in attesa a un concerto, peggio che un viaggio in macchina e le domande rivolte ogni 100 metri “PapĆ , siamo arrivati?”. Qui ĆØ lo stesso: “PapĆ  quando iniziano?”. “Tra 50 minuti”. “PapĆ  quando iniziano?”. “Tra 49 minuti”. E cosƬ via. Il conto alla rovescia finalmente si interrompe. Si spengono le luci, il pubblico ĆØ in delirio, scattano tutti in piedi. Per fortuna che siamo in posizione strategica. Parte il primo pezzo. Tutto inizia a vibrare, la mia cassa toracica e, suppongo, anche quella di mia figlia. I bassi hanno una frequenza inumana, l’acustica del Forum che ricordavo scadente ma non cosƬ inqualificabile rimescola i suoni in una bolla appiccicosa che si attacca su tutto. I vestiti, la pelle e soprattutto l’umore. Io e mia moglie convergiamo gli sguardi sulla bambina, che si preme le mani slle orecchie e sta piangendo, spaventata.

Il concerto ĆØ finito, a metĆ  del primo pezzo. Usciamo dal Forum, fuori fa freddo, gli addetti alla sicurezza ci fanno passare e ci guardano severi. Non ĆØ un posto adatto per bambini. Probabilmente nemmeno per adulti genitori.

emancipate yourselves from mental slavery

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Il 27 giugno del 1980 ero lƬ, non proprio sotto il palco ma nella massa di persone arrivate un po’ da ovunque per un concerto che ĆØ giĆ  passato alla storia. Bob Marley a San Siro, Milano. Stavo con I., ai tempi, che aveva una R4 scura costantemente satura di fumo, in tutti i sensi. Soprattutto di fumo di fumo. Di canna. Ma I. ed io eravamo giĆ  passati oltre. E quel pomeriggio, stesi nel prato in attesa della sera, tra una canzone di Pino Daniele e un groove della Average White Band, ci siamo strafatti. Eroina, certo.

Eravamo in tanti a strafarci. Se mi guardo indietro, non c’ĆØ stata la solita gavetta. Le Camel, la canna e la siringa. C’ĆØ stata tanta sfortuna, molta emulazione, un incidente dietro l’altro, un po’ di debolezza e di disinformazione, solitudine percepita non a livello individuale, ma di massa. Un esercito di giovani, soli tutti insieme, specialmente nel posto dove sono nata e dove ho vissuto. Gli spari intorno e i boati delle bombe che deflagravano lontano, sƬ, qualcuna anche in cittĆ . Ma chi se ne importa, stava giĆ  tutto per finire. Meglio chiudere la realtĆ  in bianco nero fuori e concentrarsi sugli effetti stupefacenti e multicolore della droga. Hai mai provato l’eroina tu per parlare? Guarda, provala e poi mi dici. Non smetteresti mai.

E la cosa paradossale ĆØ come mi sono lasciata convincere a iniziare, cosƬ mi sono lasciata convincere a smettere. La mia famiglia si ĆØ ribellata e ho mollato I., quindi ho mollato l’eroina e ne sono uscita. Ma la sfortuna, dicevo. Non dalla sfortuna. Oramai si stava diffondendo come metastasi nella mia vita. Le scelte sempre sbagliate. Un marito alcolizzato, qualche anno dopo, quanto me. Ironia della sorte: ci siamo conosciuti in ospedale, entrambi giĆ  con il fegato a pezzi e l’epatite. Quando si ĆØ speso tutti i soldi del suo lavoro ancora in droga ĆØ scappato via, per fortuna.

Così ho puntato tutto sui miei genitori, su mia sorella, su un paio di cugini e qualche amico, quelli che però se ne approfittavano (avevate ragione voi, mannaggia), mi hanno chiesto soldi per i loro problemi e glieli ho dati. Praticamente tutti. Poi ancora tante bevute, un lavoro tutto sommato decente, ma che fatica. Qualche anno fa, infine, ho iniziato ad avere seri problemi. Psicofarmaci e alcol, a volte a giorni alterni, a volte contemporaneamente.

Avrebbe potuto essere altrimenti? Prima ĆØ morta mia mamma, poi poco dopo mio papĆ , che ormai era nel delirio più completo. Ed ecco che mi sono sentita nuda, non ho niente (se non una tetto che mi avevano comprato i miei, per fortuna) e non so cosa devo fare. Qui non c’ĆØ mai stato niente da fare. Sempre più vecchia, sempre più in crisi. Sempre a piangere, al telefono con tutti. E non c’era più mia madre, nessuno mi avrebbe più consolato.

Qualche mese fa, ho bevuto di brutto e preso le pastiglie. Sono salita sul motorino ma il coma etilico mi ha buttato giù. Hai pensato anche tu che fosse l’inizio della fine, vero? Io si. La polizia mi ha sequestrato lo scooter, non sarei potuta più andare al lavoro, ma quello era irrilevante. Il mio fegato ormai era finito. In ospedale sono stata messa in lista d’attesa per un trapianto. SƬ, un trapianto. Non me l’avrebbero mai fatto. PerchĆ© se continui a bere, perdi il tuo posto. Vai in fondo.

Mia sorella e la sua famiglia, gli unici rimasti a prendersi cura di me, sono stati cosƬ cari. Ho trascorso il natale con loro, gonfissima, ma con un po’ di speranza. Di essere fortunata, almeno una volta, nella vita. E lo sono stata: stanotte sono morta. Ho spento tutto, a 50 anni. Anzi, una polmonite mi ha spento. Fa sorridere, vero? Sopravvissuta a un investimento in vespa, siringhe condivise, botte di alcool e tranquillanti. ChissĆ  che altro che non ti ho mai detto. Per poi morire per una polmonite.

Scusa, ho perso il filo. Ti dicevo del concerto di Bob Marley a San Siro. Qualche settimana dopo, quell’anno, sul divano di velluto blu che era nell’ingresso di casa della zia, tua mamma. Io, tu, le tue sorelle. Ascoltavamo musica. Tu avevi 13 anni, giusto? Ma ti eri impallato con il reggae. Lo eravamo un po’ tutti ai tempi. Insomma, ho tirato fuori dalla borsa il biglietto, quella parte che rimane a chi va ai concerti, e che i fanatici come me e te tengono nel portafoglio. C’era Marley di profilo con una canna in bocca, su sfondo verde giallo rosso. Senza che me lo chiedessi ti ho regalato quella reliquia, visto che tu, a 13 anni, non avevi giustamente avuto il permesso di andare.

Senti però, prima che questa tua elegia funebre diventi patetica, e giĆ  lo ĆØ abbastanza, fai una cosa. Chiudi le virgolette, metti un punto e finiscila qui. E, se proprio vuoi dedicarmi un pezzo, che non sia Redemption Song“.

Ok Gabri, niente Bob Marley. Rimaniamo in silenzio.